la gaia educazione

la gaia educazione

martedì 24 luglio 2012

Il piacere ignorato: le fasi della luna di Paul Delvaux

I due più vestiti ignorano. Il grado di vestizione determina il grado di distrazione. L’occhiale sollevato del miope, che, sistemato correttamente, potrebbe dargli la vista della profferta di tanta bellezza muliebre, lo induce invece a chinarsi su un oggetto piccolo e inerte, forse esso stesso un occhio, in un circuito di febbre ossessiva e autoriferita. Il secondo uomo, lo sguardo gigantesco e inebetito, che ne sottolinea l’impotenza visiva, sosta attonito, i piedi piatti e larghi a denotarne l’adesione rigida al suolo, alla staticità inamovibile. Sono le figure dell’astronomo e del geologo, polarità irriducibili dell’ attitudine maschile alla distrazione, alla fissità e all’incapacità di godere, già incontrati altrove nella pittura di Delvaux, (nelle Fasi della luna III, in particolare (1942) . Emblemi del rifiuto ostinato e incomprensibile del dono. Dono che si protende infiocchettato, silente e imperturbabile, con un’espressione un poco beffarda, conscio della sua procace seduzione, il piccolo piede malizioso che infrange il limite della balaustra. Dietro la donna un tavolo con il globo terrestre, illuminato da una lampada, effigie forse della vera conoscenza, conoscenza “globale”, che non ha segreti, su cui la luce è sempre accesa, sempre che si riesca a percepirla. Giorno che incede verso il suo crepuscolo, con la luna che si affaccia sopra la scena, custodendone la cifra simbolica, accogliendola nella sua capace arnia di corrispondenze. E’ sotto la luna che gli uomini vestiti ignorano la donna che si offre nuda e infiocchettata. Sul fondo della scena un giovane semivestito, figure di limine e di transito, come il pifferaio di Hamelin, conduce una brigata di donne ignude in una sorta di corteo bacchico. Il giovane appare figura del possibile mentre, a contrassegnare l’ignavia imperdonabile dei due uomini in primo piano, accanto a loro, su una cassa di legno rovesciata, giace un oggetto che evoca le fattezze di un teschio, sub specie anamorfica, come negli Ambasciatori di Holbein. Autentico monito, nel centro dell’immagine, sulla caratura letale determinata dall’ignoramento, dalla diserzione dal desiderio dei due uomini.
A questo quadro può essere associato un altro lavoro di Delvaux, il Congresso (1941, ma anche gli Astronomi, 1961), dove questa separazione, tra uomini anziani, dai grandi occhi attoniti, vestiti e paludati, intenti in presunte attività intellettuali e donne nude o incoronate di splendidi cappelli, è albergata in un padiglione che ne rimarca l’impossibile e paradossale convivenza. Qui, sullo sfondo, ci sono degli scheletri che campeggiano nel vano di una porta, non a caso sull’asse del settore maschile. Uno degli uomini, mentre si allontana, sul lato occupato dalle donne, lancia uno sguardo furtivo e ipocrita, verso quella bellezza ancora una volta ignorata e elusa.
E’ un tema ritornante questo, nella pittura dell’artista di Liegi, che incontriamo anche in Ingresso nella città (1940), dove un paesaggio di stile classico, il paesaggio senza tempo che insiste su questa condizione irriducibile, custodisce la parata di bellezze sontuose che incedono come ipnotizzate sulla via, incoronate dalla natura, mentre gli uomini, come al solito, appaiono più distanti e attardati, vestiti, affaccendati, inghiottiti nelle volute di un agire ignaro della seduzione, del desiderio, del possibile. Solo un giovane, ancora una volta, seminudo, sta seduto in primo piano, mentre si accanisce a esplorare una mappa, forse la sua Mappa del Tenero, come insinua Jean Clair, forse in cerca di un passaggio che gli consenta di entrare in contatto con l’alone di mistero che avverte, presentisce, il mistero erotico così esplicito che quei corpi femminili spandono intorno, di cui anch’egli pare però non avvedersi. E non è forse questa la cifra del nostra stare, ripetuta proprio a beneficio di tutti i ciechi e i sordi che noi stessi siamo, ignari di quel possibile di puro piacere da cui siamo circondati, che è immediatamente alla nostra portata e che pure, a causa dei lacci infiniti in cui ci siamo intrappolati, per la nostra idiozia, ben vestita e inesorabilmente affaccendata, ci resta preclusa?
L’unico ad accedere, nel suo candore disinibito, resta il bambino, letterale ma soprattutto simbolico.

venerdì 20 luglio 2012

Ai venditori di competenza emotiva (repetita iuvant?)


La “competenza emotiva” è entrata prepotentemente nei percorsi di educazione dei bambini e dei giovani. Per molti ciò suona come una grande conquista. Finalmente anche la terra desolata e emarginata delle emozioni fruisce di uno spazio sistematico di elaborazione formativa nelle nostre scuole e nelle nostre università. Ma è davvero così? Anni fa (nel 2000 per l’esattezza), in un piccolo libro dal titolo Miti d’oggi nell’educazione e opportune contromisure, già mi espressi con sincera disapprovazione per il grande successo che i libri di Daniel Goleman raccoglievano presso il nostro mondo editoriale e presso molti docenti universitari. Oggi la mia preoccupazione non è per nulla calata benché talune esperienze di educazione emotiva, specie nelle scuole dell’infanzia, abbiano assunto i propositi golemaniani non sempre in una versione così radicale e strumentale come apparivano nel testo del loro vate. E tuttavia credo valga, e forse a maggior ragione la pena, di tornarci sopra per risottolineare come l’intelligenza emotiva abbia allargato i propri consensi, come si sia riprodotta con singolare e inquietante generosità e come, soprattutto, a tutt’oggi, i rilievi critici restino sostanzialmente inesistenti. Possibile? Possibile davvero che non ci si renda conto che l’illuminazione sistematica di questa sfera così delicata del nostro essere, a tutto profitto delle nostre prestazioni operative, -perché, come è evidente di questo si tratta nell’ideologia dell’intelligenza emotiva- non venga letta come un infausto, tra i molti, segno del tempo? Sia chiaro, la conoscenza delle emozioni, della loro genesi, dei loro effetti, della loro complessa fisionomia, è qualcosa che viene da molto lontano e non è dato preoccuparsi per essa. Così pure una deontologia emozionale, una terapeutica, un’elaborazione e sia pure dei metodi di contenimento e filtrazione delle emozioni, sono cose che hanno una storia assai lunga e molto colta (che compare assai poco però nelle sedi educative come oggetto di esperienza culturale). Ma la “competenza emotiva” è cosa che si staglia su questo scenario con una sua ben specifica e allarmante singolarità. Che si attesta chiaramente sul fronte degli studi di tipo neuropsichiatrico e neurocognitivo, dunque sul fronte della scienza dura e fortemente finalizzata ( e fortemente finanziata, non a caso) ma che soprattutto conduce i risultati di queste ricerche nella direzione di una “farmacologia”, e non soltanto di natura chimica, decisamente preoccupante. Ciò che già Goleman prescriveva alle nostre scuole alla fine del secolo passato, i corsi di alfabetizzazione emozionale, erano un’arma per imporre il dominio della ragione sopra il mondo delle emozioni. Ora, come già evidenziavo allora, le emozioni non sono una materia di natura razionale, come è evidente, sono la manifestazione sensibile delle nostre profondità, del nostro corpo, dei nostri istinti, o, se si preferisce, del nostro inconscio. Veicolano in forme molto diversificate le tensioni, le reazioni, le affezioni che patiamo nella nostra vita secondo differenti modalità espressive. Così proviamo e manifestiamo – legittimamente- tristezza e talora depressione quando siamo colpiti da una perdita, quando assistiamo a un evento drammatico o tragico. Proviamo e manifestiamo –legittimamente- rabbia quando siamo feriti da qualcosa o da qualcuno o quando siamo aggrediti o umiliati. Proviamo e manifestiamo –legittimamente- malinconia quando siamo immersi in riflessioni sulla memoria, sul trascorrere del tempo. E così via. Le emozioni sono il nostro ambito più autonomo, più indominabile proprio perché la loro genesi non appartiene al nostro io, giace più in profondità, è radicata nel nostro corpo animale. Il che naturalmente può essere sgradevole o addirittura intollerabile. Ciò è ovvio. Ma è essenziale, persino salvifico. Come potremmo ribellarci ad una situazione che ogni giorno ci mortifica e ci perseguita se non provassimo alcuna emozione, come una macchina? Come è noto infatti le macchine sono state create anche per sollevarci spesso da qualcosa che può essere troppo gravoso per noi, come molti lavori, molti, non a caso, travagli. Ma questa idea, quella cioè di sollevarci e sgravarci dal dolore che molte esperienze portano con sé, può essere sfruttata in maniera più sottile e pervasiva. Proprio attraverso la competenza emotiva. Goleman non ne faceva mistero. Per lui il quoziente emotivo, termine quant’altri mai rappresentativo di un’ideologia a forte connotazione pragmatica e produttivista, doveva essere registrato premiando la capacità di conoscere e dominare le emozioni (quelle negative) e ancora di saperle leggere negli altri (empatia), non tanto al fine di comprenderli, quanto al fine di essere più efficaci. Nel senso che se imparo a conoscere meglio lo stato d’animo dell’altro, sarò più abile ad intercettarne le attese e a manipolarlo secondo i miei interessi. In realtà, quello che propone Goleman e con lui tutta l’ideologia dell’intelligenza emotiva, è l’addomesticamento delle emozioni e il loro sfruttamento al fine di ottimizzare le proprie prestazioni professionali e personali. In tal senso egli arriva al limite di prescrivere l’eliminazione delle emozioni sgradevoli e ostacolanti per coltivare soltanto quelle positive e performanti (in tal modo prefigurando uno scenario già letterariamente noto, quello di un mondo dove, grazie all’ingegneria genetica, le emozioni “disturbanti”, siano state raschiate via “ab origine”) . Un suo famoso esempio riportava il caso di una coppia in condizione di “piena emozionale” durante un litigio. Il suo consiglio era di fermarsi, controllare il proprio battito cardiaco e, qualora avesse superato una certa frequenza “ a rischio” dal punto di vista della”scarica” che avrebbe potuto produrre, di prendersi una pausa di dieci o venti minuti. Una caricatura molto “americana” di un mondo futuro di persone altamente consapevoli e capaci di regolare i propri flussi emozionali in modo che non producano attriti nella vita sociale. Certo, anche una persona sottoposta a sfruttamento del suo tempo e dei suoi diritti sul lavoro potrebbe agevolmente di tanto in tanto sottoporsi allo stesso esame, in modo da tornare, dopo adeguata pausa (sempre se concessa), a produrre profitto rasserenato e senza aloni sulla camicia. Così pure in futuro potrebbe esserci consigliato, sempre sulla stregua di un tale esempio (ma questi manuali sono sempre prodighi di esempi edificanti), per esempio dopo un lutto, di fare frequenti esercizi di focalizzazione cognitiva su oggetti dispensatori di gioia in maniera tale da non soffrire di penose perdite di efficienza nell’assolvimento dei nostri compiti lavorativi. Naturalmente la parenetica dell’intelligenza emotiva non fa cenno a casi simili, per quanto essi siano già da tempo il campo d’azione sistematica di una “farmacologia” tutta chimica questa volta, orientata a evitare pericolose defaillances al business.
Ma l’intelligenza emotiva non dichiara la sua collusione con l’industria del farmaco e, a cascata, con il sistema industriale tout court, lei è più buona, più soft. Vuole dispensarci dal dolore, è in realtà una terapia del dolore e della consapevolezza. Conosciamo i nostri sentimenti e…sapremo usarli meglio. E sì, perché questo è il succo. Basta con l’essere succubi delle emozioni, siamo noi a decidere quali emozioni dobbiamo avere in un determinato frangente! Qui non è in gioco il sussiego psicoanalitico che ancora si attardava a contrapporre e talora persino a tentare di comporre il principio del piacere con quello della prestazione. O meglio, ciò che allora pareva -nelle menti migliori si badi perché poi molta psicoanalisi si è fatalmente “psicologizzata”, per così dire-, un conflitto, per i fautori della competenza emotiva non è più tale. Persuasi dall’idea che in fondo tutto si sana con dosi di “effectiveness”, cioè con la sensazione di essere efficaci, il che può anche essere talvolta verosimile, piacere e prestazione vanno a braccetto nei corsi che insegnano ad aver successo con il controllo, la diagnosi veloce e il trattamento delle emozioni a fini appunto di “effectiveness”. Persone efficaci, ma soprattutto efficienti, questo vogliono i solerti venditori della “competenza emotiva”, materia scolastica e parascolastica, oggetto di innumerevoli corsi e master all’insegna del buon umore e di una vita piena di “realizzazioni”. Basta con i sognatori, gli introversi, i melanconici, queste emozioni si possono sedare con pochi esercizi di psicologia cognitiva, e dove non bastasse, ci sono ottimi farmaci, sempre più precisi e circoscritti. Basta con le depressioni, e che diamine! Dopo un lutto, o più semplicemente in presenza di una malattia cronica e invalidante, perché deprimersi quando c’è un’ offerta di competenze emotive ad hoc per continuare a sperare, godere, e soprattutto a fare? Fare fare fare è l’imperativo dei venditori d’intelligenza emotiva. A loro non piacciono i dispersivi, i conflittuali, quelli che si attardano in inutili e magari persino critiche manifestazioni di dissenso emotivo. Il destino ce lo si forgia da sé. E dove non basta, ci sono ottimi esercizi per migliorare le proprie prestazioni, specie quelle più indomabili e perniciose, quelle emotive. Ecco come allora l’intelligenza emotiva vada a braccetto con tutto l’armamentario ideologico del nuovo e rampante efficientismo, con la propaganda del merito, della competenza e della competizione, ça va sans dire. Non credo che ci si debba rallegrare che tutto ciò sia entrato nelle nostre scuole. Anch’io a suo tempo avevo pensato che fosse una buona pubblicità alla totale mancanza di cultura affettiva nell’esperienza dell’educazione. Ma qui non si tratta di cultura delle emozioni, che dovrebbe interessarsi del giacimento prezioso di tutte le emozioni senza distinzione così come si è attratti e affascinati da una grande foresta vergine, che andrebbe tutelata e protetta e conosciuta nella sua complessità reticolare ma non per fini di sfruttamento della sua materia prima. Qui, come troppo spesso accade proprio quando qualcosa entra nella scuola, si tratta di un’illuminazione oscena, predatrice, che vuol far fuori il necessario complemento di misteriosità, di animalità, di segretezza di questa “riserva indiana”, come la chiamai allora, sempre più piccola e minacciata. Oggi come allora quindi, “non si tratta di rendere intelligenti gli affetti, abbiamo invece bisogno di recuperare l’atmosfera affettiva della conoscenza, l’ eros che è esso sì connesso alla autentica conoscenza e che ci tiene ben lontani dall’idea, fallace e onnipotente, di addomesticare razionalmente le emozioni”.

venerdì 13 luglio 2012

La marcia zoppa del caravanserraglio tecnologico


Mentre le grandi menti che rimestano il calderone impazzito del naufragio scolastico insistono serafiche a escogitare nuovi strumenti e strategie di valutazione, a predisporre inedite sigle e bastardismi anglofili per denominare le competenze del nuovo rivoluzionario sistema della didattica, a misurare e a catalogare come al solito, lenta e azzoppata avanza la carovana della tecnologia. Salutata con grande trasporto dalle parenetiche ministeriali e dalla retorica giornalistica da Sole 24 ore, la tecnologia, quella elettronica per intenderci, è attesa come la grande panacea del buco nero che è ormai la scuola. L’ingresso in anni lontani di qualche lavagna luminosa, poi di qualche videoproiettore, poi di qualche computer, senza mai produrre significativi cambiamenti, si moltiplica oggi con l’avanzata ancor non si sa se finanziata e finanziabile di tutto un armamentario (dalle Lim ai tablet ecc. ecc.) dalle destinazioni e dagli usi perlomeno degni di qualche sospetto. Fortunatamente non c’è esattamente un consenso unanime su tale fenomeno dalla chiara marcatura culturale e ideologica: gli unici a tifare in modo incontrollato sono naturalmente i detentori del business e la tecnocrazia. Vengono sollevati dubbi del tutto legittimi da più parti e francamente l’ottimistico auspicio che i nuovi congegni possano determinare significativi mutamenti appare piuttosto risibile. Ma al di là dell’oggettiva debolezza di un’ introduzione di apparecchiature e strategie comunicative delle quali si sa bene che saranno lente, parziali e fortemente pleonastiche, occorre sottolineare quanto, specie nei retori del macchinismo insegnante, sia del tutto, e per l’ennesima volta, sconfessata ogni possibilità di aggredire i punti d’inceppamento dell’esperienza scolastica: la voglia, il senso, il sapere. Ancora una volta anzitutto sono i corpi ad essere sconfitti ( e forse in maniera decisiva e finale), il che già di per sé costituisce uno scandalo insopportabile. La scuola continuerà a restare un fatto puramente mentale, anzi aumenterà ulteriormente il grado già altissimo di penalizzazione corporea, emozionale e relazionale. Ma questo non ci stupisce: maggiormente angustia il fatto che la tecnologia penetri nella scuola non per essere interrogata, alterata, rifatta, ma tale quale, sinistra protrusione di un sistema di condizionamento parossistico che già grava su tutti nel fuori del cosiddetto libero mercato. La tecnologia avanzata, digitale, non è un servomeccanismo innocuo, è il volto della civiltà contemporanea, il suo reale e il suo immaginario. La scuola, prima ancora di fruirne, di volta in volta criticamente, potrebbe essere il luogo più adatto per smontare, revisionare, decostruire i meccanismi della tecnologia. Comprendere i risvolti cognitivi della programmazione informatica, il potere delle immagini e delle scritture prestabiliti, il senso delle sequenze programmate. Ma molto di più, introdurre strumenti tecnologici che consentano di fare cinema, di costruire audiovisivi, di passare alla moviola i processi di comunicazione, di investigare la luce, il rumore, la musica. Gli strumenti tecnici devono poter essere usati in modo originale, come strumenti creativi, devono poter essere riprogettati e riprogettanti, non semplicemente subiti come un nuovo grimaldello per abolire sensi e pensieri. La tecnologia non deve servire per ottimizzare la vecchia didattica, tanto per cambiare in fin dei conti considerata buona e giusta. Deve pervertirla e costituire semmai, dove possibile, un elemento di scasso e di rivisitazione critica dei processi di incorporazione di quei frammenti mortificati di sapere che i manager scolastici e ministeriali continuano a chiamare “programmi”.

martedì 10 luglio 2012

La "Legge della parola" lacaniana e la scuola


Faccio riferimento a un articolo (che vale però come paradigma di tutta una serie di interventi analoghi) di Massimo Recalcati sul Corriere del 2 giugno scorso, intitolato “Elogio della classe media, Così la scuola dell’obbligo fa scoprire il mondo”. Qui lo psicoanalista lacaniano, ormai noto per aver tributato tutti gli onori possibili alla funzione della Lex (dura sed lex) come ostetrica del desiderio, ha dato davvero il meglio di sé. E rivela definitivamente quell’ottica ormai imprevedibilmente conformativa cui il suo pensiero, come quello di diversi altri lacaniani, è ormai incline a votarsi. In breve, dopo essersi apotropaicamente lamentato della scuola autoritaria e disciplinare che lui ha frequentato ai suoi tempi (anni ’60), traumatizzandolo con una bocciatura, e della giusta rottura con essa determinatasi nel ’68, inizia la consueta e ormai ben nota litanìa intorno agli errori/orrori della contestazione (aver respinto in blocco la scuola invece di riconoscerne la funzione “formativa” di limite e contenitore, di iniziazione e di mescolamento sociale, (come se non esistessero altre forme possibili di iniziazione e mescolamento) e soprattutto intorno ad una generazione di giovani, quella attuale, soffocata e devastata dal mesto succedersi di ingiunzione al consumo - godimento- mortificazione del desiderio e quindi dal destino fatale e disumanizzante dell’ “iperedonismo”, parola sua. Al contrario, grazie all’obbligo scolastico, si accede, secondo Recalcati, alla statura di un desiderio autentico, attivo, padrone della parola che sola può consentire di raggiungere la “realizzazione” dei propri oggetti. Qualche gemma da questo impareggiabile articolo: “L’obbligo della scolarizzazione impone un trauma benefico e necessario. Questo trauma è innanzitutto il trauma della de-maternalizzazione della lingua”. Già questo passaggio sarebbe degno di una protratta analisi. Fa il paio con quanto psicologi di cotal schiatta sostenevano tempo fa a proposito del beneficio procurato dal servizio militare, prima di tutto in quanto permetteva a giovani che appartenessero a culture locali di svezzarsi conoscendo la differenza delle altre culture. Ma soprattutto, lì come qui, sottolineando il valore potentemente iniziatico di quella tortura: l’iniziazione era garantita proprio dal fatto che essa si svolgesse nella durezza della caserma, autentico luogo educativo segnato dal codice affettivo “paterno” (se si fosse svolto in un soggiorno interculturale, per dirne una, sicuramente sarebbe stato già troppo “maternalizzato”…). Recalcati, come sappiamo e non si stanca mai di ripetere, è uno psicoanalista lacaniano, quindi per lui è la Legge della parola, non a caso scritta con la maiuscola, la Legge proprio, quella divina, quella del Padre, del “Nome-del Padre” tutto maiuscolo, il significante della separazione dal godimento incestuoso con la madre, è quella Legge della parola quella che permette di accedere al desiderio “proprio”, e di non recitare quello invece inoculato dalla diade acefala madre-bambino. Dunque non basta frequentare qualsiasi altra parola, deve proprio essere una parola dura, quella dell’obbligo, quella dell’insensatezza sublime (e sublimante) di un luogo come quello scolastico, a determinare l’iniziazione autentica. E infatti la scuola deve produrre il vuoto, non proprio un vuoto zen ma il vuoto della “sconnessione” dall’adesione all’oggetto prodotta invece dall’ingiunzione (materna) al godimento fine a sé stesso. Ma sentiamo le parole melodiose di Recalcati: “La resistenza della Scuola (-anche qui scritto con la maiuscola, è sempre la maiuscola del Nome-del Padre (ndr)-) consiste oggi nel sostenere il valore traumatico della Legge della parola, in un’epoca dove il solo obbligo che sembra esistere è quello per il godimento fine a sé stesso”. Esemplare, incontrovertibile. E ancora: “L’obbligo della Scuola è benefico perché si sostiene su una promessa di fondo. E’ la promessa che esiste un godimento più forte, più potente, più grande di quello promesso dal consumo immediato e dalla dipendenza dall’oggetto. Questo altro godimento si può raggiungere solo per la via della parola: è godimento della lettura, della scrittura, della cultura, dell’azione collettiva, del lavoro, dell’amore, dell’erotismo, dell’incontro”. Senza questa legge, c’è solo la disumanizzazione. Disumanizzazione che, a giudizio dell’autore (come di altri che oggi impazzano nella grande stampa, da Perniola a Magrelli e compagnia cantando), è peraltro stata promossa dal ’68 e, per non far mancare nulla alle prese di distanza dalle rivolte “puberali”, come le definisce ineffabilmente, anche dalle contestazioni del 77. (Qui si aprirebbe una lunga questione che riguarda più in generale le categorie economiche che presiedono alle trasformazioni dei comportamenti individuali e che Recalcati, come la maggior parte degli psicoanalisti, si rifiuta di assumere, preferendo di gran lunga sostenere che i destini sono plasmati dalle disavventure affettive. Su questo, che richiederebbe un approfondimento notevole, soprassiedo qui, rilevando tuttavia che sia nel ’68 che nel ’77, la considerazione delle variabili economiche e materiali era ben presente…) Con gli psicoanalisti ci si imbatte, a prenderla sul serio, con una logica davvero stringente. Da una parte il godimento incestuoso, per di più prescritto dal mondo cattivo del mercato (matri-arcato in verità), con le sue lusinghe per la tecnologia dissipativa, per le droghe, per l’autodistruzione. Da una parte insomma, per restare nelle metafore psicoanalitiche, perseverare diabolicamente a godere nel letto con la mamma. Dall’altra il pieno dispiegamento del proprio potenziale, in virtù dell’assunzione plenaria dell’atto di parola, di un desiderio proprio che apre scenari emancipatori in vista della realizzazione di sé, dalla parte del padre (per quanto “evaporato”, come si sa, e rinvenibile solo simbolicamente negli “obblighi”). In mezzo? Un piccolo trauma, il trauma sacrosanto, benefico e addirittura “resistenziale” (come abbiamo sentito) della scuola. C’è di che restare sbalorditi. Davvero l’obbligo fa questo, l’obbligo scolastico, anche quello della scuola media? Accidenti, eppure non è che sia stato tolto. E’ stato forse tolto di mezzo? E’ stato forse posto in discussione recentemente? Se è successo, mi è sfuggito. Come mai tuttavia, in piena presenza e operatività di questo sacrosanto obbligo, la legge del godimento coatto impera e travolge i destini di tutti coloro, generazione di Recalcati compresa, che pur vi sono inesorabilmente incappati? Noi tutti ci siam passati. I bambini e gli adolescenti di oggi ci continuano a passare. Eppure non paiono meno travolti, posto che ciò sia vero, dal godimento prescrittivo e obbligatorio. Come mai? Forse che non basta l’obbligo ma occorre anche la frusta, oppure magari i ceci sotto le ginocchia, forse c’è un’inadempienza nel dispositivo, nella efficacia dell’azione scolastica se, nonostante l’obbligo, tanti ragazzi piombano nelle droghe, nel feticismo tecnologico o, peggio, in quello che alcuni sociologi chiamano i fenomeni di hotaku e hikikimori (dipendenza assoluta da consumi virtuali e simili fenomeni di pura dissipazione maternalistica…)? Tra i pochi a non aver conosciuto l’obbligo scolastico ci sono per contro i nostri nonni, quelli cui di solito ci si riferisce proprio per esemplificare una generazione che certo non confidava nella lusinga del godimento coatto, essendo invece sottoposti, da sempre, all’autoritarismo ovunque, a cominciare proprio dalla famiglia. Loro non godevano mai in effetti. Forse perché non arrivavano mai alla Legge della parola? Oppure perché ci arrivavano troppo presto? Si può ricamare a lungo sulla paradossalità di questa polemica in absentia, in assenza cioè del suo referente polemico. In effetti, già è difficile seguire autorevoli psicoanalisti quando se la prendono con le famiglie “affettive”, che sembrano essere le grandi responsabili della produzione di ragazzi vulnerabili, narcisisti, avviticchiati alla legge del tutto e subito. Ma arrivare a scorgere nell’obbligo scolastico il potente antisettico dell’iperedonismo mi pare davvero sconcertante. Specie per il fatto che non appare, a tutti gli effetti, così. L’obbligo c’è, eppure l’iperedonismo impazza, almeno a leggere le cronache sociologiche e giornalistiche. E dunque? Sia chiaro. Si può concordare, seppure con un gergo forse un filo meno ristretto (padri e madri, per quanto sontuosamente ricamati dalla retorica lacaniana, appaiono riferimenti simbolici un po’ ristretti per rendere conto di ciò che è il tessuto sociale, da sempre ma tanto più da quando la vita psichica è plasmata prepotentemente da una pluralità polimorfa di mezzi di comunicazione-formazione assolutamente pervasivi), sull’idea che aderire passivamente e beatamente agli oggetti di consumo indefinitamente produca qualche danno. Si può anche concordare, anzi concordo pienamente, con l’idea che l’accesso alla cultura, qualcosa di più complesso, per quanto mi riguarda, dell’unilaterale evocazione della Legge della parola, per quanto assunta in tutta la sua ingombrante genealogia mistico-filosofica (e sempre evidentemente sul punto di rivelarsi la parola della Legge), sia un passo che articola nel senso della ricchezza e della profondità la vita di chiunque. Ma trovo imbarazzante, ingiusto, clamorosamente ideologico che una diagnosi così schematica e supponente del mondo scolastico diventi moneta comune nel dibattito contemporaneo sull’educazione (plaudita, manco a dirlo, tanto a destra quanto a manca). Come spesso accade, gli psicoanalisti, e non solo Recalcati, hanno un’idea del tutto simbolica della scuola, non si rendono conto di quanto miserabile, antiquata, del tutto disfunzionale sia quella vecchia istituzione. Quanto il permanere tra quelle mura in funzione di una positiva appropriazione del proprio destino e del proprio desiderio sia una pia illusione (quando non una marchiana mistificazione). L’obbligo scolastico può essere giusto ma diventa davvero giusto solo se quello che accade nella scuola ha veramente un senso, non se è un puro essere deportati dentro a contenitori che mortificano le menti, i cuori e i corpi di chi li sopporta per lunghi anni. Ciò che gli psicoanalisti come Recalcati non vogliono vedere, accecati come sono dai loro schematismi clinici, è che non è l’obbligo formale a produrre i risultati che loro invocano, non è semplicemente l’atto della separazione dalle famiglie, ma un’esperienza sensata, ricca, plenaria di educazione, certo a contatto con altri, ma non in contenitori dove il più delle volte si sosta in uno stato di necrosi psicoaffettiva. Che sia un’esperienza, non solo un rito per giunta svuotato di ogni positiva possibilità di immedesimazione da parte di chi lo patisce. Recalcati non è affatto interessato a ciò che accade nella scuola. Non gli dedica neppure una riga di analisi. A lui basta che esista. Che ci sia il luogo scolastico, anzi il suo “obbligo”. Che infatti, non a caso, in maniera del tutto “formale”, deve produrre un vuoto, il vuoto che spenga l’adesione cieca all’oggetto per aprire l’interruttore del desiderio autentico. Ma credo, per confutare una tale presunta verità, che sia sufficiente vedere il risultato. Forse che questo obbligo riesce a produrre davvero quella “Legge della parola” capace di incamminare virtuosamente l’esercito (noi tutti) di coloro che lo subiscono verso un destino luminoso di autentica umanizzazione, bonificata dalla seduzione dei desideri inumani, delle droghe, della tecnologia debosciante, del tutto e subito? (Sempre supposto che questa analisi del godimento forsennato non sia essa stessa un’altra mistificazione. Ma questa è (forse) un’altra storia…)

sabato 7 luglio 2012

La sedia dura e secca


In fondo il dramma dell’educazione è facilmente riassumibile a partire dall’indigenza e dalla caratteristica fisionomia dei suoi oggetti, delle sue “cose”.
Così è per la sedia piccola, dura e scabra. La seggiolina scolastica, che talora si articola in serie di sedie accostate e variamente collegate. Sedie frequentemente inchiodate o imbullonate ai pavimenti. Sedie nell’allora e nel fu agganciate direttamente al tavolino, al banco come in un simbolico e carcerario strumento di tortura.
La sedia dura e secca, pallida e povera, sottile armatura su cui appoggiano, appena infisse, due listelle di legno miserrimo, una per il culo e l’altra, più sottile, per la schiena.
Oggi sostituite dalla plastica, plastica nera e altrettanto dura, neppur più capace di traspirare e perciò dotata del potere di assudare ancor più prepotentemente natiche e omeri.
La sedia dura e povera, emblema archetipico della scolarità, assurta agli onori dell’arte con la splendida crocifissione cattelaniana del Charlie che non fa il surf (curiosamente come il popolo vietcong nella celeberrima scena di Apocalypse now).
Che cosa ci sussurra questa sedia, cosa esprime di una cultura che nei suoi strumenti di scena non può certo illudersi di non denunciare la sua miseria? Anzitutto proprio questo: la scarna facies di un luogo di miseria, esibita e vantata, come da codice ascetistico si richiede. Strumento di evidente avvilimento della carne, laddove suona più morbida, almeno per i meno indigenti, ma soprattutto scheletrica epifanìa del posto sopra il quale si consuma la quasi totalità dell’esperienza discente nelle nostre scuole. La sedia sta alla scuola come il letto sta all’ospedale e come la brandina sta al carcere. Tutte queste manifestazioni dell’essere non possono che aspirare a dire, per ellissi e per antonomasia, il che, il quid dell’esistenza scolastica. Una dura seduta che si prolunga per un tempo ben oltre il limite della sopportazione, specie per i culi più esangui e martirizzati proprio dal dilungarsi dell’assise. Essa dice e agisce, poiché, come è evidente, promuovendo l’incomodo in modo palese e sensibile, soprattutto, stimola a anestetizzare quel che laggiù sperimenta in modo da favorire il pompaggio di linfe in altre zone. Non più in basso giacchè laggiù nulla è stimolato e tutto deve quindi acquetarsi, certo più in su, in quella parte che, per virtù di appoggiare sopra il consono tronco, non chiede particolare astuzia ortopedica, la testa dunque. La sedia sta alla testa quanto il cilicio sta all’anima. Posare per ore sopra dure e secche sediole, affinchè tutto converga nel cerebro, reso più acre e inassopibile dalla sofferenza patita. Poiché di ciò si tratta: rendere vigile e impedire scivolamenti verso il basso. Ad maiora, ed è facile se il punto di partenza sta tanto in basso. La sedia suddetta officia al temperamento morale del subietto, lo incita ad elevarsi spiritualmente, in virtù delle sevizie che infligge alle regioni inferiori, che immediatamente verificano la loro stolta inservibilità.
La sedia soggioga e esclude il corpo, il cui perno è il culo, e non solo per la centralità, ma per la delicata sensibilità incolta. La testa sta al culo come Hegel sta alla patafisica. E molto così è detto.
Lo studio è pratica tremenda, che offende le parti molli e quelle sensibili alla bellezza, solo celebra il cerebro, il cui compito tuttavia, oltre a incamerare senza passione infinite parole è anche quello di anestetizzare il lombo e la sua filosofia. Ingabbiato alla sedia, o crocifisso al banco, come il Charlie di cui sopra, il discente è pronto alla culculizzazione, che si pratica per la testa, paradossalmente, e non per il culo. Appesi come pappagalli al trespolo, inchiavardati spesso con le membra immobili, gli scolari apprendono che il corpo è condannato a soffrire mentre la mente incamera il codice della sua statura: quella del succube. Artaud docet della parola che lo frugava e rubava a quel suo corpo che voleva vivere intero.
Ma immagina: sostituisci a quella sedia un divano, o un tappeto, o un letto di erba. Immagina corpi che trovano nella materia che li accoglie la loro impronta, che vi si scavano un ricettacolo. Immagina sostegni plastici e morbidi. Immagina corpi che non si trattengono ma che fluiscono intorno alle parole, che si levano e si abbandonano, che son essi a frugar parole e non il contrario, che si cibano di immagini, di suoni e di odori. Che incorporano materia, sia essa una storia o un gruppo di segni che chiede d’essere interpretato fino a distillarne un gesto pieno, integro, globale. Non censura, corpi non seduti ma in divenire, oltre la sedia, sederi che ondeggiano, che oscillano, in una danza, in una lotta.
Sedie molli, profonde, sedie di corpi, imparare con il corpo, il corpo immerso nella materia, quale che sia, algebra del corpo, filosofia del corpo, corpo di sapere.
Bruciare la sedia dura e secca, il culo al vertice, reimparare a godere.

venerdì 6 luglio 2012

Impero visuale e tapineria scolastica


Non è solo la società dello spettacolo, con il suo corredo di figure. E’ il diluvio universale. Il visuale, in tutte le sue sottospeci, ha preso il potere. Da tempo i più sensibili lo hanno avvertito senza scandalizzarsi (Mitchell, Boehme ecc.), altri lo deprecano come si depreca il maltempo, nell’attesa che passi o che si inceppi. Ma il “turn” è avvenuto. Non siamo più immersi nel dominio delle parole, e del suo Logos, dei suoi grifi e delle sue scabre grammatiche. La pasta morbida e metamorfica dell’espressione analogica, di quella visuale in specie, con i suoi polpastrelli adesivi, si è infiltrata ovunque, e agisce. Lo straripamento dell’immaginario, quello degli apparati visuali, distribuiti in maniera capillare, è certamente il più potente sistema di influenzamento mai prodotto nella storia. Di esso, delle sue multiformi manifestazioni, dei suoi congegni, delle sue strategie, dei suoi dispositivi, dei suoi attori e dei suoi stakeholder la nostra educazione resta sostanzialmente all’oscuro. Che fa la scuola tapina mentre la grande piovra delle immagini pende gonfia e gelatinosa dalla volta celeste? La scuola arrocca. Si trincera nella difesa del libro e del lapis, convinta che al brodo confuso del visivo vada contrapposto il duro e ascetico ritorno ai basic della lettura e della scrittura. Il che, se almeno le riuscisse, sarebbe già qualcosa. Ma, intanto, non è forse venuto il momento di somministrare un’altra medicina, magari anche accanto e in buon vicinato con quella nobilissima e onorata della salvaguardia del verbale e del logico, una medicina omeopatica, ove il simile curi il simile? Quando uno spazio adeguato sarà apprestato per l’ingresso finalmente virtuoso della cultura visuale nella scuola? A quando l’afflusso di immagini, immagini floride e seducenti per combattere e compensare quelle anoressiche e pervertite del merchandising plenipotenziario? A quando un sistematico rifornimento di attrezzi per imparare a decodificare l’allusione criptata di un gesto plastico nella comunicazione politica, la sintassi implicita di una luminosità fotografica, la consecutio cromatica di una sceneggiatura pubblicitaria? Occorre irrorare la scuola con la pioggia di una cultura visuale adeguata a distillare il fenomeno visivo nei suoi caratteri, nelle sue forme, nei suoi linguaggi, nelle sue tessiture. Che lo decostruisca permettendo di fissarne, in maniera scalare, la carica manipolatoria, la geologia tematica, la strutturazione dei segni, così esemplarmente indagata da Deleuze, per esempio. Occorre acquisire l’abilità di invertire la progressione della narrazione immaginativa per farne esplodere la stratificazione semantica, la testura, per rendere possibile avvertire che cosa fa l’immagine, come si impossessa di chi la guarda, come lo commuove, lo soggioga, lo plasma. Al tempo stesso l’immagine può diventare il campo di sperimentazione di un’invenzione di forme finalmente intrisa di valenze intuitive e affettive, può essere un teatro di sperimentazione, di gioco, di intreccio e di creazione simbolica. Fuoriuscire dal tracciato geometrico delle parole, per abbracciare la potenza vivente e nomadica delle immagini è sicuramente non solo un gesto di riequilibrio verso il traboccare del blob visivo che non trova dispositivi di filtraggio e di elaborazione decenti ma anche l’occasione per animare la tetraggine del lavoro educativo con la tavolozza innumerabile delle tinte, degli impasti e delle materie. Un irradiamento vitale che conferirebbe alla scuola non solo una contemporaneità intempestiva che ha da sempre perduto ma anche un vigore emotivo che ne dissequestrerebbe, almeno in parte, l’intensità esperienziale.