la gaia educazione

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venerdì 3 agosto 2012

La scure sui fuori corso (dal Sinistro Profumo)

Il nostro ministro dal nome tanto aggraziato agita di codesti sinistri tempi la scure sopra la stirpe della quale mi sento un orgoglioso rappresentante, color che vanno “fuori corso”. Intendendo per costoro quegli studenti negligenti e sciatti, tardivi ed erranti che arrivano a laurearsi non per tempo ma “nel” tempo. Al di là del fin troppo ovvio paradosso di una società, di cui il profumante ministro è caricaturale portabandiera, che sottrae posti di lavoro e vuole però buttare nel vuoto sempre più giovani revocandone il lussuoso diritto a impigrirsi all’università (una volta considerata, e non a torto, per ragioni similari, un’ “area di parcheggio”), la faccenda appare fetida e sulfurea. Con malizia marxiana se ne potrebbe dedurre ma è fin troppo ovvio, che si voglia più disperati in circolazione, da cui trarre il duplice profitto di far pressione sugli occupati affinché si concedano ai peggiori ricatti e ai non occupati perché siano disposti a vendersi anche alle condizioni più offensive e mortificanti. Ma questo è fin troppo palese. Vorrei però concentrarmi sull’odiosità speciale di un tal gesto, di cui, tolta la suddetta, non si vede altra motivazione sensata. Perché infierire sull’eterno studente di cechoviana memoria? Forse per invidia, l’invidia di chi giustamente vi percepisce il sottile gusto del rinvio, del rallentamento, del persistere in posizione di godimento (diciamo in termini psicoanalitici) mentre tutto congiurerebbe a volerlo al più presto prono e sottomesso allo sfruttamento di qualche invertebrato in zona di potere? Oppure vi è una preoccupazione più “morale”, quella di chi vede nel “fuori corso” l’indolenza del privilegiato, mantenuto dalla famiglia mentre diserta il compito sovrano del contributo al reddito sociale, e dunque esige che anch’egli sia rimesso al giusto cilicio degli altri, i meno provvisti dal destino che, volenti o nolenti, debbono sbrigarsi per trarre d’impiccio sé medesimi e i loro famigliari che sudano sangue per mantenerli colà? Dubito che vi sia tanta caritatevole propensione nei nostri conducatori espertissimi. (E poi, non si dimentichi che molti dei ritardanti, per esser davvero morali, vanno ascritti alla specie infelicissima del lavorator-studente e dunque, a voler essere pietosi, li si dovrebbe semmai incoraggiare e sostenere…) Dolce fuori corso , svagato e vagabondo, specie di giovine selvatico e ascensionale, preso in derive e in tragitti obliqui, quanto ti amo! Per te voglio spezzare una lancia, memore di esserlo stato e ancora avvertendo in me lo spirito di quella vocazione d’ enfant gâté che tuttavia ospita il dubbio, l’esitazione, lo stile ellittico verso la decisione. Alla perfida omelia che prescrive d’esser ratti, lineari e percussivi acciocchè si addivenisca presto all’inculcamento sovrano e ci si arruoli nei destini progressivi della gran macchina di produzione, oppongo, e per motivi diversi, il cammino vago e interrogante del “fuori corso”, puer aeternus dall’indolenza meditativa e sorniona, dall’intelligenza quieta e ricca d’umore.

Allo studente pennellato sulle esigenze dell’istituzione e dei suoi stakeholder interessati, a quello studento diritto, puntuale, insopportabilmente diligente, preferisco di gran lunga l’inoperoso ma pensante, colui che esercita il diritto a fermarsi, financo a provare altre strade, a perdersi in rivoli d’esperienza. Ritardare l’esito significa sondare campi, interporre sentieri inusitati, provare molto e molto abbandonare. Ricordo che nei lunghi anni del mio perdurare in età universitaria ebbi diverse vite, saggiai il teatro, misurai lo sforzo dell’impegno politico, mi ci inabissai ed entusiasmai, fui educatore in luoghi di pura utopia e di rancide periferie, dormii, lessi, pensai, amoreggiai. Età magnifica, dalle mille porte, benché già allora, seppur in tempi men vieti e men cinici, bussava l’orrenda parenesi a farsi repentinamente prodighi del proprio sudore per meglio far girare il grande ingranaggio dell’addomesticazione. Improdussi invece, ma con quanto personale senso di dolce nutrizione, di denso appagamento e financo di un certo vanaglorioso gusto di renitenza! Occorrerebbe poi sceverare meglio la questione anche sotto un profilo di efficacia. Cioè a dire se uno studente silurato in fretta dal gangro universitario, che si sia affrettato a ingurgitare sapere e a macinarlo a ranghi serrati, non finisca per sedimentare una conoscenza meccanica e povera, scarsamente ruminata, per dirla alla Nietzsche, se in lui il cammello mai si possa trasmutarsi in leone, o ancora, ma non è possibile neanche il pensarlo, in saggio bambino… Mi sembra, suffragato in ciò anche da qualche lettura a lungo masticata, che la conoscenza chieda tempo, meditazione, chieda di passare di tanto in tanto a maggese il campo troppo torturato, per metabolizzare meglio, per trasfondersi in sapere tondo, riflettuto, compreso. Ma è fin troppo chiaro che l’olezzante ministro per nulla è sollecitato da cure di cotal tipo. Per lui, che misura calcolando ogni passo del suo andare ottuso, l’unica ragione è quella dell’efficienza e della rendita algebrica di teste e finanze. Ahimè quanta sorda insipienza in tale logica di gretto ragioniere! E allora, addivenendo a un primo provvisorio sunto del mio proposito voglio dir ciò: come studente m’onoro d’esser stato un tempo tardo e indeciso, come professore aspiro a veder rinviare la fine degli studi al maggior numero dei miei allievi, anco nel timor, sia detto per inciso, che voglian troppo presto iscriversi alla trista anagrafe dei giovin sposati (spavento!) o, peggio, dei giovani dirigenti! Post Scriptum per i giovani scrupolosi: non esitate a far saldare ad libitum il conto ai vostri genitori per la responsabilità immane che si son presi di chiamarvi al mondo…