la gaia educazione

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sabato 23 novembre 2013

La grande offensiva dei "talent" : ideologia al quadrato



Ci si accapiglia sui talent perché sono andati a insidiare i territori supposti sacri del nostro mondo ultimo e sventuro. Ma è pura propaganda, serve solo a macinare altra pubblicità. Come se la letteratura e l’arte fossero meno merce del resto. Figuriamoci.

Certo però un dato di tutta evidenza non può essere taciuto. Siamo sommersi.
I talent crescono letteralmente come funghi. Ogni volta che armeggio con il televisore ne scopro uno nuovo. L’ultimo che mi è capitato sottomano è Nati per ballare versione Uk, non so se vecchio o recente, non importa. Soliti formati, genere X factor, solito spettacolo pietoso di personaggi improbabili che si candidano a prestazioni del tutto fuori scala per loro come ciccione che ballano con foga da cardiopalma a ritmo di hip-hop e altre mostruosità analoghe, per rendere la “sfida” ancora più accalorante (del resto Peter Sloterdijk, il filosofo ex-neo-kinico fattosi profeta della talentizzazione di tutti nel suo piuttosto inverecondo Devi cambiare la tua vita, mette in luce come l’handicap sia un prodigioso ingrediente per ottenere prestazioni straordinarie).

Spettacoli di questo tipo grondano letteralmente a fiotti, in una novella uniformazione della materia bulbosa e crassosa che rigurgita cronenbeghianamente fuori dal nostro elettrodomestico più importante.
Ce n’è per tutti e di tutti i generi, dal culturismo all’arte passando per ogni forma dell’umana affermazione nel “fare”.

Ma veniamo al dunque. Chiaro che le polemiche sulla deriva “spettacolare” di campi della nostra esperienza che dovrebbero rimanerne al riparo è del tutto ridicola e, come si diceva, perfettamente in sincrono, per dirla con linguaggio adeso alla materia, con le esigenze mercantili del prodotto. Quindi proviamo a vederne qualche altro aspetto.

Per quanto mi riguarda ritengo che si tratti della più massiccia campagna di propaganda che si sia vista negli ultimi duecento anni a favore di un valore che ritorna a pompare della più bella: il valore della competizione, della competizione individuale e della competizione ad ogni costo. Questo forse è perfino banale. Ma è la misura ad essere straordinaria. La competizione torna e torna alla grande con tutti i suoi accessori: “tutti ce la possono fare” (anche le ciccione che ballano il rap), occorre solo sforzo, umiltà (occorre essere umili di fronte ai giudici, salvo quel pizzico di sfacciataggine che fa sempre audience) e tanta tanta perseveranza.
Naturalmente nel tempo della “grande penuria”: se ce la si può fare, ce la si può fare da soli!
Da non crederci. Era da un po’ che questo valore sempreverde non tornava così beatificato. Rallegriamoci. Ognuno di noi ha un talento e deve vendere cara la sua pelle per farlo valere. Amen

Perno dell’operazione è la gastronomia. Geniale: ci hanno presi per la gola. Chi può affermare di non essere acquolinicamente catturato da quelle belle sfide con chef che sembrano Indiana Jones (Gordon Ramsey, il vero e unico profeta del talent) oppure dei bastardi melliflui e con la pronuncia meravigliosamente slava che tanto fa vecchio film di spionaggio antisovietico (sempre un ottimo bersaglio ideologico, per quanto consumato) come Joe Bastianich?
E’ altrettanto appssionante vedere maltrattare (in chiara simulata) poveri gestori di locali decadenti nelle periferie della California, con le loro cucine sempre piene di cibi surgelati anni addietro e inevitabilmente purulenti e saccheggiati da animali rivoltanti, quanto assaggiare con la sola vista piatti che appaiono perfetti quadri cubisti, salvo che a mangiarli “mi muoro”.

I talent ci appassionano e ci commuovono, stuzzicano la nostra crudeltà quanto il nostro buon cuore. Godiamo a vedere offendere senza mezze misure i contendenti sempre pronti a farsi schiaffeggiare con inscalfibile servilismo così come ci emozioniamo di fronte al ragazzino nero magrolino giubilato dal talent sull’arte contemporanea made in USA, Work of art, che alla fine di un percorso estenuante dove ha dovuto improvvisare in tempi sempre contingentatissimi (secondo le vecchie regole della fabbrica fordista), opere con soggetti impossibili, è finalmente quanto improbabilmente il vincente di una dura lotta a coltello con i suoi competitors.

Di valori a buon mercato ce n’è per tutti i gusti, gusti delle macchine da profitto, si intende.
Una formula che solletica soprattutto il nostro sadomasochismo (ma anche il loro, presumibilmente, dei partecipanti, che fanno la fila per avere una “chance”, vecchio impagabile mito del capitalismo americano), mentre ci identifichiamo di volta in volta con la vittima e con il carnefice. Una formula sicura per fare affari con il mai troppo abusato agonismo da circo romano e, al contempo, rimettere in circolo, a dosi da indigestione, la vecchia e incrollabile ideologia della prestazione, della sfida, della produttività, del vincere o perdere, insomma della competizione.

Ideologia al quadrato in azione: una macchina che fa far soldi e nuovi servi in ogni direzione, da qualsiasi lato la prendi. E in più è anche divertente. Un affare da Re Mida.
Con i suoi “giudici”, tanto per temperare fino all’impossibile la vecchia matita che decreta che la vita è sempre una tenzone con un giudice (per i più paranoici una partita a scacchi). Con un giudice imparziale e “competente” (altra parolina che secerne ideologia come una pera marcia la sua bava sierosa), un giudice che ci rende complici del fatto che ogni opera non è fatta per esprimersi (ci mancherebbe altro) ma per funzionare, e se non funziona, come con inesorabile puntualità i giudici sanciscono, “sei fuori”.

Non stupiamoci. Oggi tornano alla carica tutti i ferri vecchi. Abolita finalmente, anzi proprio surclassata ogni idea che provenisse da quell’impresentabile bacino di puerizia (si fa per dire…) che sono state le lotte degli anni 60 e 70, ormai difese solo da qualche tossicodipendente (quando perfino tutti i suoi principali attori le sbeffeggiano e addirittura le marcano con l’infamia di aver accelerato l’arrivo del peggio presente), è evidente che resta l’unica ideologia, quella vera, quella che non delude mai.

Così tornano alla ribalta con un frastuono che fa fin male alle orecchie il “merito” (applauso), gran campione dell’agone, la prestazione (applauso più forte), unica modalità di essere nel mondo che non sia depressiva e fallimentare e, naturalmente, in questo campionario del principio maschile all’opera nonostante la scomparsa della società patriarcale, la competizione (applausi, fischi, ovazione).

Va così.

Il problema è che tutto questo davvero funziona. Davvero ci piace. E dunque?
Forse che sia tutto vero? Forse che quella vecchia e solo apparentemente indegna ideologia è quella vera, quella santa, quella decisiva?
Basta coi mala tempora currunt, evviva il talent! Facciamoci a pezzi, magari in gruppi, così da dare una degna sepoltura alle fallimentari utopie collettiviste!
Del resto, basta guardarsi in giro, in auto, in tram, negli uffici, nelle scuole, nelle università. E’ tutto un talent, è tutto un fiorire di gare e di giudizi. Ognuno ha il suo X-factor.

Sì, deve essere così, è questo il mondo migliore possibile.
Non resta che allenarsi di brutto.

sabato 9 novembre 2013

Perché non li lasciamo riposare i nostri giovani "sdraiati"?



L’immagine dei giovani, quella che “gira”, l’immagine pubblica, spesso fabbricata dai cosiddetti influenzatori ma anche dagli “esperti”, è desolantemente falsa. Non tanto nella mera descrizione quanto nell’implicito giudizio che l’accompagna.

Questi giovani: indolenti, debosciati, vulnerabili, insoddisfatti, intolleranti ad ogni minima frustrazione, violenti o succubi, privi di norma, deboli, dediti ad ogni tipo di dipendenza, “sdraiati”.

Se ne possono contare tante. Il soggetto giovane è sempre stato un bersaglio ghiotto per la morale “adulta”, dai tempi di Seneca, e anche prima. Ma mai come oggi assistiamo ad un florilegio di rappresentazioni giudicanti, come se improvvisamente la gioventù fosse diventata irreparabilmente malata, disperata, morbosamente intrattabile.

Trovo tutto questo desolante. Non certo la gioventù, quanto l’immaginario che la concerne, prodotto dagli adulti, spesso adulti totalmente smemorati della loro stessa giovinezza. Oppure adulti del tutto incapaci di immedesimarsi in quell’età straordinaria e complessa.
Qui non voglio presentificare la bellezza della gioventù, Paul Nizan o non Paul Nizan, della quale già altre volte ho fatto l’elogio, un po’ controcorrente.

Qui mi interessano proprio gli adulti. I promotori della grande campagna interventista nei confronti dei giovani, quelli che da ogni dove incitano all’ascolto, al dialogo, alla presenza, al sostegno, al presidio, alla sorveglianza…prima che questi giovani non compiano qualche sproposito, con la droga, la malavita, la prostituzione e tutto il peggio che si possa immaginare.

Questi giovani che vogliono “godere tutto e subito”, godere sempre, ommioddio!
Questi giovani, come dice Michele Serra, ultimo arrivato nella schiera degli immemori moralisti, che “dormono” o stanno “sdraiati” sui divani con i loro Iphone e Ipad mentre i genitori lavorano. Accorruomo!

E’ bizzarro. Così come è invece rivoltante, questo è l’effetto che mi fa- ascoltare lo scandalo nelle voci di chi scopre che anche le ragazze delle famiglie “bene” –e quanto lo sottolineano quel “bene” – si prostituiscono. Fino a che a prostituirsi erano le o i ragazzi “male” non c’era così tanto allarme però. Forse non erano abbastanza all’erta quando molti centri del nostro sud erano, non molti decenni or sono, una meta di turismo sessuale per pedofili… (come oggi lo sono la Tailandia o certe località africane).

Certo, che la prostituzione diventi una “scelta”, anziché una necessità, magari per comprarsi una borsa o un paio di occhiali, fa scalpore. Come se tutti questi oggetti di cui i giovani appaiono tanto “dipendenti” non fossero propagandati in maniera furibonda per “far girare la nostra economia”! E come faremmo a ritrovare la famosa “crescita” senza questa mostruosa coazione all’acquisto?
Ma non voglio cadere anch’io nel moralismo, per carità. Lo vogliamo tutti il nostro “benessere”!

Eppure.
Ma che cosa vogliono questi neoiscritti all’imperituro caravanserraglio della nostalgìa? Saranno almeno cinquant’anni che la famiglia autoritaria è scomparsa, sebbene progressivamente. Con il suo rigore, con i figli che tacciono a tavola e che sgobbano silenziosi e chini nelle loro stanze preparandosi all’indomani. E grazieaddio!
Forse che quella era una buona famiglia, quella dove i figli tacevano e subivano, dove si allineavano e si adattavano al destino prescrittogli il più delle volte dagli altri?

Curioso. Eppure molti di quelli che oggi imperversano con il loro neonato moralismo, i nuovi padri e le nuove madri scandalizzati dai giovani, non sono gli stessi che spinellavano allegramente negli anni 60 e 70, che debosciavano in giro per l’Europa, che cantavano con i Beatles e i Rolling Stones di libertà sessuali, di liberazione dal lavoro e altre scandalose utopie sociali di questo tipo?

Forse no. Forse loro non se ne stavano sdraiati ad ascoltare la musica o a leggere libri sui divani. Loro accudivano la casa, andavano a fare la spesa e custodivano i fratelli minori con proba dedizione. Loro andavano a scuola e silenziosi sopportavano tutto, anche l’insolenza insipiente di tanti insegnanti, perché ben persuasi che dovevano soggiacere a quella mortificazione per diventare domani i seri professionisti di cui la società abbisognava per gonfiare i forzieri di banchieri e grandi imprese.

Forse erano parte di quella maggioranza silenziosa che non prendeva posizione su nulla (me li ricordo) tranne che sull’esigenza di lasciar studiare chi voleva studiare, ché dovevano mettere su presto famiglia e andare a lavorare, per fare progredire “questa nostra società”. Tutori già allora dell’ordine e della pace sociale, quella su cui campano e si ingrassano sempre gli stessi, peraltro. E che magari poi anche loro sono trionfalmente divenuti, grassi e rifatti, con buona pace degli altri che restano indietro, magari a sbrigargli, ubbidientemente, le faccende domestiche.

Oggi gli unici disposti a cooperare, a stare zitti e supini, anche nelle squadre di calcio, sono i poveri che arrivano dai paesi della povertà. Loro che si prostituiscono per pochi centesimi, loro che fanno i lavori umili, loro che ancora hanno padri e madri che li prendono a calci quando disubbidiscono. Loro figli di qualche cultura patriarcale ancora in piedi, per il bene nostro e della nostra santa ipocrisia.

Non ho alcuna nostalgia della cultura patriarcale, che peraltro è ancora bene inscritta nelle nostre mete sociali, nel nostro capitalismo distruttivo, nel DNA strutturale delle nostre scuole e dei nostri ospedali. Se i nostri ragazzi sono un po’ digiuni di patriarcato e sperimentano un poco la loro libertà, fosse anche quella di godere quei simulacri fabbricati dai loro adulti, beh, se fosse così, sarebbe già qualcosa.

Ma non è così. Nessun autentico godimento. Nessuna vera libertà. Solo un’ultima penosa moratoria prima di entrare nel terrificante mondo del lavoro, la grande e unica vera chiesa della nostra vita inginocchiata davanti al dio denaro. Fruiscono, loro figli privilegiati dei paesi dove la ricchezza del mondo si è concentrata a spese degli altri, di una pausa prima di entrare nell’ingranaggio, come lo chiamava Giorgio Gaber. Quello che trita tutti, specie quelli che poi tranciano giudizi immemori e ingiusti sui giovani.

E infine mi si consenta una considerazione più generale, direi addirittura esistenziale. I genitori si lamentano dei figli, del fatto che sono diversi da come dovrebbero essere, disubbidienti, pigri, debosciati. I genitori si lamentano che i figli non restituiscono loro l’amore che gli hanno donato…
L’amore che gli hanno donato…sarebbe interessante indagare caso per caso sulla natura e la qualità di questo amore, ma comunque.

Attenzione. Questo poteva ancora avere un qualche senso quando esisteva una società che interpretava i figli come un “dono del Signore” (o una maledizione), qualcosa che arriva, un’ineluttabilità, e che quindi viveva i figli, nella totale inconsapevolezza profonda di cosa si trattasse, come un dono e come un fardello. Ma oggi, almeno qui da noi, non è più davvero così. I figli sono il frutto di una scelta deliberata, volontaria, consapevole.
Fare un figlio è una scelta enorme, forse varrebbe la pena di ricordarlo agli immemori.
Mettere al mondo, questo mondo, qualcuno, non è un fatto banale. Per quanto mi riguarda non sono del tutto sicuro che risponderei sì alla domanda se avrei voluto essere messo al mondo.
La vita non è uno scherzo. Lasciamo queste favole ai cattolici. Vivere è anzitutto una faticaccia tremenda, un viaggio senza ritorno tra migliaia di ostacoli e di brutture, comunque vada.
Se uno mette al mondo un figlio io credo che debba fare di tutto per farsi perdonare, per desiderare che il proprio figlio viva al meglio possibile, perché sia sottoposto il meno possibile alle ferite e alla soggiogazione delle infinite prove che comunque dovrà passare.

Oppure gli è tutto dovuto (al genitore, e mi si perdoni l’ironìa)? I figli sono spesso definiti quelli del tutto-e-subito, del tutto-è-dovuto. E forse no? Devono aspettare? Fino a quando? Fino a quando diventeranno grandi e saranno stritolati da qualche lavoro ben ben alienato come quello che fanno la maggior parte dei loro genitori, tranne un pugno di privilegiati? Devono forse aspettare di diventare vecchi e malati (non a caso, secondo molte statistiche, l’età più felice della vita, quando trascorsa relativamente sani, forse perché finalmente si è liberi dai gioghi, quelli che ci autoprescriviamo continuamente: scuola, lavoro, famiglia ecc ecc.).
Credo siano interrogativi seri, che possano un poco almeno inquietare la nostra sicumera, quella di chi crede di sapere cosa vada bene per i “ragazzi” e le “ragazze”.

Per l’intanto, se li trovate sul divano, con l’Iphone, svogliati e assonnati, se fossi in voi mi assicurerei che siano divani comodi, che abbiano una coperta morbida. E li lascerei in pace, fino a che è possibile. Perché comunque, anche per merito vostro, non sarà a lungo così.