la gaia educazione

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giovedì 6 febbraio 2014

La soluzione finale dell'arte



Ciò che è accaduto in questi giorni come ultimo atto del governo precedente (e dei molti che l’hanno preceduto) in merito alla storia dell’arte non ci deve stupire. E’ scandaloso, rivoltante, insostenibile ma non stupisce.

L’accanimento con cui le nostre istituzioni formative da sempre perseguitano i linguaggi simbolici (di cui l’arte e in particolare l’arte plastica non rappresentano che un caso, per quanto evidentemente paradossale e ingiustificabile) è pari solo alla demenza con cui affrontano invece i contenuti considerati indispensabili (tanto da renderli comunque indigesti ai suoi destinatari e dunque inefficaci).

Ma il caso dei linguaggi simbolici (arte, musica, cinema, poesia ecc.), che pure sarebbero immensamente in sintonìa sia con le attese che con le capacità di chi la scuola frequenta (i bambini e i ragazzi appunto), è assolutamente emblematico.

L’arte non è mai davvero entrata nelle nostre scuole se non in forme risibili e caricaturali, né lo hanno fatto la musica o la poesia o il cinema o la danza (se non in istituti rigidamente specializzati e dunque monchi comunque)...

Perché? Semplicemente perché mobiliterebbero aree esperienziali dell’individuo che da sempre sono state rimosse dall’intenzionalità formativa al potere (l’immaginazione in primis, l’intuizione, l’emozione, la sensibilità, il corpo ecc.). Le scuole da sempre hanno come unico bersaglio il cervello e solo di cervelli vogliono occuparsi (tutto in esse, dai luoghi alle posture all’organizzazione ai mezzi, parla della rimozione sistematica dei corpi, delle emozioni e dell’immaginazione). Non solo, l’idea di conoscenza che si veicola in quei luoghi di pena rispecchia un’epistemologia rigida, austera e irrimediabilmente antiquata. Solo contenuti altamente razionalizzati, premetabolizzati, concettualizzati e classificati. Mai un impatto che non sai mediato da quegli strumenti di riduzione sistematica che sono antologie e storie e manuali.

Del resto la stessa storia dell’arte ha potuto sopravvivere miseramente solo per quello: perché in essa l’arte è ridotta a informazione, a catalogo storicizzato, a rubrica deprivata d’ogni potere di fascinazione, di emozione, di partecipazione. Mai che l’arte (o la musica, o la stessa poesia), siano state il soggetto di un incontro plenario, senza che fossero seppellite sotto verbose introduzioni, inquadrate dentro griglie e periodizzazioni, sottoposte a giudizi, commenti, gerarchizzazioni.

Quando davvero l’arte ha potuto essere sperimentata nella sua immediata potenza espressiva, meditata e esplorata a fondo nell’inesauribilità dei suoi mondi immaginali?

Oggi ci lamentiamo della sua scomparsa dai palinsesti anoressoidi dei programmi scolastici. Ma quando ci si è lamentati del modo irrimediabilmente povero e paradossale con cui è stata trasmessa, in un modo che di certo non ha contribuito, come si vorrebbe talora pomposamente, a fare dei suoi studenti dei paladini della sua custodia e protezione, men che meno a farne un ingrediente vitale della nostra esperienza oltre che una via conoscitiva assolutamente indispensabile per coltivare uno sguardo sul mondo che non sia solo sfruttatore, profittatore e catalogatore?

Nel tempo peggiore di tutti, in cui nulla si salva che non sia strettamente indirizzato a rafforzare le competenze competitive (mi si perdoni la tautologia ma è “realistica”), quelle performative e soprattutto quelle spendibili e vendibili sul mercato, a poco vale evidentemente appellarsi alla sensibilità di legislatori che non hanno alcuno scrupolo a seppellire gli ultimi fuochi vitali della cultura.

Solo la nostra vigilanza e la nostra protesta può forse ancora far avvertire il delitto che si perpetra oggi come da molto però ai danni di ciò che di meglio l’uomo ha creato in questo mondo: le opere della sua immaginazione creatrice. In esse è riposto l’elisir per comprendere la terra e la sua interiorità senza stuprarla con la nostra volontà di dominio. I poeti, gli artisti, i compositori, i coreografi, i registi, quelli capaci di intendere a fondo l’intimità delle cose, ci consentono di partecipare e non di sfruttare il volto del mondo. Il loro appello, se fosse inteso, ci volgerebbe a un atteggiamento più devoto, più meditante, più integro, perché i poeti e gli artisti adempiono un compito unico e insostituibile: restituire le cose a sé stesse, quello che Rainer Maria Rilke definiva affidare il visibile all’invisibile.

E oggi, nel tempo della massima visibilità, anzi dell’oscenità del visibile, il bisogno primario di tutti noi, e dei nostri figli anzitutto, è proprio quello, come mi sforzo di sostenere da molti anni, di coltivare l’ascolto ricettivo delle opere dei poeti, delle creazioni dell’immaginazione simbolica, uniche forme di creazione ove risuoni non il prometeismo dell’uomo del fare ma una comprensione stupita, incerta e pronta a riconoscere ad ogni infinitesima parte del tutto, il diritto ad essere e ad essere secondo la sua intima e irriducibile singolarità.