tag:blogger.com,1999:blog-81090231501031766492024-03-04T20:33:26.560-08:00controeducazioneIdee inattese e istruzioni necessarie per rovesciare credenze ossificate, ideologie aberranti e poteri inamovibili e ritrovare l'appetito bruciante, sessuato e nervoso di capire, di fare e di pronunciare il violento sì alla vita che le nostre diseducazioni ci hanno intimato di tacereUnknownnoreply@blogger.comBlogger78125tag:blogger.com,1999:blog-8109023150103176649.post-16547066128700402542018-02-24T06:41:00.001-08:002018-02-24T06:44:56.596-08:00Torna l'educastrazione<div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on"><br />
</div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh7daLvGtUbPrJkqCIeuHRfwLJrXd2p9IlWCR3uPn-Oupkm3vWUsdFUaXXEktTvQDX4A-aLDJ75hjlkc-ozkeu5ie4QkVccnMfixW2PrRmaj3ge_7zhTrQ0GerptRY-MQqIMU3vajuDBco/s1600/The_Mutiliation_of_Uranus_by_Saturn.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh7daLvGtUbPrJkqCIeuHRfwLJrXd2p9IlWCR3uPn-Oupkm3vWUsdFUaXXEktTvQDX4A-aLDJ75hjlkc-ozkeu5ie4QkVccnMfixW2PrRmaj3ge_7zhTrQ0GerptRY-MQqIMU3vajuDBco/s640/The_Mutiliation_of_Uranus_by_Saturn.jpg" width="640" height="242" data-original-width="1122" data-original-height="424" /></a></div><br />
Tira aria di repressione sessuale tra le mura delle istituzioni educative negli ultimi tempi. Vento di nuovi ascetismi, visto che le politiche di intimazione alla professionalità, alla produttività e alla competitività non bastano da sole a prosciugare la qualità umana da quei luoghi già abbastanza ingenerosi verso la vita che sono gli obitori scolastici. Ultimamente si parla di sanzionare i professori che a scuola si permettono di intrattenere via social network relazioni con i propri allievi (sia didattiche che personali). Ovunque nascono commissioni che, approfittando del clima generale, sono pronte a squalificare chiunque si permetta di far circolare un po’ di calore umano nei <i>setting </i>della formazione, da candeggiare al più presto possibile da ogni traccia di eros e di contatto umano. Sul corriere della sera ho anche letto che in Inghilterra il preside di una scuola privata nel Denbingshire ha vietato l’innamoramento reciproco tra studenti, con la scusa che esso deprimerebbe l’impegno scolastico.<br />
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L’eros ha da sempre fatto molta paura agli istitutori, ai rettificatori, ai direttori e ai chiarissimi rettori. Tutta gente con la spina dorsale dritta e le pudenda ben protette dalle famose mutande di ghisa. Che l’amore circoli nei luoghi dell’educazione è cosa nota da quando gli uomini hanno cominciato a murare i loro cuccioli dentro alle varie sedi di tortura pensate per loro (dai collegi, ai convitti alle sacre scuole regie ma anche repubblicane). Lì dentro, nonostante la fornicazione avvenisse dietro ogni angolo appena protetto, il desiderio, sia erotico che non, ha sempre subito severe misure di prevenzione e di repressione. <br />
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Gli anni 60 e 70, con i loro slogan colorati, erano riusciti a far respirare un poco le aule plumbee con una specie di ritorno del rimosso, sotto forma di apertura al mondo esterno, al dialogo, alla simmetria nel rapporto educativo e, persino, un poco di riabilitazione degli affetti e del povero eros.<br />
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Oggi però i probi viri e le probe virago anche più rauche di quelli, son tornati a invocare la ghigliottina per chi commercia anche con il cuore e la pancia, oltre che con l’algido cervello, nei luoghi dell’educazione, da sottrarre nuovamente ad ogni lusinga del desiderio o semplicemente della simpatia e della “convivialità” (povero Illich che ci credeva tanto), per ristabilire la <i>dura lex</i> dell’astinenza, della castrazione (<i>educastrazione </i>secondo Celma) e della sublimazione più o meno condita da qualche breviario <i>sub specie psichanalitica</i>.<br />
<br />
I nuovi catechismi ci vogliono e soprattutto vogliono ben presto i nostri pargoli (già “culculi” come li definiva Gombrowicz nel Ferdydurke come perfetti allievi innocenti e puri di cuore), pronti ad ogni domesticazione, ad ogni estirpazione della loro qualità umana affinché unica a rifulgere sia la loro statura professionale, o per dirla in modo più chiaro, la loro misura di vendibilità, occupabilità ovvero rottamazione secondo gli indicatori dell’intelligenza emotiva e della capacità produttiva.<br />
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Per chi come me si batte per un’autentica erotica dell’educazione (cioè in cui passione, eros e piacere non siano solo merce sottobanco e di contrabbando ma elementi vitali indispensabili), son tempi di dolore e di esilio ma attenzione, presto vedremo non più i nostri giovani solo afflitti dalle passioni tristi quanto totalmente eviscerati dai desideri (almeno quelli liberi), neppure più quelli che oggi ci sembrano tanto spenti e avvilenti.<br />
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Ovvio che l’unica strada è scappare via (dalla scuola media, come diceva Todd Szolond nel suo notevole film ma non solo da quella evidentemente), via da queste anticamere della morte emozionale, immaginativa, creativa e pulsionale. Via dai nuovi e vecchi moralismi, totalitarismi di genere, a caccia della poesia e dell “eresia erotica” di cui parlava Radovan Ivsic.<br />
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Restituiamo dignità al corpo, alla sensibilità e ai desideri fondando scuole nomadi, rampicanti, arboree, sessuate, “diffuse”, comunque lontano dai nuovi protocolli ingessanti, dai galatei monacali, dalla distruzione di quel poco di umano sopravvissuto all’industrializzazione del nostro immaginario e delle nostre passioni.<br />
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Unknownnoreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-8109023150103176649.post-85997711288720629052018-02-18T04:04:00.000-08:002018-02-18T04:04:28.341-08:00Spari, botte e la scuola dell'ignoranza<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiCNu_C-Im6yXpbuZ7sVHVZ5JUZY-hd64tzR31tOqGmWZWX0L6KGoMijBXS783aVvE4L8EZnvJnBZ1-ttwJMJEWpUG_iyf8stQI0eYyrB02RE-HopgwJdGA1CYRS79doKJiYhVoHi33_ok/s1600/image-20150105-13830-1l2j4q8.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiCNu_C-Im6yXpbuZ7sVHVZ5JUZY-hd64tzR31tOqGmWZWX0L6KGoMijBXS783aVvE4L8EZnvJnBZ1-ttwJMJEWpUG_iyf8stQI0eYyrB02RE-HopgwJdGA1CYRS79doKJiYhVoHi33_ok/s640/image-20150105-13830-1l2j4q8.jpg" width="640" height="422" data-original-width="1012" data-original-height="668" /></a></div><div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on"><br />
</div><br />
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Negli ultimi tempi sembra che i ragazzi e le ragazze abbiano cominciato a menare le mani non solo verso i coetanei ma anche verso gli insegnanti. Una cosa deplorevole, un indice di barbarie, un sintomo della condizione sempre più degradata della nostra gioventù. Colpa delle famiglie protettive! Colpa della tecnologia! Colpa del consumismo che rende questi ragazzi amorfi e tristi!<br />
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E compagnia cantando.<br />
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Poi ci sono quelli che rivogliono una bella scuola della cultura (contro quella dell’ignoranza) (tipo Saudino). Non so dove la vedano, suppongo nel passato anche se, riandando al passato, io non la ricordo. E dubito che fosse grazie al maggior tempo a scuola che essa sarebbe esistita.<br />
E’ davvero difficile riuscire a pensare oltre la scuola, vederla per quella che è ed è sempre stata e sempre sarà, se si continua a ritenere che essa nei suoi fondamenti debba essere solo restaurata.<br />
<br />
Io lo ripeterò fino alla nausea. E’ la scuola che non funziona, per quanto belle materie, bravi insegnanti e orari più lunghi possano fare. E’ la scuola che è violenta, sbagliata, incapace di realizzare apprendimento autentico. Forse che la scuola di trent’anni fa (non so a quale pensi Saudino), facciamo anche cinquanta, realizzava più cultura di questa? Ne ha realizzata talmente tanta che per vent’anni ci siamo beccati il governo più ignorante che forse abbiamo mai avuto. Eppure quel governo l’ha votato gente che usciva da quella scuola! Cosa non ha funzionato? Non è stato fatto abbastanza greco, abbastanza storia, abbastanza arte?<br />
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Ma di che stiamo parlando? Crediamo che aumentando il carico di ore scolastiche e riconvertendo le materie su quelle autenticamente culturali, otterremo un paese colto ed emancipato?<br />
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Crediamo che la cultura a scuola non abbia sempre fatto la fine che continua a fare, cioè trasformarsi da oro in piombo? Il piombo dell’obbligo, del ricatto e della paura? Certo una sparuta minoranza di privilegiati possono anche ricordarla con il giusto fervore di chi era già stato predisposto alla posa obbediente e disciplinata che lo studio in un tale contesto presuppone. Ma tutti gli altri?<br />
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Ma veniamo alla violenza, l’orrore delle cronache di questi giorni. In nome di Dio, come si permettono di alzare le mani sui loro insegnanti?<br />
Mi spiace, non mi intonerò alla nenia di chi difende la scuola ad ogni costo e getta sugli studenti tutte le colpe, o sui loro genitori. Al contrario, mi stupisco che non sia accaduto prima, vista la quota di violenza, fisica un tempo ma anche ora talvolta, e soprattutto psicologica, che studenti e studentesse da sempre sopportano non certo solo dai loro insegnanti (benché anche da loro) ma da tutto il terribile dispositivo normativo da cui sono soffocati e stritolati.<br />
<br />
Crediamo forse che la scuola sia un luogo dove esiste comprensione, collaborazione, tutela delle libertà personali, riconoscimento delle differenze, assistenza autentica in funzione dell’apprendimento, cultura e soprattutto cultura dell’insegnamento? Siamo così folli da credere questo? Crediamo che il modo di costruire le classi, di ordinare gli orari, di imporre la disciplina, di imporre tutto dal momento che nulla è scelto, sia il modo giusto per impostare un percorso di apprendimento? Crediamo che un luogo concentrazionario e repressivo come questo sia il giardino di Epicuro o il Peripato di Aristotele?<br />
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Crediamo che tenere alla larga i nostri ragazzi e le nostre ragazze dal mondo reale e dai suoi conflitti, dalle sue opportunità come dalle sue contraddizioni, sia un buon modo perché imparino e imparino a conoscerlo, sub forma di magnifici manuali di inamidamento e ibernazione del sapere come le nostre indimenticabili storie della filosofia, dell’arte o gli eserciziari di matematica?<br />
<br />
Naturalmente ce ne possiamo raccontare tante e tenerci stretta la nostra bella esperienza con l’insegnante x o y, che non a caso avevano scelto noi, proprio noi, come ci racconta il buon Psicanalista, come discepolo o discepola preferito, per ritenere la scuola un’oasi di bellezza, di studio e di convivenza pacifica e amicale.<br />
<br />
Peccato che essa invece sia un luogo di pena per la grandissima parte, che alcuni oggi siano così esasperati da essa ma anche dal nulla che trovano fuori (dove nessuno si pone il problema di rendere ospitale per loro (i nostri piccoli) un mondo che non è per nulla ospitale neanche per noi!), che la voglia di venire alle mani (che c’è sempre stato, sarebbe una follia fingere che non sia così in questi luoghi di detenzione), arrivi fino alle autorevoli e sacre figure degli insegnanti.<br />
<br />
Certo, oggi ragazze e ragazzi non vedono più i loro insegnanti come sacri incunaboli del sapere, grazie anche a famiglie un po’ meno inginocchiate davanti alle istituzioni educative -che nulla mantengono di quello che promettono ma soprattutto davanti ai loro soprusi-, non vivono più la scuola come una pena santa in nome della quale immolare il loro tempo, i loro corpi e troppo spesso anche le loro menti.<br />
<br />
La vita sociale è una vita sempre più violenta e si dà il caso che nessuno si preoccupi di offrirne una elaborazione seria, men che meno la scuola, barricata dietro la sua offerta formativa (che sostituendo i gadget alla filosofia certo non guadagna un centimetro di credibilità, men che meno con la ridicola e pericolosa alternanza scuola lavoro). <br />
<br />
Occorre un ripensamento ben più radicale, che parte dalla vita sociale, dalla quale abbiamo escluso le generazioni più giovani, per regalargli un simulacro di tempo libero di cui non sanno che farsi, invece di una partecipazione autentica e di percorsi formativi stimolanti e nel vivo della vita comune. La scuola è solo un luogo dove trattenere questa copiosa parte della popolazione che nessuno sa dove mettere, sotto il giogo delle valutazioni, dei test e delle psicodiagnosi sempre più diffuse ed allarmanti.<br />
<br />
Non mi stanco di ripeterlo, (prima che alle botte succedano gli spari, come già accade altrove), non colpevolizziamo i ragazzi e le ragazze, guardiamoci in faccia noi, giudichiamo noi stessi per quel nulla che facciamo per loro, per la nostra insofferenza, per il nostro poco tempo, per i nostri giudizi frettolosi e corrivi, per l’abbandono al nulla organizzato che li circonda, scuola compresa, cui continuiamo a delegare un fantasma di formazione dall’aria sempre più grottesca e inattendibile.<br />
<br />
Occorre pensare oltre la scuola, verso una “città educante”, come con altri (il mio amico Campagnoli in primis, e si veda il nostro La città educante. Manifesto dell’educazione diffusa, edito da Asterios) tentiamo di dire e fare. Se vogliamo che i nostri ragazzi abbiano voglia di imparare, di esserci nel mondo vivi, partecipi, a pieno titolo, occorre che anzitutto glielo riconosciamo, che gli restituiamo il titolo di soggetti, di soggetti che vogliono esserci e che trovano nella società e non solo nelle scuole -teatrini solo dell’educastrazione-, ascolto, opportunità, tutela, ospitalità.<br />
<br />
Forse allora cominceranno a riconoscerci come partner accettabili e non come controllori o secondini più o meno camuffati sotto le vesti degli improbabili maestri. Dobbiamo essere noi a riprendere in mano le nostre vite, il nostro tempo e la nostra voglia di stare con loro, senza rifilarli in massa a un drappello di istitutori e istitutrici di belle speranze.<br />
<br />
Non c’è un’altra via, perché in questo ne va della loro vita ma anche della nostra, non possiamo dimenticarlo.<br />
Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8109023150103176649.post-26563220202978153682018-02-13T08:20:00.000-08:002018-02-13T08:20:20.447-08:00Dichiarazione di voto<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhOxEiSKBpb-lRV6_5kBkkTL8iCuv60QgxnPdlRsRiICsj_2sb4GC5Nz4EjSkKWvcGyKhgs7eUn_zsutCM8RJvvsO1VzgqU1aZIKMe63ngbOX1B59yyxX2diJ2tieLtl1dGsAECkvobuRU/s1600/Immagine20.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhOxEiSKBpb-lRV6_5kBkkTL8iCuv60QgxnPdlRsRiICsj_2sb4GC5Nz4EjSkKWvcGyKhgs7eUn_zsutCM8RJvvsO1VzgqU1aZIKMe63ngbOX1B59yyxX2diJ2tieLtl1dGsAECkvobuRU/s640/Immagine20.jpg" width="522" height="640" data-original-width="783" data-original-height="960" /></a></div><div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on"><br />
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Dopo lunga riflessione ho deciso che voterò la formazione politica che più sentirò avvicinarsi alla visione del futuro che vorrei e che riassumerei in questi punti, certo non esaustivi ma comunque fondamentali per ritornare a credere in un mondo vivibile:<br />
<br />
- Abbattere il feticismo della crescita: è del tutto evidente che non è più possibile crescere economicamente se non comprimendo ancor più il nostro spazio vitale, inducendo in noi ancor più bisogni deliranti e esproprianti il minimo di contatto umano, animale e naturale che ci è necessario e senza saccheggiare ancor più terre e popoli che di certo andrebbero invece assolutamente protetti e liberati. Credo assolutamente necessario che nel futuro si debbano ridurre significativamente l’infinità di idiozie, di merci, di tecnologie che ci separano ogni giorno di più, che atrofizzano la nostra sensibilità e che distruggono i nostri gesti umani. Occorre che quallcuno ci imponga un drastico ridimensionamento del corteo interminabile di falsi comfort da cui siamo circondati e annichiliti;<br />
<br />
- Abbattere l’altrettanto infausto feticismo del lavoro: mi rifarei alle eccellenti riflessioni di André Gorz ma anche di autori più recenti per rivendicare il diritto al non lavoro, alla riduzione del lavoro e, al contempo, al dovere minimo di tutto a contribuire al lavoro socialmente necessario (i lavori solitamente disprezzati e riservati a chi non ha altri mezzi di sostentamento: dalla gestione dei rifiuti ai servizi sociali per chi vive in condizione di svantaggio, ai lavori più duri e sottopagati). All’idolatria odiosa del lavoro (da sempre alienato) voglio che si sostituisca la rivendicazione del tempo e dei mezzi per l’espressione creativa, costruttiva e passionale di ciascuno e di tutti;<br />
<br />
- Inaugurare una politica radicale di redistribuzione della ricchezza a tutti i livelli della vita sociale ed economica attraverso una lotta all’evasione fiscale senza quartiere, così come alla criminalità organizzata e al lavoro nero ma anche attraverso una tassazione precisa e adeguata nei confronti di ogni forma di guadagno estremo come di ogni povertà estrema, riconducendo l’oscillazione degli stipendi entro limiti normati e proporzionati;<br />
<br />
- Per cominciare anche solo a pensare a tutto ciò credo non sia possibile non slegarsi, in modi e tempi accettabili, dall’Unione europea e dalla Nato, organizzazioni che perpetuano la nostra dipendenza dalle leggi del mercato capitalista globale e dalle sue insopportabili iniquità;<br />
<br />
- Accelerare una politica dell’educazione che rovesci la logica mercantile cui è oggi fondamentalmente collegata per inaugurare un’educazione all’insegna dell’attrazione appassionata per ciò che si impara, dell’educazione diffusa come liberazione dal sequestro scolastico e dalla cooperazione più vasta possibile tra tutte le generazioni e tutti i soggetti finalmente aventi titolo di comparire sulla scena della vita sociale, minori non esclusi, nonché dall’impegno verso un’educazione che restituisca la giusta importanza al corpo e ai saperi simbolici;<br />
<br />
- Indebolire progressivamente la dipendenza coatta e sempre più capillare dalle nuove tecnologie, che stanno impoverendo mortalmente la nostra vita sociale, sensibile e affettiva nonché le nostre abilità fisiche, essendo ormai impotenti senza l’ausilio di protesi tecnologiche sempre più inutili e mortiificanti;<br />
<br />
- Affrontare l’emergenza ecologica, ahinoi, globale, in maniera prioritaria e determinata, attraverso politiche complesse che restituiscano equilibrio tra i soggetti umani, la natura e gli animali, rispondano alle emergenze dei territori e delle fonti d’acqua, riducano progressivamente, anche attraverso la diminuzione di tecnologia inutile e tossica, le necessità energetiche;<br />
<br />
- Restituire al tempo la sua dignità attraverso politiche di riduzione della velocità della vita sociale, della frenesia e dello sfruttamento di esso attraverso la continua competizione al potere e al successo, da ridimensionare riducendo il potere dei media, abbassando le prebende per i ruoli di potere e incentivando la convivialità, il tempo liberato e l’attività volontaria o pagata attraverso le banche del tempo, le monete non votate alla speculazione o altri risarcimenti di natura affettiva o sociale;<br />
<br />
- Incrementare le festività e i tempi di recupero e piacere, liberandosi dal giogo delle festività religiose per dare importanza a momenti di celebrazione del riposo, dei piaceri, della cooperazione, della gentilezza, della cura, affermando il nostro esserci sulla terra laicamente e all’indirizzo di tutto ciò che può restituirci la voglia di abitare la terra e non di essere gli schiavi di alcun sistema di potere;<br />
<br />
- Affermare l’eguaglianza di diritto tra uomini e donne all’insegna di una visione complementare del maschile e del femminile, aperta a tutte le ibridazioni ma anche dedita a fondare un’autentica alleanza e non una lotta a coltello tra i buoni e i cattivi;<br />
<br />
- Affermare il diritto all’eutanasia, alla libertà di cura (e dunque anche di vaccinazione), e all’espressione della propria singolarità culturale, etnica o religiosa;<br />
<br />
- Accogliere le differenze come possibilità di espansione e arricchimento, e dunque apprestare politiche riguardo ai flussi migratori fortemente ispirate all’autentica integrazione nella differenza e all’aiuto e ospitalità per tutti coloro che lo richiedano. Sottolineando il valore primario dell’ospitalità sempre e comunque, a prescindere da ogni giudizio di merito per coloro che si trovano in stato di necessità;<br />
<br />
- Liberare dal giogo delle diagnosi forzate, dalle politiche di prevenzione totalitarie e al servizio di profitti economici e dai farmaci sempre più inutili che prosciugano le nostre difese e la nostra capacità di convivere anche con il dolore, l’oscurità e la morte;<br />
<br />
- Sottrarre dall’obbligo della redditività le opere d’arte, la letteratura, il cinema, tutte le forme di espressione simbolica che danno senso al nostro essere nel mondo, tutelando tuttavia attraverso criteri di discernimento sufficientemente fondati intrinsecamente (con tutte le oscillazioni che tali criteri non possono che comportare) la loro selezione e il loro eventuale finanziamento; rifondare i media pubblici all’insegna del servizio, della cultura e della democrazia;<br />
<br />
- Sottoporre la classe politica ad un continuo monitoraggio, in termini di credibilità, efficacia e onestà, da parte di commissioni composte da autorità legittimate sul piano etico e di competenza, nonché dal giudizio il più possibile frequente dei cittadini;<br />
<br />
- Ridurre il più possibile le forze militari e stabilire l’obbligo di sei mesi-un anno di servizio sociale per le giovani e i giovani entro il venticinquesimo anno di età.<br />
<br />
Molte altre cose sarebbe necessario indicare, riguardo per esempio all'economia, alle banche, ai nuovi settori del lavoro e del volontariato e a tanto altro ma credo di aver disegnato alcuni tratti per me fondamentali di un paese riconsegnato alla vivibilità, alla partecipazione e alla giustizia.<br />
<br />
Non ho ancora deciso per chi voterò ma i miei criteri selezioneranno le proposte che provano a muoversi in questa direzione. <br />
Unknownnoreply@blogger.com9tag:blogger.com,1999:blog-8109023150103176649.post-2292680102867679572017-11-20T10:31:00.000-08:002017-11-20T10:31:27.705-08:00Come ci rubiamo la vita<div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on"><br />
</div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgc0DdA4cpHlsfgbWBKNyNZnKhu5-1CWaMr7HYMZEN2sZ_yjQqsgSkLW2Wk0W5lqPLexx5GBr004IPOGEs6-ECEgZqauHQgUHYTnSUFiB9hRSRAVaxu7Eog3mv16QIK1xQMD5U7FGbTd0Y/s1600/de+stael.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgc0DdA4cpHlsfgbWBKNyNZnKhu5-1CWaMr7HYMZEN2sZ_yjQqsgSkLW2Wk0W5lqPLexx5GBr004IPOGEs6-ECEgZqauHQgUHYTnSUFiB9hRSRAVaxu7Eog3mv16QIK1xQMD5U7FGbTd0Y/s640/de+stael.jpg" width="521" height="640" data-original-width="1250" data-original-height="1536" /></a></div><br />
La lobotomizzazione dei nostri poveri sensi è giunta a livelli inimmaginabili qualche decennio or sono e molti di noi non sanno più neppure chi sono, cosa vogliono, che ci fanno qui, anche quelli più “consapevoli”.<br />
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<br />
La nostra vita è saccheggiata, ostacolata, deprivata, premuta, mortificata.<br />
<br />
<br />
E le nostre soluzioni? Individuali, specialistiche, settarie, oppure: la morte psichica, non parlo non sento non vedo.<br />
<br />
<br />
Dove è il punto che sembra continuamente sfuggirci, proprio mentre insinua la sua cancrena in ogni recesso, anche i più nascosti, della nostra vita?<br />
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<br />
Il punto – e lo scrivo proprio con il gusto di farlo risaltare anche nella scrittura- è la frantumazione.<br />
<br />
<br />
Noi, i più frammentati, dovrebbe dire Rilke oggi.<br />
<br />
<br />
Non è il tempo della povertà, ma della frammentazione. Frammentazione che ci affligge e che noi nutriamo con sempre maggiore lena.<br />
Frantumazione di tutto: dei nostri corpi, dei nostri linguaggi, delle nostre menti, dei nostri luoghi, delle nostre relazioni, dei nostri tempi. <br />
<br />
<br />
Stiamo morendo a pezzi, letteralmente.<br />
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Ma la vogliamo, eccome!<br />
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Se qualcuno prova a rivendicare il diritto a riprendere un pezzo di sé finito tra i cespugli qualcuno insorge e gli intima di lasciarlo dove sta, perché è meglio.<br />
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<br />
Che niente contamini niente.<br />
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Il privato non deve contaminare il pubblico, le emozioni la produzione, gli affetti il lavoro, la famiglia il denaro, il ruolo la prestazione, la psiche il sesso, le passioni …<br />
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<br />
Le passioni, miserabili, perdute completamente nella roulette impazzita delle frammentazioni. Quale passione potrà mai risorgere dal tessuto esploso della nostra relazione al mondo?<br />
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<br />
La prescrizione è: uccidi la passione, trasformala in prestazione, in denaro.<br />
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Chi è appassionato trabocca, non sta dentro al contenitore piccolo del suo ruolo.<br />
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<br />
Ruolo, professionalità, distanza, tutti termini che appartengono al vocabolario della frantumazione e che assolvono al precipuo compito di neutralizzare le passioni, i traboccamenti, le rivendicazioni di inusitati congiungimenti.<br />
<br />
<br />
Noi amiamo tutto questo. E’ all’ombra della separazione e della gerarchia, delle competizioni e della privacy che abbiamo edificato un mondo in cui l’unica unità di misura, neutra per eccellenza (il neutro, caro Fourier, non è il pivot delle passioni, come tramite tra i differenti, no è il suo nullificatore), è il denaro.<br />
<br />
<br />
Ci facciamo pagare e paghiamo un’ora di cura, di massaggio, di attenzione. E che sia così. Mica che mi tocchi magari di restituire cura, massaggio o attenzione.<br />
<br />
<br />
Fiori del solipsismo contemporaneo, la frantumazione, la separazione, la gerarchizzazione, la catalogazione dominano incontrastati.<br />
Anche l’immersione nella natura è un gesto separato, già nel momento in cui parliamo di natura come qualcosa di separato, senza saper riconoscere (ahimé spesso perché estinta) la natura in noi. Cosa vuol dire immergersi nella natura, designare oggi qualcosa come natura, o come tempo libero, se non predisporre le condizioni di separazione necessarie perché qualcuno ne possa fare un bel pacchetto da vendere tutto completo, con musica di sottofondo?<br />
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<br />
La musica è separata, l’amore è separato, il gesto dell’insegnare è separato.<br />
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<br />
Nessuno che si doni anima e corpo, o solo anima o solo corpo. Tutti e due diventa relazione (cfr. catalogo), coppia, amore di coppia, c’è già un bel sarcofago dove metterlo a dimora, perché riposi in pace, defunto.<br />
<br />
<br />
Eccoci, noi, fatti a pezzi. Un pezzetto di relax, un pezzetto di cultura, un pezzetto di lavoro, un pezzetto di giardinaggio, un pezzetto di pet-therapy, un pezzetto di amore, un pezzetto di dolore, un pezzetto di morte.<br />
<br />
<br />
E’ così che abbiamo debellato la morte in fondo.<br />
<br />
<br />
Niente vita niente morte. E’ così semplice.<br />
<br />
<br />
Niente unità, niente fine di nulla.<br />
<br />
<br />
Sopravvissuti sì ma come frammenti. Non sappiamo neppure mai chi siamo, ce lo prescrive il ruolo.<br />
<br />
<br />
Toh, adesso faccio l’insegnante, e tra poco l’amante, poi dopo farò il papà e poi, chi sa, lo sportivo.<br />
<br />
<br />
Nessun papa insegnante e amante e sportivo e addolorato e mistico mentre è padre. Nessun insegnante appassionato che faccia a pezzi le tensioni muscolari che lo ingabbiano nel ruolo. <br />
<br />
<br />
La bellezza di non essere nessuno da nessuna parte. Fine della tenera finzione della vita integra.<br />
<br />
<br />
Puttanate romantiche, buone tutt’al più per disperati e anarchici.<br />
<br />
<br />
Godiamo fratelli, si può sopravvivere così, come marionette appese ai multipli fili delle nostre maschere e delle nostre difese. <br />
<br />
Contro la vita.<br />
<br />
<br />
<br />
Poi ci lamentiamo della disperazione. <br />
<br />
<br />
<br />
Non dimentichiamo. Siamo grati a quella disperazione, perché viene da un luogo in cui qualcosa della vita sopravvive. Se siamo disperati, e lo siamo, oh sì, è perché qualcosa di ancora vivo in noi rilutta.<br />
<br />
<br />
<br />
Stiamo vicino a quella disperazione, può insegnarci qualcosa, un anelito di desiderio, una voglia di partecipazione, un desiderio di riprendersi pezzo a pezzo il proprio intero e non essere più funzionari del nulla.<br />
<br />
<br />
<br />
<br />
Prima di essere definitivamente sterminati e non avvertire neppure più il dolore, neppure un prurito.<br />
Unknownnoreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-8109023150103176649.post-88990565172044009412017-10-11T07:19:00.001-07:002017-10-11T07:19:24.083-07:00Come restituire l'aria ai ragazzi e alle ragazze di fronte alle provocazioni della paranoia generalizzata (avanti con l'educazione diffusa!)<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgglinKjuBVb4Kd81N08D3PjkcCNfloqlGo-iRhFvG7rTf5-vvUIXRAJkIUHuD9wUV4AyuRKfx218_dJty3bDUpX8iSbIzYvYcEMnlnMPv1C8EUgZqrMSeoHYQaIZ2F_MkyoZH9VhkXQII/s1600/2017-02-06-20-42-29.jpeg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgglinKjuBVb4Kd81N08D3PjkcCNfloqlGo-iRhFvG7rTf5-vvUIXRAJkIUHuD9wUV4AyuRKfx218_dJty3bDUpX8iSbIzYvYcEMnlnMPv1C8EUgZqrMSeoHYQaIZ2F_MkyoZH9VhkXQII/s640/2017-02-06-20-42-29.jpeg" width="640" height="454" data-original-width="1600" data-original-height="1134" /></a></div><div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on"><br />
</div><br />
<br />
Reagire alla morte di un bambino che esce da scuola e viene ucciso dal traffico con la proibizione di uscire da scuola per tutti se non accompagnati, sarebbe come proibire a tutti l’uso dell’asciugacapelli solo perché a qualcuno, accidentalmente, è caduto nella vasca, folgorandolo. <br />
<br />
Alla paranoia generalizzata di una società che in cambio di una salute micragnosa e ridotta ai minimi termini concede una libertà di esistere sempre più controllata e soffocata, occorre contrapporre un vero e “salutare”, questo sì, diritto a correre qualche rischio in nome della possibilità di fare esperienza, di essere sottratti alla vigilanza perpetua e alla interiorizzazione di un gigantesco apparato di prevenzione che non permette più a nessuno neppure di respirare serenamente. <br />
<br />
Prevenzione sì ma non della vita, e in specie della vita dei ragazzi, costringendoli alla sorveglianza perpetua. Semmai preoccupazione per reimparare ad ospitarli, a rendere possibile il loro passaggio e il loro soggiornare nel mondo. Occorre preservare i luoghi dove essi si muovono, i loro percorsi dai ritmi imbecilli di un mondo adulto che non sa neppure più chi siano e cosa vogliono i suoi cuccioli. Che è più tranquillo sapendoli rinchiusi e vigilati mentre eseguono compiti che non hanno desiderato né scelto piuttosto che mentre vivono e si esprimono nella pienezza delle loro possibilità.<br />
<br />
L’autonomia dei ragazzi è un bellissimo ideale, proclamato da tutti, un po’ come la partecipazione e la cittadinanza attiva. I proclami che riguardano l’educazione sono tanto lontani dalla realtà quanto la condizione effettiva dei lavoratori dalle belle idee sulle politiche del lavoro e dell’occupazione.<br />
<br />
Ma i bambini vivono una situazione particolare, persino peggiore. Si pretende che imparino a vivere nella società venendone separati, chiusi in luoghi dove la società è ridotta a una caricatura, dove le loro libertà sono in gran parte soppresse (persino quella di provvedere ai loro bisogni fisiologici in molti casi, come andare in bagno quando ne hanno bisogno) e la loro possibilità di partecipazione, decisione e creazione sono pure illusioni.<br />
<br />
Ora anche all’uscita di scuola debbono essere presi sotto scorta, perché inabili a muoversi nel mondo (essendo stati privati da sempre del diritto di farlo e incapaci di decodificare i segnali di pericolo che la realtà invia loro) . <br />
<br />
Questo delirio, ahimé in crescita, va fermato, anzi invertito. <br />
<br />
Occorre permettere a bambini e ragazzi di rientrare nel mondo come attori, soggetti e collaboratori. Deve essere ripristinato il loro diritto a conoscere il mondo direttamente, a imparare ad abitarlo, a osservarlo, a esplorarlo e intervenirvi in modo da poter essere quanto prima in grado di orientarsi al suo interno e di fare scelte che siano consonanti con le loro autentiche esigenze di affermazione personale, di sviluppo dei loro talenti e di partecipazione alle politiche che li riguardano.<br />
<br />
Permettere ai ragazzi di andare a scuola e tornare da soli è solo un diritto microscopico, una feritoia nel controllo pervasivo e capillare delle loro vite, uno spiraglio nella prigionia adulta a cui sembrano condannati per un tempo del tutto sproporzionato alle loro capacità potenziali (sempre che siano esercitate e sviluppate).<br />
<br />
Occorre dire di no alla paranoia generalizzata, al gioco idiota delle responsabilità scagliate dagli uni sugli altri senza mai prendere in considerazione seriamente i diritti minimi di ossigeno e libertà dei nostri bambini e dei nostri ragazzi, alla prevenzione come annichilamento della vita nel suo germogliare, crescere e moltiplicarsi.<br />
Unknownnoreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-8109023150103176649.post-36801566415628854662017-06-27T02:07:00.000-07:002017-06-27T02:07:59.653-07:00Il cellulare: postnichilistico e preapocalittico<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiNRWZ-8oP64u5r6f_uyw262589fsN3lUmxse2BO3PFXmg7pdg3RVEQa3Z2RkdaF9fC6grctKy-RP2vIalO9TjnWCOT6OmsD-wzLwn8KXGTLxaGJY4lTlfNPoPSaRhkezOQjzptFXaZUAA/s1600/%2524_57.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiNRWZ-8oP64u5r6f_uyw262589fsN3lUmxse2BO3PFXmg7pdg3RVEQa3Z2RkdaF9fC6grctKy-RP2vIalO9TjnWCOT6OmsD-wzLwn8KXGTLxaGJY4lTlfNPoPSaRhkezOQjzptFXaZUAA/s400/%2524_57.jpg" width="400" height="400" data-original-width="1600" data-original-height="1600" /></a></div><div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on"><br />
</div><br />
<br />
Che cosa è il cellulare? Chi è? Cosa rappresenta?<br />
<br />
Guardiamolo, questo piccolo oggetto, così maneggevole, così carezzevole, così sensibile e obbediente.<br />
<br />
E’ minuscolo, vitale, responsivo, sta in una tasca di qualsiasi vestito, si illumina, basta sfiorarlo per entrare in contatto con lui e le sue migliaia e migliaia di possibilità. <br />
<br />
E’ forse una bacchetta magica, la lampada di Aladino, che risponde allo sfregamento liberando un genio capace di realizzare i nostri desideri? Questo piccolo prodigio della tecnologia umana -o forse si dovrebbe dire dell’alchimia umana, se l’alchimia potesse essere piegata a scopi di soddisfazione pura come forse avrebbe voluto Faust e tanti altri adepti della pietra filosofale poco iniziati -, questo dispositivo non si può negare che possieda un alone magico. <br />
<br />
Lo sfreghi, lo diteggi, lo palpi e lui ti dice tutto quello che vuoi sapere, ti indica dove rivolgerti per ogni desiderio e, spesso, riesce a soddisfarlo seduta stante. Vedere un parente lontano, parlargli, avere un libro, subito, in pochi semplici movimenti, leggerlo, annotarlo, avere una ricetta (strano che non te la prepari), individuare un ristorante vicino a te, o un servizio di terme, o di massaggi, o sessuale, reale ma anche virtuale. Ti permette di giocare, di investire in borsa, di diventare più o meno chi vuoi nelle sue infinite simulazioni sempre più simili alla realtà, ti permette di comprare qualunque cosa senza muoverti dalla tua comoda poltrona, di vedere ogni genere di donna o uomo e di potervi accedere, con le infinite applicazioni per gli incontri, gli intrecci, assecondando le manifestazioni più particolari e inconfessabili delle tue manie.<br />
<br />
Si potrebbe passare giornate a elencare i suoi meriti, le sue possibilità, le infinite finestre che spalanca sul mondo, senza però ancora obbligarti a entrarvi fisicamente in contatto, sebbene molte delle avventure che cominci attraverso di esso possano costarti caro: il baratro delle spese e delle perdite d’azzardo, la diffamazione, la navigazione in acque sempre più torbide, fino ai bui scantinati della rete, dove puoi incontrare il tuo volto sconosciuto e quello dei tuoi simili più abominevoli.<br />
<br />
Il cellulare è tutto in un certo senso. Non riduciamolo alla condizione di pura virtualità. Il cellulare spalanca le porte del reale, te le fa scoprire, è il terminale da cui puoi partire per viaggi e imprese, anche solo conoscitive ma in molti casi molto concrete, sincerandoti prima, sempre che non ti vogliano truffare, che i luoghi che hai traguardato o gli oggetti che hai ammirato attraverso la tua personale finestra, siano veramente molto simili a quelli che davvero desideri.<br />
<br />
Il cellulare è piccolo, facilmente occultabile, il suo schermo è sempre più sofisticato, può condurti ovunque, senza fatica, per pochi soldi. E’ alla portata di tutti. E può mostrarti tutti i tipi di soddisfazione. E farteli godere. IL cellulare è la via alla soddisfazione dei desideri, intimo, confortevole, tuo. Tu con il tuo cellulare sei già tutto. Certo devi avere cura non cada nelle mani sbagliate, lì c’è la tua carta d’identità in un certo senso, non le maschere che indossi quotidianamente per fronteggiare il caos del reale, lì ci sei tu, nella nuda esposizione delle tue manie e dei tuoi desideri.<br />
<br />
E oggi, in epoca postnichilistica, quando tutte le parodistiche costruzioni di credenze, gerarchie di valori, metafisiche, punizioni e ingiunzioni universali, giudizi finali, sensi di colpa e di peccato sono finalmente dissolti, lì puoi davvero essere come Dio, o quasi. Una buona imitazione. <br />
<br />
Nulla ci può separare dal godimento e il cellulare lo rappresenta in tutte le sfumature possibili, allargando enormemente anche la nostra povera fantasia, offrendo sempre di più e spesso, sempre più a buon mercato. <br />
<br />
Il cellulare è il dispositivo del godimento, subito, o tra molto poco. Grazie alla geolocalizzazione può permetterti di setacciare il tuo territorio, alla ricerca di tutto ciò che ti possa soddisfare, in incognito, grazie agli pseudonimi, ai nickname, a un po’ di maquillage, oppure più libertinamente senza veli, tu, finalmente quasi onnipotente.<br />
<br />
Perché indignarsi? Al contrario, dovremmo rallegrarci! Fine dell’ipocrisia, fine delle mascherate, delle interpretazioni spesso grottesche di ruoli che non vogliamo, che non ci calzano. Finalmente un miglior impiego del tempo, dell’energia. Voglio conoscere qualcuno che venga in bicicletta con me? Scopro un gruppo su fb. Voglio scambiare foto di cadaveri? La selva dei siti satanisti e necrofili è fittissima. Voglio mangiare, guardare, scopare, collezionare video degli anni 70, figurine, fare la lotta con le amazzoni, in quella piccola scatola c’è tutto, perché affaticarsi. E non solo. Cercando si trova. Si trova qualcosa che non era stato pensato, qualcosa che non si era immaginato. E’ avventura, deriva, eccesso, trascendimento.<br />
<br />
Forse non sappiamo ancora creare un mondo a immagine di ciascuno di noi, come certa narrazione fantascientifica talora ci fa immaginare ma ci siamo molto vicini.<br />
<br />
Si tratta di un’utopia. Parliamoci chiaro. Specie in un reale che, non sappiamo se in conseguenza o come causa, si fa sempre più deserto, invivibile, contaminato, corrotto. Come orientarsi nel deserto del reale, dopo la fine di tutte le dottrine morali, di tutti i catechismi, di tutte le guide per perplessi o meno?<br />
<br />
Con il cellulare. Nessuna angoscia metafisica, un filtro puramente funzionale: vuoi giocare d’azzardo, puoi farlo da dove ti trovi o entrare in gruppi, vuoi sparare sentendoti parte di una gang e vivendo avventure impossibili? Perché no? Osa, liberati, spingi, la vita è breve, finita, godi ora perché domani non puoi sapere.<br />
<br />
Il cellulare è un buon inveramento del materialismo utopistico del ‘700. Fine delle ideologie, delle fedi, di qualsiasi Dio, l’avvento dell’uomo come orfano di un destino di riscatto e resurrezione ma finalmente padrone di sé, unico responsabile del suo esserci. <br />
<br />
Qualcuno ci controlla? Ci vedono? Ci registrano? Sappiamo bene ormai che la macchina del profitto non è interessata a giudicarci quanto ad allestire nuovi scenari di godimento. Più intercetta i miei desideri più mi sarà vicina per farmene trovare di simili, per titillarmi con altre offerte, per allargare lo scenario.<br />
<br />
Sarò io a pilotare l’offerta, -non c’è più bisogno di indurre i bisogni!-, sarò io a indurli, andando finalmente a fondo ai miei desideri, anche quelli impresentabili, che conosceremo soltanto io e l’ignoto addetto alla mia soddisfazione, complice tramite cookie, ben venga il cookie! Farò io la tattica della mia vita quotidiana, già so che se sceglierò quel bene, se solo lo cercherò, a poche ore me ne saranno presentati altri mille analoghi, ovunque io digiti, o sfreghi, o clicchi.<br />
<br />
Dunque finalmente guardiamolo per quello che è questo oggetto, questo incredibile prodigio, e facciamocene una ragione, chi davvero vorrebbe privarsene? E per che cosa? Per tornare ai vecchi telefoni, per tornare alle ricerche infinite, quando per farsi una bibliografia (per esempio), bisognava fisicamente andare in cento biblioteche e trovare molto meno di quello che si può trovare con pochi tocchi e sfregamenti?<br />
<br />
E poi in nome di che cosa? Del reale? Il reale, questo sconosciuto, non foss’altro perché i prospettivismi e ogni banale sociocostruttivismo ci ha finalmente dimostrato che non esiste alcun reale!<br />
<br />
Certo, a volte, a stare troppo attaccati agli schermi, può capitare di andare addosso a qualcuno, a un palo, a una macchina, a un bambino che cammina per strada. E’ solo questione di tempo: presto i cellulari avranno i sensori di ostacolo direzionali. Ce li ficcheremo dietro un orecchio, come già stanno sperimentando e fotograferemo il reale con le notizie che ci arriveranno dritte nella memoria. Di ogni persona che incontreremo per strada sapremo vita, morte e miracoli, secondo schede predisposte dall’utente si intende, oppure chissà, grazie a password molto più care, potremo entrare nella memoria dei suoi tracciati e vedere fin dove si è spinta la sua audacia o il suo orrore. Potremo decidere se frequentarlo o meno, se è libero o meno, se è disponibile, secondo un rapido sistema di stimolo-risposta.<br />
<br />
Quando penso alla verità e ai suoi fondi, alle sue profondità, mi viene sempre in mente quell’ormai vecchio film di Tarkovskij, Stalker, in cui tre tipi umani vogliono raggiungere il luogo dove si realizzano i desideri. Ma sono uomini di un altro tempo, ancora aggrappati a dei valori, o anche solo alla loro rifondazione. E nessuno avrà il coraggio di entrarci, nel luogo, nella stanza. Anche perché, come dice uno dei tre, lo Scrittore, “non vorrei vedere uscire lo schifo che c’è dentro di me”.<br />
<br />
Ma chi ha paura ormai del proprio schifo? E poi schifo agli occhi di chi? Per noi postumani…<br />
<br />
Come comportarsi allora con questi straordinari analizzatori della nostra verità, delle nostre pulsioni come dei nostri camuffamenti?<br />
<br />
Vogliamo proteggere i bambini? Gli adolescenti? E come fare? Noi lì immersi nel brago digitale e loro a digiuno. Occorrerebbe creare dispositivi per bambini, per i quali si prevedano continui divieti d’accesso almeno nei gironi più infernali della grande beneficenza visuale e interattiva. Ma in cambio di che cosa? Degli scenari appetibili e affascinanti che abbiamo preparato per loro? A cominciare dal deserto della scuola? E dal deserto delle città? E dal deserto di molte famiglie? E del lavoro? Che cosa abbiamo da offrirgli per distoglierli dal gioco più divertente e inesauribile, appena a pochi millimetri dalla possibilità di farne un tracciato vitale in continua espansione? E noi poi? Siamo forse meglio? Chi è meglio lanci la prima pietra!<br />
<br />
Se proprio non vogliamo però questo mondo di godimento individuale, un po’ atomizzato certo, un po’ disperato forse, come ogni forma di dipendenza del resto, e questa è una dipendenza dai mille volti, dobbiamo pensare un’alternativa credibile ad esso.<br />
<br />
Occorre rifondare un reale degno di essere esperito, vissuto, goduto, collettivamente, se non ci piace l’individualismo, ma per questo c’è parecchio da fare, perché tra cellulare e reale bruto c’è una sorta di corrispondenza inversa. Più si impoverisce l’uno e più si arricchisce l’altro. E di sicuro oggi a impoverirsi non è il mondo infinito e stupefacente dentro ai cellulari, come è di tutta evidenza.<br />
<br />
Vogliamo riappropriarci del cosiddetto reale, la concretezza delle cose, quelle in cui inciampiamo o ci incontriamo corpo a corpo? C’è tanto tanto da fare. Vogliamo rinverdire lo stato delle relazioni umane non sottoposte a commercio e protocolli normativi? C’è tanto tanto da fare. Vogliamo più affettività, più piacere, più condivisione, più solidarietà? Forse non c’è davvero più tempo. O forse no.<br />
<br />
E’ per questo che siamo prossimi ad un apocalisse. Ad una rivelazione.<br />
<br />
Di una siamo già testimoni: quella che ci mostra la verità nuda e cruda del nostro desiderio, finalmente. Oppure.<br />
<br />
Oppure sta a noi immaginarne un’altra, di rivelazione, o di catastrofe.<br />
Unknownnoreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-8109023150103176649.post-77305835104733037902017-06-17T11:28:00.000-07:002017-06-17T11:28:50.220-07:00Cronache dei nostri giorni: una ragazzina si taglia<div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjr4LThm5UO-I2biP-sZvXOYhlTunhHQwqWc-PNdcNpT8112uXx4j7b7oveA7FDIJ3Zte2NJ-emSpRJIbS3nsMGl_4Qm6gksTEsfP7eIOyo5urI-WF-xyropFLCtn61-Cus2vI2T3oFcW8/s1600/101-NIGREDO.png" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjr4LThm5UO-I2biP-sZvXOYhlTunhHQwqWc-PNdcNpT8112uXx4j7b7oveA7FDIJ3Zte2NJ-emSpRJIbS3nsMGl_4Qm6gksTEsfP7eIOyo5urI-WF-xyropFLCtn61-Cus2vI2T3oFcW8/s640/101-NIGREDO.png" width="488" height="640" data-original-width="763" data-original-height="1000" /></a></div></div><br />
Cronache dei nostri giorni: una ragazzina, chiamiamola Luna, posta su Instagram un video dove balla seminuda. Luna ha dodici anni.<br />
<br />
I suoi compagni di scuola la vedono e cominciano a lapidarla di insulti tra cui quello di puttana è fra i più gettonati. <br />
<br />
Luna si riempie di tagli un braccio e lo posta con il commento: -E’ questo che volevate?-<br />
<br />
Cronache dal deserto del reale contemporaneo. Nulla di nuovo si intende. Ci abbiamo fatto l’abitudine. Squadre di psicologi di tutte le razze, dagli psicoanalisti ai mental coach a indicare l’origine del male. Eccesso di aspettative, brusche ritirate affettive genitoriali dopo averli idolatrati in infanzia, vulnerabilità narcisistica, la civiltà della popolarità e della visibilità, la gara per primeggiare nello show totale diffusa da talent e altre fonti imbecilli.<br />
<br />
Tutto vero. L’autolesionismo piaga di un’età difficile, che odia tutti e soprattutto la propria limitatezza rispetto a ideali che la dominano e la umiliano. Genitori assenti, padri evaporati, famiglie che non ascoltano. Ecc. ecc.<br />
<br />
Ma chi è Luna? A ritrarla forse occorrerebbe la penna di un grande romanziere, qualcuno che sappia entrare nel dolore e in quella sensazione di totale disperazione che prende chi si sente incompreso, abbandonato, umiliato. Forse ci vorrebbe un Foster Wallace per penetrare, anche con il lessico e la sensibilità scorticata di un sofferente, dentro quel corpo scosso, quella mente sconvolta.<br />
<br />
Patire il male, infliggersi il male. Prove di suicido. Ammazzare il male con il male. Cura omeopatica.<br />
<br />
Gli adolescenti godono di cattiva fama da quando sono stati inventati. Hanno tutte le patologie immaginabili. Stanno lì, nella terra di nessuno, in attesa di portare a termine le tribolazioni di chi è nomade e profugo. Gli adolescenti sono in transito, come una tribù del deserto. Portano sulle spalle le macerie di un’età (idealmente) felice (o felice sicuramente come sostengono certi psicoanalisti che vedono ovunque “famiglie affettive”) e cercano a tastoni i lembi per cucire la veste che li possa proteggere da un’età di rendiconti e di minacciose verifiche che sta arrivando (come in un bel quadro di Dino Valls).<br />
<br />
Poveri infelici adolescenti.<br />
<br />
Ma è davvero così, o meglio, dovrebbe essere davvero così? O forse c’è un’incredibile falla nel sistema di elaborazione dell’esperienza di questa categoria di esseri umani così sensibile, delicata, acuta, nella vertigine di anni che potrebbero essere smisuratamente intensi e magnifici?<br />
<br />
Come potresti essere Luna, misteriosa Luna? Verrebbe da dire leopardianamente.<br />
<br />
Chi ha piazzato questi esseri metamorfici, meteorici, mercuriali, aperti a tutti e che tutto sono in grado di gustare, di sperimentare, di godere, nelle celle buie di un percorso ad ostacoli, nel labirinto di un’iniziazione così fitta di prove, di controlli e di sanzioni che neanche per vincere la cintura dei pesi massimi?<br />
<br />
Gli adolescenti, Luna, sono come te. Desideranti, belli, freschi, talora ingenui e anche arroganti, la roca arroganza di chi sta mutando pelle e vorrebbe saper subito interpretare il ruolo di protagonista. Ma hanno anche tutte le tue paure, di non essere capita, apprezzata, desiderata, amata. Vedono spesso più i propri difetti che le proprie qualità, sono impauriti da figure adulte che li trattano come mancanti, mutilati, in rodaggio, quando va bene. O semplicemente come reclute da prendere a ceffoni perché così va la vita, nella caserma del mondo.<br />
<br />
Ma tu che volevi Luna, inquieta Luna?<br />
<br />
Cercavi di essere vista, lodata, abbracciata da una folla di fan. Desiderio normale, innocente, chi non lo vorrebbe? Hai cercato di ottenere quello sguardo con quello che gira, con le droghe che girano, con i veicoli dalle mille trappole che questo mondo ti ha messo a disposizione. E cosa ne hai ritirato? Biasimo, vessazioni, flagellazione. Chi non cadrebbe di fronte a questa mancanza di ospitalità, di comprensione, di delicatezza?<br />
<br />
E allora prendiamocela con quegli altri, i compagni, bruti, bulli, debosciati. Come se loro invece vivessero in un mondo capace di accoglierli, di ospitarli, di accudirne le debolezze, le sensibilità estreme, le pelli troppo sottili anche solo per essere avvicinate.<br />
<br />
Vittime entrambe della bruttura dei genitori, certo, della loro distrazione, del loro ombelico, dell’attenzione frettolosa e impaziente.<br />
<br />
Certo, sono loro i colpevoli, secondo gli psicologi. Gli psicologi vedono solo le relazioni primarie. Non sembrano vedere che tutti quanti vanno in scena in un dramma i cui copioni sono scritti dalle strutture sociali, da quelle del lavoro, da quelle del denaro, da quelle stomachevoli e senza pietà dei profitti di pochi a danno di tutti gli altri. <br />
<br />
No, gli psicologi affondano le loro zanne piene di buone intenzioni nei corpi delle vittime per rinviarli a sé stessi, ai loro limiti e alle loro mancanze. Bravi psicologi, sempre alleati con il potere.<br />
<br />
Ma questi adolescenti, queste famiglie non sono il prodotto di sé stesse, ma di un sistema di pressioni, un reticolo di vincoli spazio-temporali, di ingiunzioni produttive, di ingabbiamenti fisici, emotivi, cognitivi che viene ben prima che una famiglia si costituisca e si costituisca secondo il regime di produzione che le genera a sua immagine e somiglianza.<br />
<br />
Poi certo, qualcuno sbaglia di più. E allora pronti a condannare e crocifiggere la mamma che cede all’impulso primitivo, all’uomo che uccide tutti compreso sé stesso, all’adolescente bambina che si prostituisce o a quello che dorme sul banco o si devasta di droga tra gli specchi di una discoteca. Stuoli di specialisti che si mobilitano. Psicologi, criminologi, giornalisti, antropologi, ognuno secondo la fetta di spazio conoscitivo che il filo spinato delle discipline (esse stesse figlie della forma separatrice e gerarchica di questo potere) gli consente, per giungere a non capire nulla del fenomeno, imprigionati come sono dentro a griglie interpretative tanto specialistiche quanto inutilizzabili.<br />
<br />
Guardate Luna, guardate la sua dolcezza stremata, disperata, guardate questi tagli e tacete una buona volta, venditori di gadget buoni per la fiera del paese.<br />
<br />
Occorre cogliere il luogo, lo status in cui versano famiglie e bambini e genitori e singoli. Tutti affratellati dall’essere ingranaggi di una stessa macchina che non ha alcun interesse a cogliere la singolarità di ogni vita. A “vedere” ogni vita che viene e diviene, e dovrebbe venire e divenire secondo la sua specifica cifra costitutiva, la sua stortura anche, la sua camminata indolente, la sua pettinatura disordinata.<br />
<br />
James Hillman mi ha insegnato che l’adolescente ha bisogno di essere “visto” ma non dallo sguardo classificatorio, diagnostico, prognostico dello psicoterapeuta, ma da quella intelligenza immaginativa che sa cogliere, in virtù di una protratta attenzione, di un’autentica ospitalità, la sua voce, il suo tratto, la sua domanda, il suo desiderio. Solo allora si apre una porta.<br />
<br />
Ma il nostro sistema di potere non vuole che ad occuparsi dei ragazzi e dei bambini ci siano persone di anima, di “capacità negativa” (come diceva Keats), di fiducia profonda nelle possibilità di ciascuno, di apertura a quella che Hillman chiama “eachness”, ciascunità, il diritto di ognuno a divenire quello che è.<br />
<br />
Noi abbiamo fatto in modo che tutti fossero ingabbiati nelle stesse attese, negli stessi gironi di apprendimento dell’inferno che tutti ci aspetta, non voluto da nessuno eppure accettato da tutti, o quasi.<br />
<br />
Di sicuro voluto da chi pensa che gli uomini siano votati al sacrificio, alla disperazione e alla vita da sudditi, in onore di non si sa bene quale funzione superiore, economia, religione, scienza, qualsiasi ridicola bandiera torbidamente umana.<br />
<br />
Per questo ti chiedo scusa Luna, per la follia che domina il nostro mondo, le sue strutture coriacee, a partire da quella scuola dove probabilmente nessuno è riuscito a vederti. Né i tuoi compagni, che non potevano, accecati come te da chi non vuole che la tua vita sia degna di essere vissuta, né i tuoi genitori, forse anch’essi troppo deboli e intontiti dal fracasso di questa macchina spietata che è diventato il mondo, né i tuoi insegnanti, troppo spesso solo pronti a galleggiare sopra il male che perpetuano.<br />
<br />
Ti chiedo scusa anch’io, per non averti saputa vedere, per tutti quelli che non ti sanno vedere, con quello che credo sia giusto chiamare l’ “occhio del cuore”, in onore non solo a Saint-Exupery ma anche a quello sguardo che sa accogliere il non visto, il non visibile in una forma interna, immaginale, alla fine di quell’attesa che è parte della visione autentica chiamata nella mistica sufi “doccia di stelle” .<br />
<br />
La religione del nostro tempo ci ha mutilato di quella vista.<br />
Unknownnoreply@blogger.com3tag:blogger.com,1999:blog-8109023150103176649.post-45421981239244679812017-06-11T09:59:00.000-07:002017-06-11T09:59:30.235-07:00Cara Ministra, cari genitori. Tema: la bellezza di venire al mondo<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjJd3Acce5y0ec6VYnlrh98gM8diyf78weuJW54SvEj7S9WDlVvbGGxgbtbAWWq1iwb-otbkG4Woe_Ib5YObawVIAIFwTy2OX3HHOXdYoxQyrVXMuQRdRM4yr7TRpHDMNFTT2on40bs6E8/s1600/ministra.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjJd3Acce5y0ec6VYnlrh98gM8diyf78weuJW54SvEj7S9WDlVvbGGxgbtbAWWq1iwb-otbkG4Woe_Ib5YObawVIAIFwTy2OX3HHOXdYoxQyrVXMuQRdRM4yr7TRpHDMNFTT2on40bs6E8/s640/ministra.jpg" width="640" height="421" data-original-width="277" data-original-height="182" /></a></div><div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on"><br />
</div><br />
<br />
Leggo oggi che la ministra Fedeli intende appioppare un altro mese di scuola agli studenti. Nel periodo estivo. Su pressione di molti genitori.<br />
<br />
Stop.<br />
<br />
Molti genitori decidono di fare figli. Chi per caso chi per scelta, del tipo: voglio avere un figlio.<br />
<br />
Stop.<br />
<br />
So che ci hanno provato altri colleghi e predecessori della Fedeli a prolungare il periodo di internamento nelle patrie prigioni della Pubblica Istruzione.<br />
<br />
Stop.<br />
<br />
Ho letto che recentemente hanno deciso la vaccinazione di massa anche per chi non la vuole. E che vogliono esaminare più spesso anche i figli di chi ai propri figli gli esami non li vuole far fare.<br />
<br />
Stop.<br />
<br />
Per un momento penso, ora vado a letto e dormo per un altro anno. Magari tra un anno quei genitori, la ministra Fedeli e quegli altri dei vaccini e degli esami sono stati sottoposti al lavaggio del cervello.<br />
<br />
Stop.<br />
<br />
Poi però penso. Non finiranno mai, quelli così, a meno di un miracolo. <br />
Per ora quindi mi accontento di dormire solo un altro paio d’ore, sperando che il mondo dei miei sogni sia più abitabile di quello che trovo quando sono sveglio. Ma in verità nei miei sogni finisco per incontrare di nuovo gli stessi che incontro qui, che non mi danno ascolto. Sono in trappola.<br />
<br />
Stop.<br />
<br />
Allora mi incazzo.<br />
<br />
E chiedo: ma porco di quel (omissis), ma perché mai – parlo ai genitori- avete messo al mondo dei figli? Ma avevate visto cosa c’era in palio per loro? Avevate visto che dopo pochissimo sarebbero stati internati, sottoposti a restrizioni del tempo, dello spazio, della libertà, del diritto di fare qualcosa che avesse un senso per “loro” e non per una società idiota che destina tutti ad una vita senza senso? Vi siete accorti che i vostri figli avrebbero dovuto passare la massima parte del loro tempo agli ordini di adulti che gli avrebbero imposto quotidianamente condizioni che solo una caserma potrebbe giustificare ( e in tempo di guerra), che le loro pulsioni, i loro desideri, e il loro diritto ad essere trattati come esseri umani a pieno titolo (cioè dotati non solo dell’istinto del servo ma anche di quello della fantasia, del piacere, della vitalità, della creatività, dell’immaginazione, dell’arte, della partecipazione, del silenzio e del chiasso, del dire di no e del dire di sì, del gioco, della condivisione, del dono e della restituzione, della bellezza, del riposo, del nutrimento non forzato ecc. ecc.), avrebbero contato come il due di briscola?<br />
<br />
E ora, non paghi di averli consegnati alla barbarie quotidiana dei compiti e del disciplinamento forzato -visto che proprio non avete tempo per loro, che vi intralciano a tal punto che non vedete che il momento di sbarazzarvene e rifilarli a qualcuno in cui riporre la massima fiducia che la meraviglia del loro essere in formazione sia custodito e accudito nel migliore e più amorevole dei modi- eccovi di nuovo pronti a scrivere alla ministra per trovare il modo di tenerceli ancora un po’, i vostri figli, nelle sue simpatiche prigioni. Certo, magari non parcheggiati, come di fatto voi li volete (perché che altro fate se non parcheggiarli?) Ma magari sottoposti a nuovi processi di disciplinamento, a nuove sevizie culturali (in virtù delle quali, come è noto, siamo diventati uno dei paesi più colti e amanti la cultura al mondo).<br />
<br />
Permettetemi (e perdonate una briciola di livore): <br />
<br />
MA PERCHÉ CAZZO LI AVETE MESSI AL MONDO?<br />
<br />
Stop!<br />
<br />
Certo, avrete tutte le buone ragioni che hanno quelli che ahinoi, prima di fare certi passi non proprio banali, di pensiero non ce ne mettono neanche una briciola, nonostante abbiano fatto tanta scuola e abbiano tanta cultura e sensibilità e comprensione e amore per il prossimo. <br />
<br />
Mi limiterò quindi all’applauso sarcastico.<br />
<br />
A quegli altri, quelli dei vaccini, quelli che abbiamo eletto per governarci,vorrei chiedere:<br />
<br />
Ma che idea avete del vostro popolo, dico quello che, con tutta evidenza, non avete più neppure la vaga giustificazione a governare? Ma perché mai questi soggetti adulti, in gran parte definiti “maturi” da una commissione scolastica, dunque pienamente <br />
capaci di intendere e di volere, perché mai devono essere infantilizzati proprio quando si tratta della salute dei loro figli?<br />
<br />
Perché non possono scegliere loro? Almeno questo sarebbe un riconoscimento che non pensate che si sia tutti dei perfetti imbecilli (e ammetto che, dopo aver letto della domanda dei genitori di trattenere a scuola i loro pargoli anche d’estate, qualche dubbio è sorto anche a me ma poi, vedendo che la ministra, come i suoi augusti predecessori, non vedeva l’ora di blindare per un altro po’ le nuove generazioni nell’eden delle loro scuole, ho dovuto ahimé ricredermi: gli (omissis) stanno da entrambe le parti).<br />
<br />
(omissis)<br />
<br />
(omissis)<br />
<br />
Da un lato tuttavia è bello che cadano le maschere, che finalmente si arrivi al sodo. Tutta quella retorica davvero obbrobriosa, fatta di parole ormai inservibili, come libertà, diritti, democrazia, tutela della persona, rispetto per le diversità, ecc. ecc., in fondo abbiamo sempre saputo che erano, da chi detiene il potere (non da chi ha lottato e magari è morto per esse), usate come carta igienica o pillole contro l’alitosi.<br />
<br />
E d’altra parte. <br />
<br />
Noi, rubricati come adulti, non abbiamo neppure noi il diritto di curarci come vogliamo, di morire come vogliamo, di stare insieme come vogliamo pienamente tutelati nei nostri diritti di soggetti, figuriamoci se i “minori” -i cuccioli che ci ostiniamo a mettere al mondo sperando che godano di una vita migliore della nostra della quale però ci preoccupiamo solo quando qualcuno se ne vuole occupare davvero per il loro bene, non quando sono messi nelle mani di istituzioni totali e dei loro custodi caotici e disorientati-, quei piccolini tanto adorati e posti sopra un piedistallo prima di infilarli nel tunnel senza uscita di una vita espropriata, alienata e infine sfruttata senza alcuna remora, potrebbero forse davvero essere titolari di diritti personali?<br />
<br />
Consoliamoci: almeno per sei mesi vengono tenuti in palmo di mano. Dopo, devono evidentemente espiare il peccato originale. Immagino sia per quello che vengono messi così presto in prigione. Qualcuna anche carina, coi giocattoli, i sorrisi e Patch Adams. Ma è per poco. Dopo arriva<br />
LA SQUALA.<br />
<br />
Tocca imboccare la via del sacrificio, perché si è peccato, si è molto peccato, figuriamoci, si è avuta l’impudenza di VENIRE AL MONDO!<br />
<br />
Stop!<br />
<br />
<br />
Unknownnoreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-8109023150103176649.post-85992674644002219232017-04-26T07:35:00.000-07:002017-04-26T07:35:15.378-07:00Gramellini, la memoria e i 5 stelle<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjrsCT4bKFIFGeZuE6YbPdILov1UYECmqmIiDf70PNYv501e5WibidWZ1-OVz0zvX8zTJvE7CONzaJU7aWYVjVg-Ccj4jJ28C7n-pHfogP3XrK-pBj9t3631RbYqay2r2i5T0lEolBM4f8/s1600/massimo-gramellini-779551.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjrsCT4bKFIFGeZuE6YbPdILov1UYECmqmIiDf70PNYv501e5WibidWZ1-OVz0zvX8zTJvE7CONzaJU7aWYVjVg-Ccj4jJ28C7n-pHfogP3XrK-pBj9t3631RbYqay2r2i5T0lEolBM4f8/s320/massimo-gramellini-779551.jpg" width="320" height="179" /></a></div><div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on"><br />
</div><br />
La schiera dei detrattori del ’68 si allarga sempre di più, forse anche perché aumentano a dismisura quelli che hanno idee molto pallide intorno a cosa si sia trattato. <br />
<br />
Pur di far polemica con il Movimento 5 stelle Massimo Gramellini invoca, dalla sua rubrica Il Caffè, in questo caso davvero troppo ristretto e cicoreccio, la triste pedagogia della fatica e del nozionismo, tanto per controbattere alla proposta dei pentastellati di consentire agli studenti, durante la prova di matematica della maturità, di poter consultare il manuale di formule.<br />
<br />
Fortunatamente, anche se si tratta ovviamente di un inciso ironico, il nostro moralista di punta afferma egli stesso di essere un “bieco conservatore”, nel perorare la causa, già ministerialmente attestata, che la memorizzazione, anche gratuita, deve sempre avere la meglio. Non contento di portare acqua al mulino delle Mastrocola e del coro di altri “biechi conservatori”, senza arrivare a dileggiare Don Milani, si limita a profetizzare la rivendicazione del “6 politico” ad opera del Movimento 5 stelle, che elegge a prosecutore del 68 (del che dovrebbero considerarsi onorati) un 6 politico usato ovviamente come strumento di dileggio (il “voto di cittadinanza” secondo il brillante retore della Stampa), evocato in modo del tutto decontestualizzato dal periodo di lotte di ben più ampio respiro che negli anni 60 segnò la fine di una istruzione selettiva e classista, per breve tempo ahinoi. <br />
<br />
Resta il problema di questa levata di scudi per una restaurazione dei consueti feticci dell’istruzione tradizionale. Occorre ricordare ancora una volta (a tutti questi sedicenti esperti della cultura dell’educazione), che non esiste apprendimento puramente mnemonico, se non è rafforzato dal cemento emotivo della motivazione. Quando si apprende puramente a memoria e solamente per compiacere una richiesta non condivisa (come accade nella maggior parte degli apprendimenti scolastici), l’apprendimento, che si deve allora chiamare, secondo una dicitura coniata da chi di questa cose si intende (si vedano gli studi di Meltzer, Harris, Bion degli anni 70 e 80 ecc.), “per sottomissione ad un persecutore”, si rivela debole, inconsistente e destinato ad un rapido dissolvimento. Certo, ripetute sanzioni possono produrre alla fine una incisione a vivo che contribuirà a consolidare la memorizzazione, non disgiunta però da un odio profondo più o meno consapevole per quello stesso apprendimento o addirittura per l’apprendimento in genere (almeno quello impartito da un’istituzione sanzionatoria e vessatoria come quella scolastica).<br />
<br />
Imparare a memoria formule matematiche è certamente un esercizio interessante per un corpo di teste di cuoio della matematica, molto meno per chi deve scoprire e nutrire i propri talenti, che inevitabilmente assecondano le leggi passionali e non quelle dell’inculcamento percussivo. <br />
<br />
A Gramellini, che di sicuro avrà avuto modo, prima o dopo il periodo della sua istruzione, di appassionarsi a qualcosa, non potrà sfuggire che l’unico apprendimento che si conserva nel tempo è quello sostenuto dall’interesse attivo, dalla curiosità e dal desiderio, condizioni che lo renderanno oggetto di “studio” in senso latino, e che lo porteranno a essere metabolizzato in senso profondo e originale nella personalità singolare del soggetto implicato nel suo apprendimento.<br />
<br />
Memorizzare gratuitamente formule o date può essere un simpatico esercizio ascetico del cervello ma raramente costituisce un pezzo significativo della formazione umana, checché ne abbiano detto Eco o tanti altri. E’ vero il contrario, e cioè che si impara e memorizza veramente, e non per il tempo di una prova, quale che sia, matura o immatura, solo quando qualcosa, nel caso anche una formula o una data, ha suscitato il nostro interesse ed è stata sottoposta ad un ripetuto e appassionato lavoro di appropriazione e comprensione. <br />
<br />
Lasciamo poi stare il 68, o, se proprio lo vogliamo giudicare, che lo si faccia con l’attenzione che un periodo complesso e così ricco di innovazioni e di mutamenti anche radicali ha portato con sé, e non con le battute piuttosto ignoranti della nuova falange dei “biechi conservatori”!<br />
Unknownnoreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-8109023150103176649.post-36412323894934542232017-02-06T08:54:00.000-08:002017-02-06T08:54:11.182-08:00UNA SVOLTA RADICALE IN EDUCAZIONE<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEik2PEiyq378Aiu9n3POXNDereRZuGtiwgkuH-c3qlnYIV_iWWycERmQFolfgybE_Q-8b3-pbPN_oIfh9UMA_EV9mBDe_IvH_fZAHKPxiErbcuAeaYNAJM23Nn4uxUMI7PtYNPOdFL0NRc/s1600/LA+SCUOLA+DIFFUSA+Cop.+ISBN-page-001.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEik2PEiyq378Aiu9n3POXNDereRZuGtiwgkuH-c3qlnYIV_iWWycERmQFolfgybE_Q-8b3-pbPN_oIfh9UMA_EV9mBDe_IvH_fZAHKPxiErbcuAeaYNAJM23Nn4uxUMI7PtYNPOdFL0NRc/s640/LA+SCUOLA+DIFFUSA+Cop.+ISBN-page-001.jpg" width="490" height="640" /></a></div><b></b><div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on"><br />
</div>Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8109023150103176649.post-16467958598869950232017-02-06T06:51:00.000-08:002017-02-06T16:31:18.793-08:00La carica dei 600 parrucconi accademici<div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on"><br />
</div><br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj5BdpONsvIZ5YY75V6PnZ639EJf70Kn_7hqS7fZC2aJ8mQM2AgbZpl6NsVXanVWy-oChumjaS4035Pxz_Zz3-x3iihDkPTvz6aZ25TMzXv2ooQ2wno-ZRlKFASxlCqVVE4q2_VS62AXek/s1600/giudice-arrabbiato-cartoon-59592796.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj5BdpONsvIZ5YY75V6PnZ639EJf70Kn_7hqS7fZC2aJ8mQM2AgbZpl6NsVXanVWy-oChumjaS4035Pxz_Zz3-x3iihDkPTvz6aZ25TMzXv2ooQ2wno-ZRlKFASxlCqVVE4q2_VS62AXek/s320/giudice-arrabbiato-cartoon-59592796.jpg" width="320" height="240" /></a></div><br />
<br />
<br />
<br />
Cielo, di nuovo parrucconi che si strappano i capelli, barbogi che pontificano, megere che si scandalizzano!<br />
<br />
Quando finirà la trista e trita litania del o tempora o mores? Quando le anime belle del tempo che fu smetteranno di piangere e sbraitare sull’incapacità dei giovani, sui loro sbagli, sulle loro incompiutezze? Di nuovo la vecchia catilinaria della lettura e della scrittura. “fanno errori da terza elementare!” “Non sanno le più pallide regole della grammatica!”. “Non leggono. Non sanno far di conto, non hanno disciplina”. “Le famiglie li rovinano. Le scuole non sono abbastanza esigenti”, "gli insegnanti sono dei mentecatti" e compagnia gridando e infuriando.<br />
Che noia!<br />
Forse occorrerebbe che qualcuno spiegasse ai 600 parrucconi in convulsione da matita rossa e blu, che l’università da parecchio è diventata un’istituzione di massa, che la scuola stessa è diventata da molti decenni di massa e che la civiltà è progredita al punto di non poter tollerare che bambini e bambine e ragazzi e ragazze siano tenuti nel terrorismo delle punizioni, dei castighi e del ludibrio pubblico.<br />
Andrebbe loro spiegato che oggi gli strumenti di cultura si sono assai diversificati e non sono più racchiusi solo nelle biblioteche e nelle librerie e che la lettura ha ceduto il posto a infinite altre occasioni di informazione e di evasione, visto che , fino a prova contraria, coloro che leggono, nella stragrande maggiorana dei casi, leggono soprattutto per evasione, e scrivono solo quando è strettamente necessario e non certo per professione.<br />
Sì, strappiamoci i capelli sulla triste sorta di una giovinezza perduta, ignorante e arrogante. Avanti il concerto: da Galimberti alla Mastrocola, dalla Tamaro a Lodoli, dall’Accademia della Crusca a quella del Politecnico! Giovani senza il dio della scrittura, alla mercè di preposizioni disarticolate, predicati immorali e complementi senza oggetto.<br />
<br />
E allora? Irrigidire, disciplinare, sanzionare, moltiplicare i controlli, ergere sbarramenti. Perché non tornare anche ai ceci sotto le ginocchia?<br />
<br />
Io credo che li faccia sentire bene, i (o ai?) nostri accademici, schizzare un po’ di merda di tanto in tanto sulle giovani generazioni. Forse gli dà un qualche motivo di esistenza, chissà.<br />
<br />
Finiamola una buona volta. Oggi i ragazzi e le ragazze leggono infinitamente più di una volta, anche grazie ai loro dannati telefonini, anche grazie a internet, e scrivono, scrivono molto di più. Leggono e scrivono ciò che interessa loro e non ciò che vogliamo noi. E leggono e scrivono bene o male, ma si intendono.<br />
<br />
Io insegno al primo anno di un corso di laurea di educazione, dove approdano studenti che vengono con titoli di studio anche molto poco à la page, eppure scopro tesori di intelligenza, maestria di scrittura, poetica e prosaica, e lettura tutt’altro che banali. Certo in alcuni, come è sempre stato peraltro, in molti altri avverto difficoltà, come sempre è stato peraltro. Capisco che essi comunicano attraverso linguaggi differenti, anche scritti, la cui grammatica e semantica è talvolta differente da quella del toscano cruscante, ma non meno ricca, anche articolata. Le loro faccine sulle loro chat sono forse piè economiche che scrivere del “rumor di croste” della biada, eppure hanno una loro densità, specie quando moltiplicate e associate.<br />
La verità è che non gli stiamo dietro, che loro sono veloci e che se ne fregano delle nostre auree regole. Più o meno come sempre hanno fatto i giovani sani, non quelli già gobbi che immancabilmente finiscono a far marcire le loro frustrazioni dentro le Accademie.<br />
<br />
Rassegniamoci: occorre un movimento esattamente inverso. Siamo noi che dobbiamo adattarci, non loro. Siamo noi che dobbiamo aggiornarci, non loro. <br />
<br />
Non solo. Se davvero ci teniamo a fargli volgere l’attenzione verso qualcosa che riteniamo cruciale (e qui potrei trovarmi più che d'accordo anch’io. Che leggano Eliot o Rimbaud o Celan o Rilke, lo ritengo piuttosto essenziale). Ma mai ci arriverò sottoponendoli a pene e sanzioni. Occorrerà che elabori dei circuiti motivazionali virtuosi, magari legati ad atti reali, che li chiamino prepotentemente alla lettura, non alle vessazioni dei controlli e delle prove. <br />
<br />
Nessun autentico apprendimento è mai passato attraverso la severità (tranne che per i masochisti), solo finzioni di apprendimenti, simulazioni, buone per saltare l’ostacolo e poi scordarsene. Se vogliamo che si appassionino alla scrittura, cosa che in sé è buona e giusta, benché sia falso dire che essi ne siano più di quelli di altri tempi digiuni, occorre trovare il modo di appassionarli facendo leva sulle loro motivazioni, non quelle di qualche obsoleta e fatiscente disciplina istituzionale.<br />
<br />
Volete che usino le parole “obsoleto”, o “fatiscente” o “apodittico”, allora occorrerà fare un lungo giro, dentro il sangue e la carne delle loro vite, perché quei termini si conficchino dentro di loro come significanti di significati ricchi di vita, non mere parole imparate a memoria.<br />
<br />
La si finisca una buona volta con questo moralismo angusto e cieco, si guardi in faccia la vitalità di questi giovani, che ogni anno trovo un po’ meno addomesticati dei loro progenitori, più aperti, più vivi - probabilmente anche grazie a una scuola che sta finalmente dismettendo la bacchetta e il pugno sulla cattedra, in virtù di insegnanti sicuramente un po’ meno rincoglioniti umanamente di quelli che li hanno preceduti-, più curiosi, più perspicaci, e –perfino!- in virtù delle nuove tecnologie, preziosissime per scoprire ed esplorare ben oltre i confini dell’apprendimento scolare, più informati, magari a modo loro, ma informati.<br />
<br />
Io ho imparato a imparare da loro, e basta mettergli sul piatto un cibo saporito per vedergli spalancare gli occhi e la bocca, pronti a gettarsi con persino troppo slancio sul boccone.<br />
<br />
Non c’è bisogno di ristabilire la disciplina, c’è bisogno di gaia educazione, di amore, di passione, di contenuti alla loro altezza, di mete realizzabili, di azioni, di gesti, di compiti reali. Basta con il tartassamento di insegnamenti senz’aria, corpo e senza remunerazione umana! E soprattutto basta con la nostalgia di un passato che, ad onta dei fasti di cui personaggi che emanano solo tristezza e polvere li ammantano, sono stati tra le pagine peggiori della formazione dei piccoli d’uomo, oppressi, castrati e castigati oltre ogni possibile giustificazione.<br />
Unknownnoreply@blogger.com8tag:blogger.com,1999:blog-8109023150103176649.post-6478822135069020112017-01-15T11:10:00.000-08:002017-01-15T11:10:22.770-08:00Il desiderio di Alcibiade (2006)<div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on"><br />
</div><br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjnNEjD5_MR1R7r1aJIVAhUHc586F23qkC5N15STT5y7Sy-Pz-AmOzarjhrPJ1gW6R4tdGd_fTX9qoNq00zEEaMV4mLOqL1XWHDP6_JykAE74JT4IZolRhbBRQ_4FIcqhiBWSAwnBYz3v8/s1600/index.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjnNEjD5_MR1R7r1aJIVAhUHc586F23qkC5N15STT5y7Sy-Pz-AmOzarjhrPJ1gW6R4tdGd_fTX9qoNq00zEEaMV4mLOqL1XWHDP6_JykAE74JT4IZolRhbBRQ_4FIcqhiBWSAwnBYz3v8/s640/index.jpg" width="640" height="479" /></a></div><br />
<br />
<br />
<br />
<br />
<br />
<br />
<br />
<br />
“Ho bisogno d’un amante che, ogni qual volta si levi,<br />
produca finimondi di fuochi da ogni parte del mondo!<br />
<br />
Voglio un cuore come inferno che soffochi il cuore dell’inferno<br />
Sconvolga duecento mari e non rifugga dall’onde!<br />
<br />
Un Amante che avvolga i cieli come lini attorno alla mano<br />
E appenda, come lampadario, il Cero dell’Eternità,<br />
<br />
Entri in lotta come un leone, valente come Leviathan,<br />
non lasci nulla che se stesso, e con se stesso anche combatta,<br />
<br />
e, strappati con la sua luce i settecento veli del cuore,<br />
dal suo trono eccelso scenda il grido di richiamo sul<br />
mondo<br />
e, quando , dal settimo mare si volgerà ai monti Qâf misteriosi<br />
da quell’oceano lontano spanda perle in seno alla polvere!”<br />
<br />
(Gialâl ad-Dîn Rûmî)<br />
<br />
<br />
<br />
Nostalgia misterica<br />
<br />
In una cultura pedagogica così priva di fascino e di magìa, così desertificata e spogliata da ogni traccia di ritualità, disboscata da ogni tensione iniziatica o da una anche soltanto tenue atmosfera di mistero, quali mai potranno essere i caratteri precipui della cosiddetta “relazione educativa” (espressione abbastanza schematica e astratta da essere buona per ogni stagione e ogni “impiego” )? Quale densità, profondità, caratura potrà mai caratterizzarla e qualificarla? Quali saranno le forme della sua manifestazione se non quelle così malinconicamente esibite nell’ordine geometrico e raggelato delle “buone maniere”, dei protocolli surgelati dalla retorica didattista e che appaiono per lo più il riaffioramento imbellettato di psicologismi di un galateo solo un po’ più manipolatorio e zuccherato con qualche dose di empatia o di maternage a buon mercato?<br />
<br />
L’ortopedìa istituzionale del gesto educante e del comportamento discente così profondamente interiorizzati ed esibiti nel grigiore dei termini, dei discorsi, degli abiti, dei gesti, delle forme diffusi nel mondo educativo odierno, ben esprime la povertà infinita e il disseccamento ascetico cui è giunto il contatto ustorio più antico del mondo dopo quello paterno e materno.<br />
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Quale nostalgia per lo spazio misterico e cerimoniale di un’iniziazione, quale desiderio di spoliazione e di investimento, di preparazione e somministrazione di gesti calibrati e necessari, di pratiche, di formulari capaci di ispessire e approfondire incontri impegnativi e complessi ormai avviliti, detersi e bonificati da ogni attesa e timore!<br />
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La relazione educativa è perlopiù, salvo qualche rara eccezione rintracciabile comunque in ambiti extraistituzionali, piatta come l’elettroencefalogramma di una salma sul tavolo dell’anatomista, esternata in quelle sale operatorie, a giudicare dall’aspetto, che sono le aule delle nostre scuole e Università. Scialbo transito incapace di generare e di segnare in alcun modo, dentro scene prosciugate da ogni velleità di bellezza, dove i “funzionari” di un processo sopportato e patito più che desiderato e incarnato, impiegati privi di carisma e all’oscuro di ogni consapevolezza liturgica, appaiono come comparse evanescenti degne soltanto del tempo misero e disorientato del quale sono espressione.<br />
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Non ci sono corpi né anime a dialogare dentro l’aere mummificato delle aule e dei laboratori istituzionali e ben presto, con condiviso consenso e plauso, anche questi ultimi saranno risucchiati nell’iperspazio della “Rete” e forse chissà, proprio allora riemergerà, come già accade, una forma forse un po’ traviata di esoterismo da fibra ottica, tuttavia sapientemente agghindato di maschere, linguaggi cifrati, nuove forme di segretezza (pseudonimi, password, segnature) e di affiliazione.<br />
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Il processo di imbalsamazione della relazione educativa inaugurato da Rousseau, come aveva ben messo in rilievo Schérer (1976) a suo tempo, e perfezionato dalla moderna psicologia dell’apprendimento, è arrivato al suo capolinea e finalmente oggi la relazione educativa ha perduto, almeno alla superficie, ogni lato oscuro, ogni peculiarità, ogni enigma degno di essere interrogato, ogni sottofondo. Tutto è stato rivoltato e esposto e castrato con il risultato che la relazione educativa è pronta per essere trasferita in blocco in una programmazione ingegneristica perfettamente lineare e forse neppure a doppia entrata. All’insegna dell’utile e della razionalizzazione, la relazione educativa si avvia ad essere definitivamente sistematizzata e cablata affinché possa essere “fruita” direttamente a casa o ovunque tramite videoconferenza, videoteloefonino, o videochip installato nel cranio. <br />
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Carne e sangue<br />
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Dire che la relazione educativa ha bisogno di essere rivitalizzata appare ormai un vezzo triste e un po’ snob da autentici Tartarini di Tarascona; eppure, per chi come me è tenacemente avvinghiato ad un’idea che forse neppure mai si è realizzata, una sorta di “utopia” educativa dunque, se proprio se ne deve parlare, non può che toccare la funzione, ingrata a vero dire, di riproporre la necessità di pompare sangue, umori, anima, pathos e significato dentro il corpo esanime di questa “cosa”.<br />
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Il tempo sacrificale della perdita e dei segni marcati sulla carne, ma anche quello dell’amore di bellezza che sospingeva Alcibiade, nel Simposio, a lodare le belle immagini (agalma) impresse nell’animo di Socrate ( lodi che giustamente, con la consueta malizia, Lacan intuisce che erano probabilmente rivolte al bell’Agatone (Lacan, 1991)), o ancora l’introduzione rituale, scandita in gradi, dell’adepto ai misteri alchemici della Grande Opera, tutto questo e molto altro sopravvive solo nell’inconscio più buio delle istituzioni, negli scantinati da dove ogni tanto erompe rabbiosamente e riemerge in forme deviate, pervertite, capovolte (ma anche sintomatiche, più di quanto una lettura superficiale potrebbe indurre a credere…).<br />
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Ma questa “latenza” o comunque la significatività profonda di tali pratiche, che poi si traducono nel bisogno di setta, di sigla, di tracce sul corpo e di accesso ai misteri delle sostanze ma nella totale ignoranza del loro senso e delle loro forme, questa “attesa” fondamentale, non può essere completamente soffocata o semplicemente ottimizzata (!).<br />
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La relazione educativa è qualcosa di altamente “transizionale”, rituale, e non si celebra senza che qualcosa di rovente e di ineludibile si affacci, pena la sua insensatezza. Essa non si dà autenticamente in mancanza di un’azione in cui un sigillo, un crisma, una marcatura profonda vengano impressi sulla carne viva.<br />
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Occorre, a mio giudizio, “riesumare”, anche se in forme nuove, gli elementi “mitici” del fare educazione, nel loro senso più autentico, non certo in una letteralità naturalistica da ricostruzione archeologica, ma secondo vere traiettorie di analogia, di corrispondenza, di somiglianza.<br />
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James Hillman ha di recente (Hillman, 1997) correttamente richiamato alla necessità di una figura di “mèntore” nell’educazione del giovane, di qualcuno capace cioè, in virtù del possesso di una affinata sensibilità immaginativa, di riconoscere il “dàimon”, la vocazione irriducibile, la “ciascunità” che si manifesta nella fisionomia (ma sarebbe meglio dire “fisiognomia” o forse addirittura “corpo flebotomico” come quello su cui operava la vecchia medicina astrologica, perché di questo si tratta), fisica e comportamentale di ogni giovane. Il quale ha bisogno di essere “percepito” da uno sguardo che sappia esplorarne, proprio nel dettaglio complicatissimo del suo manifestarsi, le attese e le possibilità, come se fosse una materia da cui l’artista sensibile dovesse trarre la forma latente e virtuale, quella sola che anela a emergere.<br />
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Eppure questa qualità mentoriale, che è certamente sana e giusta, rischia di rivelarsi un’altra possibile preda della capitalizzazione dei talenti che sta tanto a cuore del nostro sistema formativo imballato, se si trasforma in un altro kit da talent scout di buona volontà, e in particolare se non si accompagna con un veritiero Eros educativo. Infatti, e mi permetto di citare un mio pezzo di un paio d’anni fa, “nessuno è mèntore per professione, mèntore è uno stato dell’esistere, o forse dell’essere. Accade di trovarsi mèntori o di trovarsi adepti di mèntori, per breve tempo e per sorte, per un elezione che è tramata da sottili percorsi degli affetti e dei sensi, delle simpatie che attraggono gli elementi, specialmente quelle dei fluidi e delle materie, di una mancanza che si incastra con una effusione, o di due nostalgie che si illuminano attraverso la medesima sorgente”(Mottana, 2005, 217).<br />
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E’ infatti l’Eros in definitiva l’unico autentico agente di trasmutazione della relazione educativa da pratica di commercio informativo in quel contatto ustorio e sulfureo di cui si parlava, in una unione di presenze viventi (che sono i corpi, i cuori, le carni e i saperi o sapori profondi dei protagonisti di tale non semplice vicenda).<br />
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L’incontro antichissimo di erastes ed eromenos, così come veniva rappresentato dagli antichi nostri progenitori, ricco di componenti seduttive e anche carnali (Buffière, 1980), giace rimosso sotto i plurimi strati della cultura del controllo e della educastrazione. Ma vi giace comunque, e quanto più giace laggiù, obliato e irriflesso, tanto più, quando si manifesta, lo fa con le tinte cupe e violente dell’abuso e del vuoto di senso.<br />
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In verità ancora oggi l’eromenos aspetta il suo erastes, il pàis attende il suo mèntor, (e davvero questo è sensibile, evidente), come il solco terrestre attende il seminatore. Allo stesso modo il gesto educativo abortisce, non genera nulla se non accondiscendendo ad un’attesa magnetica e irriducibile, all’irradiamento ineludibile del suo stesso desiderio.<br />
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Eros fuggitivo<br />
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Ma come attingere tale Eros, come propiziarlo, come invocarne la venuta, visto che pur sempre di un’ispirazione numinosa si tratta?<br />
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Non certo caricandosi di buone intenzioni, né con i buoni sentimenti. Eros è qualcosa che impregna l’atmosfera e che si avverte come un profumo, conturbante e irriducibile, e che può essere evocato anzitutto costruendo lo spazio e il tempo adatto al suo manifestarsi. Occorre modellare lo spazio, rifarlo metaforicamente, circoscrivendolo con confini simbolici e al tempo stesso percepibili, distinguendo tempi, modi, gesti ( a ciascuno la ricerca di una simbolica capace di propiziare l’arrivo di Eros). <br />
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Si tratta di trovare, ma sono lì da sempre in verità, le procedure, le forme cerimoniali, la liturgia adatta a sprigionare il senso e i sensi dell’atto educativo nella sua integrità. Amministrando tutto ciò che è a nostra disposizione, dalla parole alla materia, dagli abiti agli oggetti, dai testi alle immagini ai suoni, affinché siano carichi di vita, ricchi di bellezza, pregni di significato intuibile, percepibile, ad irrigare e fecondare gli ambienti svuotati e disanimati in cui normalmente si svolge l’agire educativo. Evitando scrupolosamente tutto ciò che entropizza la relazione, come la maggior parte dei libri, dei linguaggi, dei sussidi didattici spenti e mortificatori, capaci solo di invertire le potenzialità di appassionamento e di realizzare alchimie abortite, come quelle che affliggono la gran parte delle proposte d’apprendimento della scuola (in cui ciò che si studia diventa, ipso facto, inservibile e come disinnescato nel suo potenziale inesauribile di arricchimento e fecondazione).<br />
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E’ questa la cura essenziale, che riguarda il luogo, il tempo, la geografia simbolica (geosofìa) della “terra promessa” dell’educazione. Ad essa naturalmente deve far riscontro lo spossessamento, il dissolvimento dagli infiniti stereotipi che chi insegna ed educa ha introiettato come veleno, dalle formazioni disciplinari che hanno specie negli ultimi anni imperversato nella formazione e nella sua “cultura”.<br />
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Spogliarsi dalle inibizioni, dalle categorizzazioni falsificatrici, dalle ingessature psicologistiche e maternalistiche, ma anche da quelle paternalistiche, dalla induzione alla patologizzazione e alla paranoia generalizzata, per lasciar germogliare il desiderio di educare e condividere questa esperienza unica e ipercomplessa, ma ance infinitamente appassionante che è. Occorre disinibirsi e osare, con molta più fantasìa e anche una certa propensione alla trasgressione.<br />
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L’esercizio dell’Eros, ma dire esercizio è scorretto, l’ispirazione di Eros, meglio, che si traduce in dono, generosità, effusione, sperpero di sé, richiede un autentico coraggio operativo e il contatto con la propria dimensione desiderante.<br />
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Amare Alcibiade<br />
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Esso può darsi solo, per esempio, se si ama veramente coloro con i quali si condivide questa esperienza. Non si può insegnare a chi non si ama (spesso oltretutto ciò che non si ama), a chi non sentiamo prossimo, a chi non è avvertito come partner interiore.<br />
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L’insegnante, ci ha insegnato la psicoanalisi, ripara le sue ferite relazionali, le sue frustrazioni, i suoi bisogni generativi, insegnando, ma soprattutto vi costella i suoi desideri e le sue presenze interne. Senza possedere ancora viva l’infanzia dentro di sé non si può insegnare ai bambini, senza l’adolescenza agli adolescenti, senza la minorazione vissuta e patita agli handicappati. E forse sarebbe più radicale e vero dire che non si può insegnare a chi è più giovane di noi senza avvertire in noi la presenza ispiratrice dei valori profondi e dei sentimenti irriducibili dell’infanzia, dell’adolescenza e senza sentire la potenza inscritta in uno sguardo “minore” e perfino “minorato” (sempre meglio in ogni caso che maggiorato, adulterato e adulteratore).<br />
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E qui si tratta però di un amore non superficiale, non dell’amor del prossimo che appiattisce tutto e tutti in un vago sentimento astratto di benevolenza e di insipida propensione alla relazione. Non basta assumere ogni mattina, insieme al caffè, un poco del catechismo della cura degli altri. Occorre più urgenza, riconoscere la bellezza, sentire i corpi, l’energia spirituale, l’anima, desiderare con ardore. <br />
Almeno uno dei nostri allievi, che sia il nostro Alcibiade, il nostro Agatone! Almeno per lui essere belli e indossare la bellezza, quella del nostro compito e delle materie che manipoliamo e che desideriamo siano veramente apprezzate, sottraendole anche all’infausta congiura che le ha spezzate, frantumate, ibernate e restituite in vesti stanche, neutralizzate, poco accattivanti,come nei “manuali”, nelle antologie, in tutte le forme di sistematizzazione e di formalizzazione schematistica che azzerano ogni vocazione, ogni principio di senso, ogni distinzione, forma, originalità ( e bellezza, naturalmente).<br />
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Pensando ad Alcibiade preparare con cura il nostro aspetto, desiderare di esserci, avere premura persino, diventare insofferenti agli ostacoli, ai ritardi, dimenticare la noia, la desolazione, la bruttezza che spesso ci circonda. Allora forse il cuore del vostro allievo, ma anche quello degli altri, si accenderà per simpatìa a contatto con il nostro fuoco, in un processo chimico suscitato dall’affinità, dalla corrispondenza, dal magnetismo sprigionato dall’Eros.<br />
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Alchimia cordis<br />
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Insegnare è fare dono infinito di sé e solo il desiderio forte e appassionato può commuovere i banchi inchiodati, le strutture frigide, gli ambienti claustrali delle nostre istituzioni, così come gli animi pallidi e sfiduciati di chi vi abita spesso un tempo di cui si attende mestamente solo la fine.<br />
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Insegnare è provare desiderio in carne e sangue, anima e corpo. Non illudiamoci di poter intraprendere l’atto d’iniziazione al sapere, ad ogni forma del sapere, che è sempre rinvio ad un unico grande sapere, il sapere che proviene dall’esperienza del mondo in tutti i suoi aspetti -e che dunque è in sé qualcosa di ben diverso dalle miserande concrezioni che assume nell’accademismo e nei suoi feticismi “libreschi”-, con il balsamo esangue di un po’ d’empatìa, con le regoline della buona comunicazione o con le pie intenzioni dei vari breviari sulla relazione efficace.<br />
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L’agente chimico, sulfureo e mercuriale insieme, che può innescare una vera trasformazione, dunque una relazione educativa non fasulla ma davvero iniziatica, giace nei tessuti profondi della nostra carne ed esso è il desiderio, la vecchia libido del dottor Freud , l’Eros. In assenza di questo, così come per lo stesso padre della psicoanalisi, subentra il ritiro, il principio mortifero e pestilenziale della noia, della rinuncia, della routine.<br />
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Per propiziare la sua emergenza occorre pazienza ma anche entusiasmo, individuazione dei linguaggi più adatti, specie quelli immaginativi, da sempre ripudiati dalle istituzioni educative ma che restano quelli capaci di mediare meglio l’irriducibilità imperscrutabile del mistero del sapere con la sfolgorante veste che esso può assumere nelle sue infinite forme, e quelli corporei, idonei per impegnare l’integrità dell’essere nella riscoperta e rinnovata espressione dei suoi elementi fondamentali.<br />
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L’Eros si accende nei luoghi in cui il fuoco “mitico” del significato ritrova i suoi veicoli, ed essi sono la bellezza, il rito, il mistero, l’immaginazione poetica, il canto, la vibrazione simpatetica del tutto che possono rendere di nuovo lo spazio dell’educazione e delle relazioni che si consumano al suo interno un microcosmo denso, sanguigno, palpitante, perfetta riproduzione analogica del suo motore primo, essenziale, inaggirabile, il muscolo di vita chiamato cuore, autentica materialità formativa in azione. <br />
Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8109023150103176649.post-56917267430454501032016-09-26T07:58:00.000-07:002016-09-26T07:58:16.937-07:00Contro il totalitarismo calcolante<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEitEvoDg26KmiaP23yOSgdGZir7_fTkjj-_OctiEWxSlN9h8CioC7I29kEVY9yzW2lmNmaplWONfvd_KezPpizbTs5ep4kXIwcyjRxNRIK1ZpCe19s0GFk2JRjfCY36JsLCwmSsTA_np3Q/s1600/666svastica.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEitEvoDg26KmiaP23yOSgdGZir7_fTkjj-_OctiEWxSlN9h8CioC7I29kEVY9yzW2lmNmaplWONfvd_KezPpizbTs5ep4kXIwcyjRxNRIK1ZpCe19s0GFk2JRjfCY36JsLCwmSsTA_np3Q/s640/666svastica.jpg" width="640" height="479" /></a></div><div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on"><br />
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Quante volte ancora dovremo sopportare il dominio di una ragione violenta, di un pensiero meschino, unilaterale, sordido in ogni piega della nostra vita? Anche laddove credevamo, a torto evidentemente, che si potesse creare una trincea, una dimora al riparo, da cui semmai, con gli strumenti della cultura, far affluire linfa, far fermentare idee, sviluppare domande che impedissero di cedere a quella ragione, per opporre un’altra mente, un altro cuore, un’altra vita?<br />
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Mi riferisco ai luoghi del sapere, della cultura, almeno quelli, sempre più rari, dove, non subendo il ricatto mercenario dei soldi e delle attrezzature, si difenda ciò che resta (ma non è poco) di una cultura umana, aperta alla differenza, al molteplice, in cerca, inesausta nell’affermare diritti come quelli di essere altro, di essere con altro, di proteggere il minore, il diverso, la debolezza ma anche una ragione critica proprio quando essa sembra soffrire una politica dell’annientamento.<br />
Ma no, oggi l’avanzata della ragione calcolante, non sembra disposta a risparmiare nulla. Complici quasi tutti, che sembrano non accorgersi neppure dell’attentato portato al nucleo intimo della loro opera, il calcolo sta espugnando anche le ultime roccaforti.<br />
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Penso agli istituti del sapere, della ricerca, alle università, almeno quelle che una volta si dicevano pubbliche e che oggi hanno statuti bastardi e profili dei loro custodi altrettanto imbastarditi ed equivoci. Con la scusa di una razionalizzazione delle risorse tutta da dimostrare, -non certo dalle esigenze del sapere-, chi ancora, sempre più timidamente, avanza la necessaria pretesa di un’autonomia, di un diritto di divergenza, di uno spazio e un tempo per poter ossigenare un pensiero che non diventi astenico e succube del miglior offerente, viene semplicemente ridicolizzato, sbeffeggiato, sarcasticamente giudicato vecchio, patetico e anacronistico.<br />
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La piega beffarda che assumono i volti dei nuovi tutori del pensiero calcolante non risparmia nessuno di quelli, ben pochi, che ancora provano a difendere il diritto di cercare, studiare e formare senza dover soggiacere al ricatto di qualcuno che finanzi, al suo controllo, al suo delirio di valutazione. Di una valutazione che sempre più invade il mondo del pesniero, della cultura e dell’arte pretendendo resoconti, obiettivi verificabili, tempi certi, risultati spendibili e di cui sia possibile misurare l’impatto entro ben determinate regole di utilità e guadagno.<br />
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Il tutto sotto una non più nemmeno dissimulata richiesta quantitativista, numerizzabile, misurabile, standardizzabile. In una cornice di linguaggi amministrativo-burocratici farciti di un inglese industriale sempre più insopportabile che rende davvero impossibile esprimersi a chi sia vissuto con l’idea che la cultura e il pensiero non possano che crescere e moltiplicarsi nella pluralità e nell’estensione poetica dei linguaggi, che possa svilupparsi fecondamente solo in assenza di vincoli così pressanti, così letteralistici e così calcolanti.<br />
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La persecuzione prende naturalmente di mira le creazioni che rimangono collegate all’humus del pensiero critico, della ricerca poetica, della riflessione autentica, che non può che svilupparsi nel tempo, attraverso un andirivieni immisurabile fatto anche di vuoti, di ripensamenti, di fratture, di vortici, di stagnazione persino.<br />
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Come si può immaginare filosofi della taglia di un Kierkegaard o di uno Schopenhauer sottoposti alla SUA, ai nuovi protocolli di valutazione che costringono a descrivere i propri obiettivi di ricerca e di formazione in un linguaggio oggettivo e quantificabile?<br />
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Ma non voglio neppure rifarmi a pensatori famosi, oggi in via di estinzione proprio a causa del totalitarismo monetarista e controllante che costringe tutti a omologare scritture, pensieri, progetti e a sgomitare sul teatrino miserabile dei finanziatori della ricerca come se fossero burattini dell’unica ragione che conti, quella che traduce il risultato di un’opera in profitto.<br />
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In questo teatro efficiente e soggiogato, noi che ci ostiniamo a non ridurci a impiegatucci di un’azienda per azioni che deve produrre risultati monetizzati, spendibili e sfruttabili nel breve periodo, siamo considerati cariatidi, macerie di un tempo che fu, disadattati, ritardati.<br />
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Ancor più delle nuove normative, dei protocolli, delle miserabili misure di riduzione del nostro sapzio vitale, ciò che più ferisce è il tono idiotizzato di chi sproloquia con arroganza, proprio tra i colleghi e i responsabili di tali luoghi che oserei quasi definire sacri, sull’unica certezza che le cose stanno così, che non ci sono alternative, che ci si deve adattare pena la scomparsa e che neppure si avvedono che sono loro i primi ad essere già scomparsi, annichiliti, resi vuoti a rendere per un progetto di mortificazione del sapere, della riflessione e della cultura che nessun impero, tranne forse quello sovietico e quello nazista, sono mai riusciti a realizzare così <br />
capillarmente.<br />
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Faccio dunque appello a tutti coloro che resistono a questo, a chi è irrimediabilmente vecchio (o forse troppo giovane!), a chi non accetta di svendere il suo percorso di ricerca, o di cerca, come per molti di noi è, dal momento che lo studio e l’esplorazione della cultura sono intessuti profondamente con la nostra vita, a tutti coloro che ancora credono che pensare nono sia un’azione standardizzabile, numerizzabile e calcolabile in termini falsamente oggettivi, a dimostrare attivamente, anzitutto con le loro opere e il loro esempio, contro questo stato delle cose, a protestare, scioperare, contrapporsi, sabotare e incitare a salvare la riserva indiana che nel totalitarismo del calcolo, nella dannazione del calcolo, ci è ancora parzialmente data e che, bene o male, si chiama ancora (ma per quanto?) cultura.<br />
Unknownnoreply@blogger.com3tag:blogger.com,1999:blog-8109023150103176649.post-67921465259129144122016-07-06T08:09:00.000-07:002016-07-06T08:09:38.822-07:00La violenza inelaborata<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgOsIyVoSqZbbcG3UbuplyGfGHtCOk0SjcGsPrmWO3MW6l9lS9p929O2HyJpchBUA2uogRd3iVMKsXrRq_cmlW-GSISwT7p2bsnIz1bfm484VDbHUO2RanEFF2ouOsraP8EGkER88AYgU0/s1600/violence.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgOsIyVoSqZbbcG3UbuplyGfGHtCOk0SjcGsPrmWO3MW6l9lS9p929O2HyJpchBUA2uogRd3iVMKsXrRq_cmlW-GSISwT7p2bsnIz1bfm484VDbHUO2RanEFF2ouOsraP8EGkER88AYgU0/s640/violence.jpg" width="640" height="408" /></a></div><div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on"><br />
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E’ difficile parlare di violenza. E’ una “parola-valigia” davvero consunta e spigolosa, piena di trappole semantiche e in fin dei conti poco analizzata.<br />
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Appare piuttosto comico dover partire al solito dalle definizioni però talora aiutano. Il dizionario dice due cose: 1) forza impetuosa e incontrollata; 2) azione volontaria, esercitata da un soggetto su un altro, in modo da determinarlo ad agire contro la sua volontà (qui poi ci sono una serie di sottocasi ma meno rilevanti).<br />
Non è male, come punto di partenza: abbiamo da una parte un impulso cieco e indeterminato (forza che si scatena senza che sia precisato come e su cosa) e dall’altra parte invece la descrizione, in generale, di un’ “azione volontaria” che obbliga altri o altro ad agire contro la sua volontà (è vero, si parla di soggetti ma proviamo solo a pensarlo come qualcosa diretto ad altro, per stare ancora un po’ lontani dalla necessaria e troppo ovviamente ribadita violenza intraumana).<br />
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Insomma da una parte una scarica di forza (presumibilmente indotta da quella cosa ugualmente complessa che noi chiamiamo rabbia e che di solito si appoggia su ‘un’altra cosetta variabile di soggetto in soggetto che invece possiamo definire aggressività). Dall’altra invece ci troviamo di fronte a un gesto consapevolmente diretto a forzare qualcosa o qualcuno a muoversi contro alla propria volontà e o aggiungerei forse, natura.<br />
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Insomma, se mi è consentito, e per ora io me lo consento, da una parte la furia cieca (la chiamerei violenza calda) e dall’altra la violenza deliberata (la chiamerei violenza fredda). Spero mi si perdonerà la grossolanità di questa distinzione ma credo possa avere un certo valore euristico, per dirla con le parole fini di chi fa la ricerca.<br />
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Ora, sarebbe lungo e forse fuori luogo elencare tutte le forme di violenza che ci circondano oltre a quelle di cui siamo di volta in volta vittime o agenti (diciamo con questo termine neutro per non cadere in gerghi criminogeni).<br />
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Prima sentenza dubitativa: siamo tutti vittime e attori di violenza, in un modo o nell’altro, violenza cieca (tipo prendere a scarpate una porta che non si apre dopo aver tentato di aprirla con metodi più consoni per un certo numero di volte a seconda dell’indole e del grado di tensione) e violenza ben vedente (tipo avvelenare una colonia di scarafaggi con un’insetticida truculento solo “perché ci fanno schifo”).<br />
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Capisco, sono esempi che non si confanno alle dolorose cronache del nostro mondo, e tuttavia credo sia importante tenerne conto.<br />
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Seconda sentenza dubitativa (lo dico solo per scrupolo professionale): la violenza è continua, onnipresente e inevitabile. Lo so che qualche rousseau o qualche harikrishna di buona volontà potrebbe mettere in dubbio ciò ma mi dispiace, io sto dalla parte di Leopardi (cfr. le numerose frequenze di questa riflessione cruciale nelle Operette, nello Zibaldone, nei Canti e così via).<br />
Ovunque c’è battaglia, nella natura, inutili gli esempi, tra le cose (perfino!), tra le cose e la natura e infine tra l’uomo la natura e le cose. Tra tutti i violenti, senza ombra di dubbio, uno dei più pervicaci e inguaribili è proprio l’uomo. Non che non abbia altre qualità ma…questa disposizione, nutrita di aggressività e di rabbia, è sempre presente in ognuno, con gradi diversi di espressione comportamentale e di selezione dei destinatari.<br />
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Gli antichi, pace all’anima loro, sempre che ce l’avessero, avevano coniato un buon modo e anche economico per distinguere gli umani, con i tipi di bile presenti in essi: quella gialla, fragorosa e feroce, quella rossa, sanguigna, quella nera, mortuaria e algida, quella bianca, flemmatica e lenta. Ma non si facevano illusioni: tutti questi tipi sapevano fare violenza ciascuno a modo proprio. La bile gialla, che poi si è fatta coincidere con la violenza tout court, era solo uno dei modi. Ci si guardi dalla violenza dei melanconici, velenosa e mortifera, come da quella dei flemmatici, fredda e ritardata, o dei sanguigni, corposa e talora manesca. A ciascuno il suo.<br />
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Che vuol dire? Vuol dire che una delle manifestazioni costitutive del nostro mondo (e probabilmente dell’intero universo è la forza cieca e incontrollata così come l’intenzione di fare del male, per dirla in breve), specialmente quando quel mondo procede a velocità supersonica incitando alla competizione e alle sfide.<br />
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La violenza, più o meno terribile, è un carattere permanente del nostro mondo, umano e non. Gli animali si aggrediscono continuamente, sono attanagliati dalla paura, alberi, cespugli e fiori combattono tra loro per prevalere e diffondersi, uomini, donne e bambini si colpiscono con l’ampia varietà di strumenti che la cultura e la natura hanno loro riservato, senza requie.<br />
La rosa degli esempi è talmente ricca e complessa che forse varrebbe la pena di compilarne una enciclopedia. Tuttavia, nell’economia forzata, per quanto possibile, di questo breve testo, mi toccherà scegliere qualche situazione sensibile.<br />
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Il guaio è che sono davvero tante, anche solo quelle sensibili: la città è violenta (come nel film del 70 di Sollima con Charles Bronson), troppo facile fare esempi, la guerra tra pedoni e automobilisti, tra automobilisti sigillati nelle loro auto condizionate e lavavetri, tra rumori, tra natura e cemento, tra aria sporca e polmoni, nostri e di chi vive di ossigeno intorno a noi ecc. ecc.. Non mi ci soffermo anche se meriterebbe. L’informazione è violenta (ci dissemina quotidianamente di dolore, di disgrazie, di truculenti casi di macelleria sicuramente più appetibili delle notizie normali (parentesi nella parentesi: non dirò una cosa nuova dicendo che noi, privati di violenza fisica, siamo poi affamati della visione della violenza fisica e anche iperfisica), contribuendo, insieme alle città, al lavoro, alle norme, ai doveri ecc. ecc., indubbiamente a far salire quella cosa che noi chiamiamo stress ma che credo andrebbe meglio tradotto con tensione e rabbia per le infinite frustrazioni e colpi cui noi tutti, consapevoli o meno, siamo sottoposti da tutte quelle cose insieme e anche molte altre).<br />
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Ma veniamo al sensibile sensibile, che più ci interessa, noi che ci occupiamo dell’allegra umanità e delle sue sorti progressive.<br />
Terza sentenza dubitativa: famiglia e coppia sono campi di battaglia sanguinosi.<br />
Tutti lo sappiamo bene perché in famiglia, prima o poi, ma di sicuro prima, tutti ci siamo passati. Naturalmente la maggior parte di noi si racconta che la famiglia è un nido, una cuccia calda, un luogo di protezione e di dialogo, di sollecitudine e di cura. Raccontiamocelo.<br />
Tuttavia di solito non è così. Il conflitto è il vero piatto forte di ogni congrega, specie quelle non elettive, e la famiglia lo è ben poco, fatto salvo un certo desiderio reciproco provato in epoca remota tra i due principali contraenti (la coppia genitoriale). Tutti gli altri vi sono capitati (i figli) non per scelta. E dunque se ne deducano le molte complesse conseguenze.<br />
<br />
Ma veniamo a bomba: questa benedetta coppia, gli uomini maltrattanti e le donne maltrattate.<br />
Per carità, vero, tutto vero, e antico almeno quanto la nostra civiltà (postmatriarcale), fatto salvo che nell’ultimo secolo (il XX soprattutto) le donne, invece che essere semplicemente usate e buttate, emarginate e soggiogate, hanno risollevato le loro sorti (dove più, dove meno, dove per nulla) e oggi spesso fronteggiano i loro partner da pari a pari, talora pure con qualche punto di vantaggio (che una volta, secondo il Baudrillard, comunque possedevano, secondo il codice della seduzione, detto en passant).<br />
<br />
Ora si dà il caso che, tra momenti di altissimo tripudio prossemico, di beatitudine affettiva e fisica, di condivisione e di protezione reciproca, si annidi il germe della guerra. Dolcissima e suggestivissima certamente ma talora anche spaventosa e omicida. Mi si intenda, da ambedue le parti. Non certo per sminuire l’orrore dell’omicidio in senso letterale, o delle botte in senso letterale, fatto che, nella maggior parte dei casi vede il maschio dalla parte dell’agente violento e la femmina dalla parte della vittima (termine sempre un po’ troppo carico di connotazioni ma ok) ma per ricordare che comunque di un teatro di guerra non unidirezionale si tratta.<br />
<br />
Appare certo semplicistico provare a dire, nel grande frastuono, che anche le donne posseggono strumenti micidiali che uccidono (non in senso letterale). Essere uccisi dentro, aboliti dal rifiuto e dal disprezzo, dall’intelligenza (in media le donne sono più intelligenti e loquaci dei loro compagni) di una donna, può essere catastrofico per una psicologia maschile un poco rozza. Ma non voglio certo cavarmela con questa minuscola pagliuzza nell’occhio dei giudici. Il fatto è che la coppia è un organismo a rischio, lo si dica una buona volta. E ahimé inemendabile. La cultura aiuta certo ma vi sono illustri intellettuali che sono arrivati a uccidere la propria moglie (e mi risparmio gli esempi). <br />
<br />
Il teatro della violenza è antico almeno quanto la nostra mitologia e il substrato di pulsioni inconsce che la ha fomentata. Vi ricordate Venere e Marte, che coppia eh! Se la facevano di soppiatto, all’oscuro del pur astuto Efesto, che però a un certo punto li mette tutti e due alla berlina nella famosa rete. Ma qui quello che interessa è la coppia: Venere e Marte. Venere vuole Marte, e viceversa. (Per una riflessione un po’ meno grezza di questa si veda Un amore terribile per la guerra di Hillman). Marte non vuole Estia , per dirne una, la dea del focolare. Vuole Venere, la bella e pericolosa. E lei vuole lui, bellicoso e tuttomuscoli. E forse lo vuole così anche perché nelle sue fantasie si aggira una pulsione masochistica, chissà. Ma anche questo è troppo semplice e banale (per quanto mi torni in mente una sentenza di Elisabetta Canalis che, in una trasmissione televisiva, a un’intervistatrice che la interrogava sui suoi gusti maschili, rispondeva: lo voglio con i muscoli, al cervello ci penso io. Meditare su ciò, meditare…).<br />
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Ma sia: i maschi hanno i muscoli, fatti in palestra, non certo con il lavoro o sui campi di battaglia, eufemizzazione che non trascurerei del tutto per una sua oggettiva rilevanza (e comunque anche molte donne hanno i muscoli da palestra) e ciononostante tanti sanno tenerli al loro posto. E per fortuna. Se no altro che emergenza sociale! Gli uomini sono ancora uomini, (benché talora demascolinizzati interiormente come vuole certa psicoanalisi), ed è così che li vogliono molte donne dall’indubbia e inopinabile femminilità. <br />
<br />
Forse, per evitare la violenza domestica, una delle tante forme che assume il conflitto nel campo di battaglia della coppia (tramato da gesti di minaccia, assenze, mutismi, invettive, grida, oggetti innocenti percossi e demoliti, pratiche legali più o meno virtuali ecc. ecc.) e tra le quali ahinoi anche quella fisica ha un suo luogo, forse in chi (ma non sempre e non necessariamente) vi è più abituato, occorrerebbe demascolinizzare definitivamente il maschio e defemminilizzare definitivamente la donna, assestandosi su identità intersessuali ormonalmente pacifiche (non si scomodi comunque la teoria del gender, quella è ben altra cosa). <br />
<br />
Ma insisto, conscio che mi sto facendo nemici e nemiche riga dopo riga, vuoi l’uomo palestrato e già abituato a risolvere almeno parte dei suoi conflitti con gli argomenti più diretti e incontrovertibili? Ok ma poi ci sta che, al colmo della tensione, quando le parole, già in lui non proprio abitudinariamente frequentate nelle loro più articolate sfumature, vengono meno e la pressione sanguigna improvvisamente sale vertiginosamente, qualcosa di implacabile e sinistramente materiale faccia la sua comparsa. Non è igienico portarsi un bisonte in casa.<br />
<br />
Questo non assolve certo i maschi violenti, figuriamoci. <br />
Ora però, ora, freniamo. Non mi interessano gli argomenti legali né terapeutici in senso personale, non credo ai casi individuali, né alla malattia, né alla malvagità.<br />
Ogni uomo e ogni donna sono violenti, a seconda delle condizioni personali, della propria storia, della società in cui vivono e anche a seconda delle loro doti genetiche. Non vi è dubbio poi che la cultura, il linguaggio, un certo impulso a reprimere il gesto violento e anche la politica abbiano concorso a ridurre le violenze più efferate. Ma disboscarle completamente credo sia impresa davvero dura. Senza contare, ripeto, che l’aggressività, quella, resta, e i motivi del conflitto pure, umani troppo umani.<br />
<br />
Ma permettetemi -sono un pedagogo in fin dei conti-, di concludere con un bagliore di speranza.<br />
Quarta sentenza dubitativa: nella nostra civiltà l’aggressività e la violenza restano fondamentalmente inelaborate dall’educazione e dagli stili di vita egemoni.<br />
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L’aggressività in primo luogo.<br />
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E’ l’aggressività, pulsione umana, normale, diffusa a tutte le latitudini, che però può, sottolineo, può trasformarsi in violenza ma non necessariamente. E’ soprattutto lei che andrebbe studiata e trattata con più attenzione.<br />
Sul piano educativo siamo in alto mare, la falla è talmente grossa che occorreranno decenni per porvi rimedio. Cominciando dai corpi, i corpi negletti e inchiodati dei bambini e dei giovani nelle istituzioni educative, specie dei giovani, si caricano di tensione, sono repressi, castrati e inoperosi. <br />
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Prima misura cruciale: nell’educazione mettere al centro il corpo, dargli la possibilità di esprimersi, scaricarsi, curarsi. Due orette di sport gli fanno il solletico e lo sport resta pur sempre una sublimazione. Ma vada la sublimazione, però anche con la musica, il teatro, l’arte , le performances, le arti circensi ecc. ecc.. Ma poi esiste una elaborazione diretta, non analogica: le arti marziali, che sono prevalentemente tecniche e esercizi di difesa, ma direttamente a contatto con l’aggressività, con la forza, con lo spirito guerriero, che in una forma o in un’altra alberga in tutti noi. Arti marziali, del combattimento, della lotta fisica, per ragazzi e ragazze, senza discriminazioni, perché si conoscano nel corpo e tra corpi, perché misurino la loro potenza, la loro energia, la loro sensualità, perché si sfoghino in un campo protetto e avvincente, scaricando al contempo il piacere del vincere e la frustrazione del perdere. <br />
<br />
Ma anche elaborazione educativa dell’aggressività mentale, nel linguaggio, nelle dispute, nel dissenso. Esistono tecniche e arti del conflitto, della negoziazione, della discussione, strategie dialettiche, della comunicazione dialogica ecc. C’è tutto un territorio di conoscenza, autentica cultura polemica, che almeno un poco aiuterebbe noi tutti a vivere la nostra aggressività come una risorsa e non come un demonio da tenere sotto chiave finché non esplode. A questa cultura occorre rivolgersi per elaborare le radici della violenza, o almeno per provarci. Specie in epoca di intolleranza della frustrazione.<br />
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Mi trattengo dal parlare del cosiddetto bullismo perché già ho detto la mia altrove, anche su questo blog. Certo però che un minimo di apprendimento dal codice corporale delle istituzioni totali forse ci aiuterebbe a capirne qualcosa in più… Ma mi fermo qui.<br />
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E infine, diciamocelo. Lo diciamo lo diciamo ma non facciamo nulla. Questa nostra civiltà è intrinsecamente violenta, patriarcale nel profondo, ben oltre ogni evanescenza dei padri. Una civiltà del rumore, della velocità, della competizione, della produzione, dell’azione, delle sfide, dell’eccellere ecc. ecc., fallocratica a 360 gradi, è come una guerra continua, tutti contro tutti. E lo è, letteralmente. Fonte di frustrazioni continue, di tensioni, di infinite e interminabili battaglie, cosa ci aspettiamo che produca, oltre alle nostre “magnifiche sorti”? Produce violenza, violenza soffocata, ignorante, invisibile talora ma assai sensibile. <br />
<br />
E talora anche violenza consapevole, intenzionale e forse anche giusta, quando difende dei diritti e delle possibilità represse. Ma questo aprirebbe un ulteriore complesso capitolo che per ora rimando.<br />
<br />
E dunque? E dunque lo sappiamo: finché non riusciremo a rallentare, a decongestionare, a concedere spazio al silenzio, alla riflessione, alla meditazione, al piacere, al riposo, al sonno, ai vuoti. Finche non impareremo a fare amicizia con ciò che non cresce, assolvendolo una buona volta, finché non ci libereremo da questo mostruoso stile di vita che è il nostro e che è il prodotto della forsennata voracità di questa civiltà del fare inutile che è la nostra, sarà ben difficile vedere sorgere l’alba di un mondo più soddisfatto, meno incazzato, meno assatanato di mete vane e grottesche.<br />
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Intendiamoci, non che un mondo più mite possa cancellare la violenza. No, figuriamoci, Marte non può essere cancellato, né le Amazzoni. E tuttavia, può renderli più saggi forse, capaci di combattere senza uccidere, di confliggere provando interesse e impegno per l’arte del conflitto, e alla fine forse persino provare il desiderio di sedersi attorno a un tavolo a dissipare la rabbia e lo stress nel vino e nel piacere. Forse, forse (quinta sentenza dubitativa).<br />
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Ma questa, come diceva il barista di Irma la dolce, è un’altra storia.<br />
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Unknownnoreply@blogger.com4tag:blogger.com,1999:blog-8109023150103176649.post-15731849778660542972016-02-07T07:29:00.000-08:002016-02-07T07:30:05.270-08:00"Voi dovete prendere una cosa, perché vi parli..."<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEicaHB824xn6OO9QVJ5yaXtJhIfUkAteBfxC0v2Grgzr9gpEMswhVOO-oHeU_l8zz9qti-CG8MnmDmVWJWJemnouIBd92VFkTJWvte8TEGlPd5zTSgRlweg8EG4vNAk3W0s2ZhwM5L6BiM/s1600/images.jpeg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEicaHB824xn6OO9QVJ5yaXtJhIfUkAteBfxC0v2Grgzr9gpEMswhVOO-oHeU_l8zz9qti-CG8MnmDmVWJWJemnouIBd92VFkTJWvte8TEGlPd5zTSgRlweg8EG4vNAk3W0s2ZhwM5L6BiM/s400/images.jpeg" /></a></div><div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on"><br />
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“Voi dovete prendere una cosa, perché vi parli, come l’unica cosa che esista, durante un certo tempo come l’unica apparizione, che dal vostro amore attivo ed esclusivo si trova collocata nel centro dell’universo e a cui in quel luogo incomparabile servono in quel giorno gli angeli”<br />
In un altro evo, in un altro eone, si potrebbe dire, scriveva così Rainer Maria Rilke a Baladine Klossowska.<br />
Angeli? Quelli, davanti all'imperativo alla saturazione, han fatto fagotto da tempo. Amore esclusivo? Merce di altri tempi. Apparizioni? Roba da psicofarmaci.<br />
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Fare troppo fare male, si potrebbe dire, proverbialmente.<br />
<br />
Che tempo inquieto, febbrile, tormentato! L’apollineo suggerimento di Rilke, solitario scultore del proprio tempo e della propria opera, da intendersi come autentico opus alchemico di distillazione poetica, oggi cade nel guazzabuglio, anzi nello <i>gnommero</i>, per dirla con Gadda, di un’umanità smarrita in un’operatività multipla e senza requie. Chissà che simpatico ritratto saprebbe farne lui, il Gran Lombardo, con il suo impareggiabile <i>humour</i>: <i>…gli umani, se ancor tali si posson dire, appaiono sempre più come la rana di Spallanzani, uno scalpiccio di riflessi elettrici e un inane avviticchiamento a microscopiche protesi di materia insalubre che disperdono i loro vani fosfeni nell’aere…”</i><br />
<br />
Se si è alle prese con una cosa sola, si avverte una specie di senso di colpa. Non far nulla poi, è solo una fantasia depressiva, un’allucinazione perversa. <br />
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Siamo tutti arruolati nell’esercito del superfare, del plurifare, al contempo guidare, comunicare al cellulare e programmare la spesa. Oppure leggere e ascoltare la musica, più magari cucinare. O anche, studiare, guardare la tv e chattare. E ognuno si faccia i propri esempi. Non proprio sempre in simultanea ma perlopiù con una capacità sempre più sofisticata di saltellare dall’una all’altra cosa con strabiliante rapidità.<br />
<br />
E’ fin troppo facile e banale osservare quanto ciò corroda l’intensità di qualsiasi esperienza, quanto prosciughi la sua profondità, quanto determini un impoverimento straordinario delle possibilità di esplorare, estendere e articolare la singolarità di ogni opera.<br />
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Non si è mai con sé stessi o con-uno soltanto, sempre in molti, in molte cose, frantumati e alienati in corridoi che si sommano e si intrecciano non lasciando scampo alla singolarità immensa dell’unico incontro.<br />
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Non più tempo per la semplice contemplazione, non più tempo per il vuoto e per la riflessione, se non all’interno di esercizi meditativi che appaiono però non un elemento della consuetudine vitale quanto un esercizio compensatorio e spesso tristemente programmato.<br />
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La nostra vita scorre in un continuum sempre più accelerato e stratificato in cui tutto si macina parallelamente, si disperde, non riesce quasi mai ad assumere il rilievo che ne renderebbe possibile un compimento organico.<br />
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Troppo ci viene richiesto ma troppo, come ha ben visto Byul Chung Han, ci richiediamo, in un’orgia di autosfruttamento che non credo abbia eguali nella storia e certamente nella preistoria. Siamo sempre al lavoro, ogni cosa al centro del nostro campo di interesse è lavoro, cioè sfruttamento, operare con efficienza, nulla è più affidato al flusso naturale del tempo ma ad un timing completamente domesticato e compresso.<br />
<br />
Dai bambini ai vecchi, che solo in virtù di qualche demenza possono placare l’ansia produttiva,<br />
occorre darsi da fare, sia per dovere, sia per diletto, ma comunque dentro ad una macchina che impone ritmo, quantità e rapidità. <br />
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Per chi vive nell’università, una notoria ex-isola di privilegio-per-pensare, ciò si traduce nel truce imperativo ad essere produttivi, come se il senso della ricerca si potesse tradurre in prodotti, in quantità o in masse critiche. Sterminando attraverso ciò appunto il pensiero.<br />
<br />
Il delirio è finalmente arrivato, non come un mostro a più teste che devasti il vivere sociale, ma come un saccheggio quotidiano e implacabile della nostra possibilità di fare esperienza, di poterla vivere pienamente, facendo di una cosa sola l’unica che, per un certo tempo, sia al centro della nostra attenzione, per tutto il tempo che la sua fisiologia, la sua statura, la sua anima, e il nostro smarrito amore, necessitino.<br />
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Ciò che ne deriva, è sotto gli occhi di noi tutti, se ogni tanto li alzassimo dal nostro frenetico fare, fare, fare.<br />
Unknownnoreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-8109023150103176649.post-36519933836575691332015-10-10T04:04:00.001-07:002015-10-10T04:05:19.978-07:00Rimuginii oziosi di un ribelle disadattato<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg-KGthxSPCmE_kMj9UZqUpZm_-LVC5IlV8y9Lb7ctyPV5a79ZvazEznswAJwiCxS4Sr67ez5gU_zFVDHTs8UXUGo7i7in4E188RGxd6MBhdqtIHkMyUP2UE_ZgyNix3YDSFd-PzQm32DA/s1600/4DPict.jpeg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg-KGthxSPCmE_kMj9UZqUpZm_-LVC5IlV8y9Lb7ctyPV5a79ZvazEznswAJwiCxS4Sr67ez5gU_zFVDHTs8UXUGo7i7in4E188RGxd6MBhdqtIHkMyUP2UE_ZgyNix3YDSFd-PzQm32DA/s400/4DPict.jpeg" /></a></div><div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on"><br />
</div><br />
A volte mi chiedo se non lavoro per il disadattamento. Può apparire una domanda futile ma io me la pongo. E, più o meno direttamente, me la pongono anche altri. Futile perché è difficile sottrarsi a quello che si è o forse anche perché è così difficile definire cosa sia disadattamento.<br />
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Veniamo ad verba, e alla parola sotto processo. Disadattato: sul mio vecchio Zanichelli neppure compare, surrogata dalla voce disadatto, che però non ci serve a nulla (se non a denotare la zona semantica). Vediamo: sull’Hoepli online troviamo, con una bella sigla PSIC.: “chi è caratterizzato da incapacità di affrontare in modo adeguato i problemi posti dall'ambiente in cui vive”. Il che, si presume, ne fa immediatamente un disgraziato, o simile. <br />
<br />
Si deve dire dunque che il disadattato adotta soluzioni ai problemi inadeguate e dunque fallimentari per il suo ambiente. Qui si aprirebbero molte interessanti questioni. Anzitutto quella che vede il disadattato potenzialmente adattato a un ambiente diverso dal suo. E’ un’ipotesi che forse proverò a seguire. Ma poi che si tratta di individuare soluzioni a problemi che non vengono dichiarati se non, un po’ genericamente, come problemi postigli dall’ambiente. Tutti?<br />
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Certo così il disadattato sembra proprio nei guai, perché se non è in grado, perlomeno in maniera adeguata, di risolvere alcun problema che gli pone l’ambiente, allora vuol dire che è nel disastro. Per esempio dovremmo presumere che non sappia alimentarsi, proteggersi dagli elementi o persino reclamare per sé uno spazio di vivibilità fisica, almeno adeguatamente.<br />
Il disadattato precipiterebbe così nella categoria dell’inabile (ben più radicale di disabile), o del derelitto, almeno sul piano materiale.<br />
<br />
In verità io penso ad altro disadattamento, quello che mi affligge personalmente del resto, che si voglia chiamarlo diversamente o più eufemisticamente. Diciamo per brevità che penso a quel tipo di disadattamento o inadattabilità o controadattamento che è appunto l’atteggiamento ribelle, insofferente della norma, dello statu quo. In maniera strutturale. E che proprio in questo senso può anche essere compreso come una sorta di malattia, di deformazione. Questa irresistibile coazione a differenziarsi, a immaginare la vita altrove e mai qui, insomma.<br />
<br />
Ecco, la mia attività, i miei libri, il mio “impegno” non sono forse orientati a stimolare quella parte che in ognuno di noi si smarca dalla norma e ci conduce a divenire contro? E in ciò peraltro a diventare inevitabilmente disadattati, infelici, irrequieti, arrabbiati e talora persino disperati, come spesso mi sento io ultimamente (checché si dica e sia stato detto sulla vitalità della ribellione)?<br />
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Diceva, come è noto, Thoreau, c’è chi vive “vite di quieta disperazione”. Ahi, davvero? Disperazione? Io vedo persone intorno a me che si accomodano alle regole del gioco e vivono vite tutt’altro che disperate, non so quanto quiete ma certamente convenienti e anche remuneranti dacché si mostrano compiacenti. Chi acconsente allo statu quo è molto più probabile che si danni meno e che addirittura ottenga molto. Le parabole di coloro che hanno saputo rinunciare ai loro spigoli per essere meglio accolti, in ogni campo del vivere sociale, ci raccontano questo. Vivi e lascia vivere. Accetta il codice dominante e otterrai infinite prebende. <br />
<br />
Sempre questo codice ha regolato le vite verso la soddisfazione. Può anche darsi che passino poi alla storia gli altri, i sofferenti, gli incompresi, gli inattuali. Ma guardiamoli, osserviamo quanta disperazione, quanto sacrificio, quanta amarezza gli sono costati in vita!<br />
Io amo Nietzsche, amo Van Gogh, amo Artaud, ma la loro divergenza, la loro insofferenza, la loro impossibilità ad adattarsi non gli sono costati terribilmente cari? Certo, hanno lasciato opere incomparabili (per noi disadattati) ma per loro?<br />
<br />
Giustamente si potrà dire che non potevano essere diversamente. Che la loro biografia incarna una vocazione, una necessità, un carattere appunto, se non una biologia, alla quale non potevano sfuggire. E sia. Ma ci è dato il lusso di non essere consapevoli della deriva che il propagare simili esempi porta con sé?<br />
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Non lo so più. Sono domande futili, perché appunto non si può che essere quello che si è. Ma in fin dei conti ciascuno di noi è davvero ciò che è o è piuttosto quel qualcosa che in lui si dibatte per affermare la sua sporgenza proprio oltre quella norma che lo annegherebbe sì nell’anonimato ma forse gli garantirebbe la quiete e qualche soddisfazione?<br />
<br />
Essere qui e ora. Un dilemma, dal momento che non lo sappiamo mai dove siamo veramente. Io sono davvero un ribelle o è l’unica maschera che so indossare? Se fosse così, e dunque potessi pensare che chi seguirà le mie idee sarà anche lui uno con una sola maschera, sarebbe consolante. Non sarà mio demerito. Gli sarebbe comunque accaduto, prima o poi. Una lezione vale un’altra per chi è vocato alla deviazione e all’infelicità.<br />
<br />
Ok, sì, tutto questo sa di sproloquio e di autoflagellazione. Ma di questi tempi va così. Oppure è sempre andato così. Il dubbio è che un infelice (io) cerchi di contagiare anche chi non lo è con la sua infelicità e la sua impossibilità a essere felice.<br />
<br />
Ma forse, per ribadire il concetto sopra espresso, sarà comunque un destinato all’infelicità, ad allearsi con lui. Sempre che adattamento e felicità, come dicono gli psicologi, siano una sorta di endiade come ahimé appare sempre più chiaramente anche a un irriducibile ribelle infelice (ma forse sarebbe giusto invertire e dire infelice e ribelle) come me.<br />
<br />
Consola sapere (si apprezzi l’ironìa) che son ben pochi quelli che ascoltano i miei pensieri. Io stesso uno dei pochi che ha ascoltato i pensieri di altri ribelli infelici. Pubblico scarso, danno limitato.<br />
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Unknownnoreply@blogger.com4tag:blogger.com,1999:blog-8109023150103176649.post-51515172809408290912015-09-19T04:21:00.000-07:002015-09-19T04:21:03.572-07:00Per un'esperienza autentica<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhrHQSvK35FWW9PWP12TM3ck2GQJ35U8MwLCqFdIbRZffk54herFb5_cPwZHGpjzrDBeDyKV_8v7ATi0pQiWP_GQGEIltSced9KK-bp73flJ_QR8DH85i5Fv8SH71G5HP_ASRXcKvocPoA/s1600/005-chaim-soutine-theredlist.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhrHQSvK35FWW9PWP12TM3ck2GQJ35U8MwLCqFdIbRZffk54herFb5_cPwZHGpjzrDBeDyKV_8v7ATi0pQiWP_GQGEIltSced9KK-bp73flJ_QR8DH85i5Fv8SH71G5HP_ASRXcKvocPoA/s640/005-chaim-soutine-theredlist.jpg" /></a></div><div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on"><br />
</div><br />
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Vorrei parlare di un oggetto troppo evidente e forse per questo davvero misterioso. Un oggetto che mi è caro, che nomino, talora forse non sempre con il giusto grado di consapevolezza, o di approfondimento.<br />
Non voglio tirare qui in ballo la lunga lista di tutti quelli che hanno parlato, specie in filosofia, di questo oggetto, l’esperienza. Né men che meno in educazione. E’ fin troppo ovvio che essi parlano in me, come tanti altri e tanto altro. <br />
Questo oggetto mi è caro, l’esperienza, specie se autentica, e già so che aggiungendo questo attributo molti storceranno il naso, in un certo senso perfino io. Ma, proprio con tutto il suo alone ambiguo, il suo odore metafisico e altro, non ne trovo uno migliore. L’esperienza autentica, comunque, fa la differenza. In fondo in tutto.<br />
Che cosa sia un’esperienza, è già difficile dirlo. Ma proverò a far tacere tutte le obiezioni che affiorano ogni volta si provi ad affrontare un’espressione come questa. Di certo è qualcosa che ci riguarda.<br />
<br />
Esperienza. Così difficile, così sfuggente. Si è quasi sempre troppo distanti, o distratti, o insensibili, per esperire davvero. Le migliori esperienze ci accadono, inattese : forse proprio per questo, perché non avevamo sondato il terreno, non ci eravamo preparati, non avevamo indossato l’abito adatto, l’espressione adatta, e innescato la paura sottile, o invece spessa, che quell’esperienza categorizzata induce, forse proprio per questo. L’esperienza autentica ci assorbe, ci possiede. E si incarna profondamente in noi.<br />
<br />
Oggi, nel tempo in cui la paranoia spadroneggia in ogni dove, e dove occorre essere preparati, istruiti, preventivi, è difficile fare esperienza. Almeno un’esperienza autentica appunto, integra, veemente.<br />
Una esperienza di questo genere, che porta in sé i connotati di quella cosa altresì logora che chiamiamo avventura, è qualcosa che ci coinvolge pienamente. Il più pienamente possibile. Con tutti i sensi anzitutto, al completo. Partecipi e presenti, sensibili e attenti, appassionati e ricettivi. Quanto è difficile, se si pensa a come, nelle nostre vite tutto diventi, giorno dopo giorno, prevedibile, routinario. Come è difficile essere svegli, oppure in uno stato di estatica disponibilità, che non equivale alla presenza della coscienza ma a quella plenaria del corpo, acuta, talora insostenibile, come nel furore di una folla, o nel contatto smisurato di un amplesso.<br />
Ovvio, noi facciamo continuamente esperienza, la nostra esperienza cresce, e forse, man mano che cresce si atrofizza anche, necessariamente, terapeuticamente. Perché l’esperienza, quella autentica, è faticosa, è perfino crudele, a volte.<br />
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Un’esperienza autentica però, tale che pervada tutto il nostro organismo, che lo scuota dalle fondamenta, che solleciti e tenda al massimo i nostri nervi, la carne, i sensi, l’attenzione, la curiosità, che lo contorca e rovesci come un quadro di Soutine, resta un oggetto nevralgico per percepire che si sta vivendo e ancor più che si sta incorporando ciò che si vive, lo si sta trasformando nella propria intima fisiologia.<br />
Essere al centro di ciò che accade, essere al completo, essere pienamente. Tutto questo è esperienza autentica, l’unica esperienza che effettivamente lasci una traccia, talora una ferita, talora un segno potente e irrevocabile, talora un ancoraggio inconscio, pronto a riaffiorare involontariamente, magari molto più tardi, per una coincidenza.<br />
Un’esperienza intensa e densa, avrei detto, e direi, forse, pur consapevole che questo tradirebbe una petizione vitalista che tanto sconforta le buone ragioni di una vita misurata e lunga, e vivibile.<br />
Eppure io credo che questo oggetto misterioso e sempre più sconosciuto, dacché tutto congiura a attutirlo, a evacuarlo, a proteggerci dall’impatto con esso – e che tanto più sollecita chi è ancora giovane ma non solo a rincorrerlo nei modi più estremi e talora inappropriati, posto poi che vi sia un’appropriatezza possibile per l’evento di un’esperienza simile- sia il solo in virtù del quale noi possiamo dire di vivere, di vivere veramente. Ed ecco riapparire l’ombra della metafisica. Nel veramente. Ma rinuncio a problematizzarlo. Lo faccia qualcun altro.<br />
<br />
Quando si parla di esperienza in educazione – e quanto lo si fa! Quanto la retorica educativa risuona dell’appello all’esperienza, oggi eufemizzato talvolta, erratamente, mescolato con la retorica del fare, o delle pratiche- non si dovrebbe perdere di vista questa destinazione regolativa. Regolativa poiché non si può mai dire quale sia il livello (quantitativo e qualitativo), cui si può spingere il vissuto di un’esperienza. L’esperienza è a molti livelli.<br />
Ma noi dobbiamo, credo, sapere, che solo disponendo il campo dell’evento (educativo) all’irruzione dell’esperienza, possiamo pensare di rendere davvero un dono a chi, volente o nolente, si trova rimesso, tempo e vita, nelle nostre mani inesperte.<br />
Naturalmente l’organizzazione educativa, nelle sue molteplici forme, è quasi sempre insofferente dell’esperienza, e specialmente di quella autentica. Perché essa è di fatto imprevedibile, e selvatica, e pericolosa. Non tanto perché ci si possa fare fisicamente male, il che talora è possibile, ma perché richiede a chi se ne occupa, di affidarsi a un flusso, a qualcosa che lo oltrepassa e che genera effetti che richiedono una continua revisione delle proprie aspettative. Al punto che forse occorre effettuare un’opera preventiva, essa sì, di bonifica di ogni aspettativa. Sapendo che sarà l’esperienza, o l’evento, a generarne in proprio, singolarmente e pluralmente al contempo, ben oltre ogni pretesa, ridicola, di programmazione.<br />
<br />
Ora si tratta qui di riflettere su una questione cruciale. E cioè quali sono le condizioni di possibilità perché un’esperienza autentica si dia?<br />
Chiaro che un’esperienza si dà a patto che si lasci avvenire, anzitutto. E però un’esperienza non è solo un accadere nel vuoto, occorre che vi sia un campo. Occorre determinare un campo, che diviene il limite necessario affinché l’esperienza si affacci, prenda forma, evolva.<br />
Dunque la questione cruciale è quella del campo. Si badi bene, non solo un campo operativo, uno spazio, un tempo, un terreno. Ma anche un campo psicologico, emotivo, simbolico.<br />
Occorre coltivare campi di esperienza. Che sono riserve di tempo e spazio liberate da ogni scoria di prevenzione, di pregiudizio, di aspettativa troppo determinati. Il campo è un campo di possibili che si attivano e rendono possibile l’esperienza se il maggior numero possibile delle presupposizioni intorno ad essa sono state elaborate e dissipate.<br />
Se questo campo è abitabile, desiderabile e esplorabile. Se in esso non prende stanza il timore che ciò che accade sia sottoponibile a un giudizio ma sia semmai aperto alla sorpresa dello scoprirne la trama in divenire. Il campo, dove la paura agisce da esclusiva forma istintuale di attenzione, non deve mai essere affidato alle devastanti incursioni della sorveglianza inquisitiva, della valutazione, del giudizio. Tutto questo vanificherebbe (e vanifica, quanto lo fa, nei territori dell’educazione!) la possibilità dell’esperienza.<br />
La paura, beninteso, è un ingrediente dell’esperienza, una paura talora selvaggia, ma non innescata dallo sguardo interessato di un soggetto supposto sapere pronto a intervenire in essa per rettificarla e normarla.<br />
<br />
L’oggetto misterioso è qui o forse là, perduto nel tempo, ma ancora potenzialmente sotto gli occhi di tutti. Nella carne di tutti eppure sempre più sepolto e lontano, nostalgico e impossibile. Si impara crescendo che l’esperienza autentica è quella che va progressivamente abbandonata e anestetizzata per sostituirla con le confortanti ripetizioni di un retto agire in conformità delle aspettative sociali. Ma questo non deve ingannarci.<br />
Ci sarà vita (educazione) autentica solo là dove resisterà esperienza autentica, passione feroce, gusto dell’immenso e senza condizioni.<br />
Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8109023150103176649.post-62390961811520370372015-06-08T08:01:00.002-07:002015-06-08T08:01:52.438-07:00Digital nightmare?<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh9J5kCrBLs8Wp4gzTh-8DRywpYDDTrjcLDDPsXPojEm7-vSnG1gSjfSZCIwVTaYbAt8ELD5Hwahct2dFEaaY4TpxpIyG4BWtgFmeO2ie_PVbQshd6kqs8lGz4Xck1qtKqTjP1wd1JbP2M/s1600/abstract_visions_v_3__fear__by_HoLS_aka_AnaesthetiK.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh9J5kCrBLs8Wp4gzTh-8DRywpYDDTrjcLDDPsXPojEm7-vSnG1gSjfSZCIwVTaYbAt8ELD5Hwahct2dFEaaY4TpxpIyG4BWtgFmeO2ie_PVbQshd6kqs8lGz4Xck1qtKqTjP1wd1JbP2M/s640/abstract_visions_v_3__fear__by_HoLS_aka_AnaesthetiK.jpg" /></a></div><div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on"><br />
</div><br />
Le riflessioni che circolano sulla cultura indotta dall’uso di internet e cellulari sono spesso troppo severe a mio giudizio. Non ho ancora letto il testo di Han ma da quello che ho capito stronca un mondo appiattito e reso acefalo da questo tipo di utilizzo. <br />
<br />
Ecco la sintesi delle tesi del filosofo coreano riassunte da uno dei nostri quotidiani nazionali : “La folla che tante conquiste ha ottenuto in passato oggi è soltanto uno sterile sciame. Il mondo virtuale ha perso ogni distanza e quindi rispetto. L'anonimato e la trasparenza sul web sono un male assoluto. La cultura della "condivisione" è la commercializzazione radicale della nostra vita. Internet non unisce, ma divide. Genera un venefico narcisismo digitale. La sua estrema personalizzazione restringe, paradossalmente, i nostri orizzonti. E divora le fondamenta stesse della democrazia rappresentativa”.<br />
<br />
Sinceramente non condivido questi toni. E ancora una volta appare lo spettro di una fondamentale incomprensione di ciò che è veramente determinante, dal punto di vista delle trasformazioni dei modi di vivere, e ciò che invece è solo ausiliario o periferico. O, per dirla con il Nietzsche del Crepuscolo degli idoli, si continua a scambiare effetti con cause.<br />
<br />
Il cellulare e internet non uccidono la cultura né l’esperienza ma semmai decostruiscono una certa immagine e una certa costituzione e rappresentazione della cultura e dell’esperienza. La rappresentazione verticale, gerarchica, normativa, in particolare. Quella scolastica e che ha una lunga tradizione, dalle discipline del trivio e del quadrivio alla moderna enciclopedizzazione. Così come, per l’esperienza, contribuiscono a demolire definitivamente quella già abbattuta dagli <i>choc</i> della vita contemporanea tra <i>Erlebnis</i> e <i>Ehrfarung</i> densamente commentata da Benjamin a proposito della Parigi del XIX secolo (è cosa vecchiotta direi…).<br />
<br />
Effettivamente tutto questo viene “terminato” dalla rete e dalle nuove forme di accesso alle informazioni. Non mi sto a dilungare: sulle modalità disseminative, rizomatiche e effettivamente degerarchizzate di questo tipo di accessi si è già detto e scritto molto.<br />
Mi interessa di più il versante psicomorale di queste riflessioni che sanno sempre, in maniera un po’ irritante, di <i>o tempora o mores</i>.<br />
<br />
Credo si debba essere meno sommari. A parte l’espressione di “folla”, che non so quanto sia sua ma che a me non evoca nulla di particolarmente seducente né democratico, “l’anonimato e la trasparenza come male assoluto” mi pare espressione un po’ eccessiva, savonaroliana, apocalittica.<br />
<br />
Se Han guardasse bene la rete (cosa che probabilmente evita visto che se ne sta sempre molto appartato), vedrebbe che il panorama è molto sfaccettato, che accanto all’esercizio dell’autodenudamento, così più pornografico in certa tv spazzatura peraltro, ci sono molte formule per apparire ( e per apparire obliquamente, mascherati, differenti e pluricefali piuttosto che acefali). <br />
<br />
In realtà la rete, che poi è sempre un doppio della realtà, è zeppa di zone oscure, di labirinti, di sacche di oscurità. Il selfie è un gioco in voga in questi anni tra i ragazzini ma la rete non è fatta solo dai ragazzini. Come ogni moda tramonterà e si avvicenderà con altre. L’autocelebrazione visiva certo parla della solitudine ma anche del “bisogno di essere visti” in una società che non presta più attenzione a nessuno, non tanto per via della tecnologia ma per via dei suoi ritmi, delle sue necessità produttive, della sua macchina economica.<br />
<br />
Effettivamente oggi l’esperienza, in breve, ma anche l’esperienza del sapere, sta mutando molto velocemente. Mentre condivido l’allarme sulla saturazione e sugli effetti di captazione e impoverimento dell’attenzione che l’eccesso di connessioni produce (secondo le note analisi “psicopolitiche” di Stiegler), sono più restio a vedere necessariamente nell’avvento di queste tecnologie un progressivo azzeramento delle facoltà critiche, un appiattimento verso il basso ecc.<br />
<br />
Intanto occorre con forza sottolineare ancora una volta, senza nessuna enfasi progressista, diomeneguardi, che comunque oggi circola molta più informazione e per molte più persone. Che questa informazione è più articolata, ha infinite forme comunicative (e non quelle ridottissime e ipercodificate del tempo pre-rete) e che dunque, piaccia o non piaccia, l’accesso è migliorato, aumentato e complessificato. Oggi la scuola per esempio deve confrontarsi con ragazzi che hanno modo di verificare quasi in tempo reale ciò che gli viene detto dai loro insegnanti, il che mi pare, sotto il profilo democratico, un fatto interessante. <br />
<br />
Quello che si avverte è comunque che vi sia, specie nelle giovani generazioni più digitali, più conoscenza, più competenza nel ricercare, più differenza. A formarli non sono più solo le istituzioni ma tutto questo mondo di saperi poco normato ma anche straordinariamente ricco.<br />
<br />
Si attribuisca la fine dell’umano, più che ai cellulari, -che semmai incrementano la disattenzione sociale hic et nunc, la distrazione, la debolezza della presenza fisica nel mondo, la dissipazione sensoriale-, a un sistema che mira, proprio nelle sue strutture formative essenziali (scuole, uffici, centri commerciali, stage, training ecc.) a depotenziare gli strumenti critici (gli “strumenti umani”), a forsennare con l’incitazione alla competizione quantitativa e performativa, a tartassare con le prove, i test e gli invalsi, a indurre alla vendita esasperata di sé ancor più che all’acquisto.<br />
<br />
L’isolamento dell’uomo contemporaneo non è prodotto da internet che, anzi, come dice la parola stessa rete, appare una sorta di compensazione, di farmaco però soltanto generico purtroppo. Che non produce di sicuro condivisione autentica (salvo eccezioni però: molti gruppi solidali nascono anche in rete) ma fornisce almeno un effetto placebo alla totale parcellizzazione e transitorietà dei rapporti. L’isolamento viene da un processo molto determinato e strutturale di frantumazione del corpo sociale perseguito con le trasformazioni del mercato del lavoro, delle professioni, delle politiche di formazione e, certo, anche delle politiche del sapere. <br />
<br />
E’ verissimo, come lo stesso Han ha sostenuto nel suo libro migliore, <i>La società della stanchezza</i>, che oggi le persone sono spinte all’autosfruttamento, ma questo non è l’effetto delle tecnologie ma di politiche molto precise che spingono al tutto contro tutti e all’azzeramento di ogni formula di agire sociale orientata autenticamente all’intesa e alla mutualità.<br />
<br />
A me pare, senza alcuna velleità di celebrazione naturalmente, poiché mi rendo conto di quanto le tecnologie siano anche avvilenti in molti loro aspetti, che tuttavia non si possa addebitare loro l’impoverimento culturale del mondo. Al contrario direi seppure in forme davvero imprevedibili. E’ chiaro che occorre però riformulare drasticamente l’idea un po’ aristocratica e, ahimé, improponibile, di cultura che un certo modello di sapere intellettuale ci ha tramandato e non si rassegna (comprensibilmente) ad abbandonare. <br />
<br />
Inviterei però a guardare con più accuratezza le potenzialità della rete e dei cellulari, ad avvertire la pulsazione di un mondo che proprio a partire dalle interconnessioni può a volte unirsi improvvisamente e produrre “ipergesti” (Citton) fenomenali. <br />
<br />
Non credo affatto che le tecnologie siano salvifiche e sono convinto che vadano decostruite attentamente per vedere dove si annida la manipolazione o la strumentalizzazione a fini di asservimento commerciale, di sorveglianza ecc.. Non sono però neanche convinto che siano esse il male assoluto. Temo che questa lettura finisca con il farci perdere il bersaglio autentico. E’ come quando si accusa la famiglia dei problemi dei ragazzi. Si vede davvero il dito e non la luna a mio avviso. <br />
<br />
Occorre un’attenzione raddoppiata per i fenomeni sottili, per le differenze. Il mondo è più complicato di un tempo ma non necessariamente peggiore, anche se l’esperienza culturale di un Rilke, di un Benjamin e di altri privilegiati dal talento e dalla sensibilità straordinari forse non saranno più possibili.<br />
Unknownnoreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-8109023150103176649.post-27428724141868721432015-06-04T02:39:00.000-07:002015-06-04T02:39:35.400-07:00Il discorso dello psicoanalista capitalista<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh0-smrICX4RK9Eynjoe3Rc9X8vn6ywRSpRUIONNjpu2uFFCB_s7EUWYzaH0LPvFhLT5SxE_nh_aAyxe7_C18uQHFsBAwnFhDsTn5tU74rbcSrhEMpA1JLG-MTwDrvEQHvzuzvMqIrPpmE/s1600/images.jpeg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh0-smrICX4RK9Eynjoe3Rc9X8vn6ywRSpRUIONNjpu2uFFCB_s7EUWYzaH0LPvFhLT5SxE_nh_aAyxe7_C18uQHFsBAwnFhDsTn5tU74rbcSrhEMpA1JLG-MTwDrvEQHvzuzvMqIrPpmE/s640/images.jpeg" /></a></div><div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on"><br />
</div><br />
Mai come in quest’epoca gli psicoanalisti dettano legge. Il povero Lacan si rigirerebbe nella tomba, lui che suggeriva di “fare il morto”, di non prescrivere, di essere la casella vuota che consente al paziente di “fare il giro” senza mai incontrare un soggetto pieno. <br />
<br />
Lo psicoanalista francese esortava gli analisti a non ergersi a maestri di verità (non so con quanta buona coscienza ma insomma). <br />
<br />
E invece.<br />
<br />
La salmodia delle ricette psicoanalitiche è diventata moneta comune del neo-moralismo contemporaneo.<br />
I principali assiomi del “discorso dello psicoanalista” (non quello di Lacan evidentemente ma il suo succedaneo d’oggidì sub specie pedagogica), risultano essere:<br />
<br />
maleficazione dell’adolescenza e giovinezza con particolare riferimento alle sue derive narcisiche, rintracciate però ubiquitariamente;<br />
<br />
colpevolizzazione del godimento, che da secoli non raggiungeva questo grado di demonizzazione; <br />
<br />
individuazione nella latitanza della figura paterna della maggior parte dei disagi del tempo (sub specie dissolvendi, evaporandi et sublimandi); <br />
<br />
perorazione della frustrazione e di una “riformata” normatività; <br />
<br />
sostanziale colpevolizzazione della “famiglia affettiva” ecc. ecc.<br />
<br />
In realtà, sintetizzando le forme del suo discorso, esso non appare molto differente da quello delle pedagogie morali dei secoli passati, in particolare di ispirazione religiosa. In fin dei conti essa ci ripropone, con lievi eccezioni, il classico bagaglio dei vari catechismi, la sacralità rinnovata dei vincoli parentali, il valore incontestabile del lavoro, degli obblighi di studio e così via. <br />
<br />
Non c’è che dire, la psicoanalisi, diciamo certa psicoanalisi (poiché si deve pure mettere in salvo coloro che dal suo interno si battono contro questa impressionante deriva), che sembrava ai suoi esordi aliena dal moralismo, addirittura scandalosa, di fondazione laica e positiva, è la nuova “religione del nostro tempo”, per dirla con Pasolini.<br />
<br />
Ad essa si abbeverano i nuovi sacerdoti della retta via, che non necessariamente lo sono per mestiere ma semplicemente ormai assolvono questo compito -essendo in via di estinzione i suoi storici artefici-, dai pulpiti più aggiornati del nostro talk-show planetario. Gli altari dei giornali, i sagrati di certe trasmissioni televisive dove possono predicare senza timore di essere troppo contraddetti (da Fazio, dalla De Gregorio, dalla Gruber), i cenacoli delle loro associazioni di afflitti, le sacrestie di certe università servili, i chiostri di certi festival del nulla in continua espansione.<br />
<br />
Molti anni fa ho creduto nella psicoanalisi, mi sono avvicinato ad essa proprio perché vi immaginavo un sapere coraggioso, capace di penetrare gli strati più oscuri della nostra esperienza senza il timore di nulla, amavo il suo linguaggio sessuato, la sua componente crudele, il suo gusto di sconvolgere i pregiudizi. <br />
<br />
Ma il tempo è passato, oggi i suoi esponenti più in vista sermoneggiano accanto ai tutori dell’ordine, fanno buona mostra del loro riduzionismo guardandosi bene dal diagnosticare la genesi dei problemi dove davvero si trova (nei meccanismi del potere economico che giustifica loro stessi e i loro discorsi), si pavoneggiano dell’aver ridotto un sapere straordinario e rivoluzionario, per molti versi, in una catechesi per tutte le stagioni.<br />
<br />
Ma si sa, il discorso dell’analista capitalista chiede risultati immediati, rapidi, il godimento del successo tutto e subito, la spendibilità e la visibilità massima. Ça va sans dire.<br />
<br />
Da molto tempo, si capirà, cerco altrove l’alimento per pensare e vivere.<br />
Unknownnoreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-8109023150103176649.post-86593078554232805222015-06-03T10:09:00.000-07:002015-06-03T10:31:44.111-07:00Giovane e bella di François Ozon : il potere della bellezza<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhqPyu792LkcSkPl3eLvOivPpsuq6faRXfu5We4COD87EAaNwO_8X9w_N2b3SrwU8Xwp1P0t-f4bP6Cv_SLPK6dtm68B_Wu1-_eJKNmiUtmYjbeePNXhUxS_EO6V0f7Zk66WS5UNUFEGN4/s1600/vachs.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhqPyu792LkcSkPl3eLvOivPpsuq6faRXfu5We4COD87EAaNwO_8X9w_N2b3SrwU8Xwp1P0t-f4bP6Cv_SLPK6dtm68B_Wu1-_eJKNmiUtmYjbeePNXhUxS_EO6V0f7Zk66WS5UNUFEGN4/s400/vachs.jpg" /></a></div><div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on"><br />
</div><br />
Questo film di François Ozon mi ha colpito. <i>Giovane e bella</i> intendo dire. Ozon mi aveva già saputo sedurre, sia in film più feroci come <i>Gocce d’acqua su pietre roventi</i>, sia in film incantati e impossibili come <i>Ricki</i>.<br />
<br />
Qui tuttavia l’argomento tanto scabroso è condotto a mio giudizio in modo esemplare e con un tratto fondamentale e che lo differenzia da tanti film sull’adolescenza: nessuno giudizio e nessuna lagnosa sottolineatura, quando non morbosa, del <i>malessere</i> tante volte imputato a quell’età. Niente di tutto ciò: che liberazione!<br />
<br />
Che cosa ci viene mostrato?<br />
Un’adolescente bellissima, Isabelle, una Kore, che sceglie di divenire una prostituta, a Parigi.<br />
Un tema che scuote molte sensibilità, specie di questi tempi, in cui parrucconi e parruccone dello <i>psico-set</i> si sono accorti che esiste un fenomeno che si chiama prostituzione giovanile, solo perché per la prima volta ha toccato, con grande diffusione mediatica, anche le classi abbienti (mentre prima, come è noto, riguardava i poveri e gli schiavi d’ogni dove). <br />
<br />
Ma come ci viene raccontata questa transizione? La trasformazione di Isabelle in Lea? Anzitutto la ragazza, diciassettenne, ci viene mostrata, all’inizio, mentre è in vacanza con la famiglia, attraverso lo sguardo del fratellino. La prima inquadratura ce la mostra dall’alto, attraverso la lente di un binocolo, mentre seminuda prende il sole sulla spiaggia. Immagine perturbante ma anche molto istruttiva. Anche a giudicare dal seguito, e cioè dalla pervicace volontà del fratello di spiarla, questa sorella misteriosa e affascinante, arrivando a sorprenderla, senza essere visto, mentre nella sua camera si masturba. <br />
<br />
Ozon sceglie questo punto di vista per presentarci Isabelle e credo che voglia suggerirci proprio di accomodarci in questo punto di vista, quello del fratellino, nella sua curiosità, nella sua eccitazione, nella sua ambigua innocenza, nella sua morbosa voglia di penetrare quell’universo tanto vicino eppure tanto irraggiungibile. Finalmente una visuale non pregiudiziale, una visuale accogliente e, soprattutto, eroticamente complice. <br />
<br />
Se noi riusciamo a restare ben ancorati a questo sguardo allora la vicenda di Isabelle avrà molto da raccontarci, mentre non appena cominceremo a spostarci negli occhi degli altri personaggi adulti, o peggio di qualche diagnosta tra il pubblico, il rischio sarà sempre di soccombere ai pregiudizi e alle solite banalità psicologiche.<br />
<br />
Isabelle, che ha un’avventura con un giovane tedesco nel corso della vacanza, è palesemente annoiata dal ménage famigliare. Il suo scopo è superare, con un giovane tedesco a disposizione e con un certo cinismo, la prova della perdita della verginità, dove la vediamo sdoppiarsi e guardare dall’esterno questo evento che non sembra coinvolgerla sotto il profilo sentimentale né fisico. Sbrigare questa pratica è un’operazione che le consente di inoltrarsi in un altrove che evidentemente la sollecita molto di più.<br />
<br />
Ma attenzione. Qui la Kore non è la sprovveduta vispa Teresa che passeggia per i prati candida e ignara e si china, per la gioia degli psicoanalisti, a cogliere un narciso. Niente di tutto questo. Isabelle è una Kore decisa e determinata, che, al momento dell’incontro con un messaggero di Ade, l’uomo che le offre denaro in cambio di sesso, decide di inoltrarsi da sé negli Inferi e si trasforma per l’occasione. Il suo destino è al tempo stesso determinato dal Kairos, l’incontro occasionale, ma soprattutto dalla sua sensibilità già scaltra, pronta ad avvistare il fascino prepotente del mondo infero. <br />
<br />
Un mondo infero che però, giustamente, Ozon ci propone nella sua veste contemporanea, lussuoso, ovattato, labirintico, accogliente e seducente. Quella dei grandi alberghi parigini. Isabelle in veste di Lea, sale agli inferi, mediante le scale mobili che la strappano al caos metropolitano e con la grazia di una ninfa che sa indossare perfettamente l’abito del desiderio, si inoltra verso lo sconosciuto. Che è proprio Lo Sconosciuto, un uomo adulto, o addirittura un vecchio, ogni volta diverso, al quale carpire la misura della propria desiderabilità ma al tempo stesso espugnare in un tempo estremamente breve il segreto del godimento. <br />
<br />
Kore seduce Ade, non il contrario. E nessuna madre Terra, incasinata come è nell’ambiguità un po’ squallida dei traffici frettolosi degli amanti, può intuire il potere né la misura della figlia Kore.<br />
<br />
Ozon fortunatamente ci risparmia ogni moralismo, evita di mostrarci una adolescente che finisce divorata dal drago che ha osato sfidare. Tutto al contrario. Quello che si disvela, in un climax che è al tempo stesso prodigioso e ricco di humour, è la progressiva padronanza del potere in dote fin dall’inizio alla giovane ninfa. Potere che lei stessa non sa, ancora non ha potuto sondare nei suoi lati veramente imprevedibili ma che ben presto saprà amministrare nei confronti di tutti, uomini e donne, all’occorrenza ponendoli di fronte alla loro ipocrisia e alle loro voglie inconfessate. Così accadrà con il patrigno, coinvolto in poche mosse nel gioco della seduzione semiincestuosa, interrotta solo dall’intervento adirato di una Era più stupefatta e impreparata che gelosa. Ma allo stesso modo allo psicoanalista, subito inchiodato da Isabelle che gli ricorda maliziosamente che i suoi clienti avevano la sua stessa età. E la madre stessa, posta di fronte al suo tradimento, scorto dalla ragazza dietro le quinte di una rappresentazione teatrale, ma ancor più di fronte al desiderio, forse latente, di essere anche lei “puttana”. <br />
<br />
La ragazzina è forte e decisa, sta vivendo la sua avventura, perché di questo fondamentalmente si tratta, un’avventura nel tempo in cui l’avventura sembra impossibile. Avventura in ciò che delicatamente confiderà allo psicoanalista, il piacere dell’attesa, l’inoltrarsi negli alberghi, il lusso, l’incertezza dell’incontro, l’adrenalina della ripetizione, dell’immaginazione sovranamente sollecitata. <br />
<br />
Ozon ha anche la cura di sollevarci dal dubbio che Isabelle, come vorrebbe certo sociologismo che non va per il sottile, lo faccia per denaro, o per le borse Louis Vuitton. Il denaro si accumula intatto nel suo armadio. Nessuna spesa. Isabelle-Lea sceglie di essere puttana per altro che non sia il guadagno o perfino il godimento dissipatorio in cui solitamente sociologi e analisti si rifugiano in mancanza di fantasia.<br />
<br />
Giovane e bella è Isabelle e in fondo quello cui assistiamo è il mistero della bellezza, del potere che assegna a chi ne è portatore ma anche del suo peso, della sua complessità, del suo dolore. Niente <i>angoscia della bellezza</i> però in Isabelle, niente spalle curve o abbrutimenti <i>adolescenziali</i>. No, piuttosto l’esplorazione, portata all’estremo limite, del suo potere. Potere di procurare dipendenza, di dominare, potere di uccidere.<br />
<br />
Ciò che forse neppure Isabelle-Lea può immaginare, nel suo impeto avventuroso e ribelle, è che la sua bellezza possa uccidere. E non solo metaforicamente. <br />
In fondo al labirinto che la nostra eroina perlustra senza timori, anche lei incontra il suo minotauro. Un essere dolente e malinconico, come forse anch’ella è, nella mirabile e unica consapevolezza che giovani e anziani talora hanno. Un anziano che di lei si innamora, forse proiettando nella sua bellezza quella di una moglie che tale doveva essere stata al loro inizio.<br />
Un anziano delicato e gentile, che riesce, forse il solo, a sciogliere un poco la durezza della sua armatura amazzonica. La guerriera con lui un poco accetta il gioco erotico, la seduzione, e perfino il piacere. Il dono del piacere di lei coincide con la (buona) morte di lui, che forse proprio questo cercava, chiudendo il circolo di una vita che sembrava non poter prescindere dal tributo irresistibile alla donna e al suo magistero erotico.<br />
<br />
Questa è la vera cesura nel viaggio agli inferi (inferi di cui andrebbe rivisitata l’opulenta necessità, ben contemplata nella duplicità Ade-Pluto). Isabelle deve comprendere il potere della sua bellezza anche dove sembra irriconoscibile e incomprensibile.<br />
Occorre tempo, occorre una sosta, dove tuttavia la vediamo davvero padrona del suo mondo, il cui squallore piccolo-borghese non sembra all’altezza della sua caratura. Non sarà l’apparato psicosociale ordito da questo contesto a poter riparare la ferita. Niente affatto. <br />
<br />
Anche in questo Ozon, fedele allo sguardo poetico, intuitivo, amante che ha scelto fin dall’inizio, ci risparmia la caduta, che sarebbe stata fatale, nello psicologismo quotidiano.<br />
Sarà un’altra bellezza, il potere di un’altra bellezza, una ninfa-stella come la moglie del cliente, che però è anche, -il cinema qui confonde le carte secondo me-, Charlotte Rampling. Una stella-ninfa che intercede per lei. L’incontro di queste due figure, nella cornice di un letto, nella delicata e magica manipolazione del viso che la Senex procura alla Puer, nel sonno indotto, una sorta di trance erotica, nella condivisione del desiderio (“anch’io avrei voluto farmi pagare qualche volta…” le confida la donna), è un incontro salvifico. <br />
<br />
Non terapia, non presa di coscienza, non sanzione. La Isabelle che rinasce nella stanza d’albergo dove ha consumato piacere, morte e resurrezione è semplicemente una donna che ha espiato la colpa della bellezza attraverso l’assoluzione di un’altra donna, colei che sa per esperienza di cosa si tratta. Iniziazione, se si vuole, passaggio di testimonianza, magia rituale.<br />
Così si scioglie il mistero della bellezza della Kore che ritroviamo nell’ultima scena in cui finalmente non è solo l’apparizione della ninfa con il riflesso perduto in uno specchio (martellante evocazione della duplice Isabelle/Lea). E’ lei (forse Isabellea?) a vedersi ora nello specchio, a guardarsi e a poter assumere tutto il suo potere. Ozon ci lascia rapiti nel suo mezzo sorriso rivolto in avanti, rivolto oltre, mentre Françoise Hardy, cantora ormai senza tempo della meraviglia adolescenziale, intona “<i>Je suis moi</i>”.<br />
Unknownnoreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-8109023150103176649.post-22880307167290934452015-04-15T01:30:00.000-07:002015-04-15T01:30:50.145-07:00La "scuola diffusa" oltre la scuola<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgient0V51HB-UqhtBYmhPod3kSMO3_MFhFhxoAzDAqnCsImpXudCjAJ5n2qUMrt6nyxE_J7p_ih5NjYZdAkgn2mauL8n78rDPJML80w8S_QbwiSDKgNtfiTRyAwsH7HWPBdIj1hNMH5-U/s1600/unestate-da-giganti-zacharie-chasseriaud-paul-bartel-martin-nissen-foto-dal-film-4_mid.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgient0V51HB-UqhtBYmhPod3kSMO3_MFhFhxoAzDAqnCsImpXudCjAJ5n2qUMrt6nyxE_J7p_ih5NjYZdAkgn2mauL8n78rDPJML80w8S_QbwiSDKgNtfiTRyAwsH7HWPBdIj1hNMH5-U/s400/unestate-da-giganti-zacharie-chasseriaud-paul-bartel-martin-nissen-foto-dal-film-4_mid.jpg" /></a></div><div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on"><br />
</div><br />
Bisogna smettere di pensare alla vita dei bambini rinchiusa dentro una scuola, una casa, un oratorio. Le bambine e i bambini, le ragazze e i ragazzi devono ricominciare a circolare nel mondo, e allora il mondo prenderà un nuovo ritmo, più armonico. Quando i bambini, le ragazze e i giovani ricominceranno a essere presenti nel mondo, anche noi smetteremo di girare a vuoto. Liberare loro dalla gabbia significherà liberare anche noi.<br />
<br />
Immaginiamo una non-scuola come quella che oggi alcuni chiamano “scuola diffusa” (Campagnoli tra al.). Cosa potrebbe essere? Seguiamo Campagnoli:<br />
<br />
Un luogo minimale, “un edificio-base, che fungesse da manufatto simbolico, una specie di “portale” di ridotte dimensioni, ubicato in una parte significativa e centrale della città, con servizi amministrativi e luoghi di riunione non specializzati; esso potrebbe rappresentare la “stazione” di partenza verso le “aule” virtuali e reali sparse nel territorio, un luogo di “rendezvous” all’inizio della giornata di studio” (http://www.educationduepuntozero.it/tecnologie-e-ambienti-di-apprendimento/scuola-diffusa-provocazione-o-utopia-4031005060.shtml).<br />
<br />
E’ un buon punto di partenza. Ma è un punto di partenza che impone un drastico rovesciamento perché, appunto, le aule svanirebbero nella loro accezione consueta e i luoghi di apprendimento sarebbero altrove, nel territorio fuori dalla scuola. Ogni giorno i ragazzi e le ragazze, le bambine e i bambini, avrebbero un carniere di “esperienze” da vivere “là fuori” e non “qui dentro”. Campagnoli si preoccupa dei trasporti: “Per le scuole di livello base o intermedio, sarebbe sufficiente concepire quotidianamente un “orario di prossimità”, con un sistema di trasporto integrato che consentisse di trasferire gli alunni, anche in continuità verticale (negli stessi luoghi e laboratori studenti dalle elementari alle superiori, a volte anche insieme!), ogni giorno in un posto diverso a seconda delle necessità di apprendimento e di applicazione.” <br />
<br />
Va bene, soprattutto per i bambini più piccoli ma poi: immaginiamo che uno degli elementi da apprendere sia proprio spostarsi nel territorio, autonomamente. <br />
Immaginiamo più forte: non classi che si spostano ma piccoli gruppi, bande di ragazze e ragazzi che esplorano, setacciano, assistono, si offrono come volontari ecc. ecc.<br />
Questo non può accadere spontaneamente, è ovvio, occorre un lavoro di preparazione, di sensibilizzazione capillare ma poi, progressivamente potrebbero essere le ragazze e i ragazzi stessi a effettuare sopralluoghi, a negoziare partecipazioni, a ottenere possibilità di coinvolgimento.<br />
<br />
L’area di spostamento potrebbe essere vicina e adiacente al “portale” (io però suggerirei, secondo le mie inclinazioni, il termine di “radura”), per le bambine e i bambini più piccoli: i campi, i laboratori, le officine, la stalla ecc. nel raggio di poche centinaia di metri, da raggiungere accompagnati, sperimentando piano piano momenti in cui si possa muoversi ed esplorare anche soli. Ma progressivamente, con il passare degli anni, l’area dovrebbe allargarsi sempre di più, finchè le ragazze e i ragazzi più grandi, autoorganizzandosi, possano spingersi molto più lontano, prendere treni, forse aerei, per visitare quel teatro, quella compagnia circense che li affascina, l’atelier di quell’artista, quell’azienda che produce cibo di qualità, quel villaggio in India dove donne analfabete costruiscono e installano pannelli solari.<br />
Il mondo, a differenza della scuola, è grande, inesauribile, e vivo. Il solo percorrerlo, attraversarlo, non blindati su un autobus, ma liberi, in gruppo, è una straordinaria esperienza che comprende operazioni organizzative, interlocuzioni, abilità, inventiva, spirito d’avventura, imprevisti, e molto molto divertimento.<br />
<br />
Il grillo parlante come sempre chiede dei programmi, dei curricoli, degli esami, ahimé. Perché ragiona ancora come un gerarca e un secondino. <br />
<br />
I programmi in questa ipotesi sono in divenire e, soprattutto, sono un oggetto di negoziazione comune. Possono cominciare per svilupparsi per grandi “aree”, per focus, per temi, per problemi. Spesso connessi con il territorio, ma anche con la sensibilità e le domande profonde di bambine e ragazzi: l’amore, il lavoro, il lutto, la malattia, la violenza, la droga, la comunicazione, lo spettacolo, il denaro ecc. ecc. <br />
<br />
Mille possono essere i perni intorno a cui far ruotare occasioni di esperienza che anzitutto prendono spunto dal mondo, visitando luoghi di cura, andando a leggere e ricercare nei luoghi dove un certo artista o scienziato ha vissuto, magari a pochi passi da casa, o più lontano, se interessa, entrando nell’osservatorio astronomico come nella base aerea, nel bosco, nell’ambulatorio come nella palestra di arti marziali, nella trattoria come nel laboratorio fotolitografico, nella fabbrica di bevande come nella sede degli alcolisti anonimi o nella chiesa ortodossa. <br />
<br />
Si può andare avanti all’infinito a individuare punti di irradiazione di possibili itinerari di ricerca, ma anche di esperienza vera e propria, di osservazione come anche di partecipazione. Per tornare ogni tanto alla “radura” e condividere con gli altri, perfino con gli adulti (!), ma anche semplicemente compilando diari, tenendo riunioni dove capita, riflettendo su qualcosa di finalmente vivo e vissuto.<br />
<br />
Non ci saranno più curricoli in senso tradizionale ma articolazioni di esperienze, per approfondimento, per espansione, per composizione e associazione. Sul tema del lavoro si potrebbe visitarne ovviamente i luoghi, interagire con chi vi opera, con chi dirige, con chi lotta per migliorarvi le condizioni, ma poi anche con chi resta fuori, con chi studia sul senso del lavoro e così via, dal vivo, in azione. Poi riflettere, mettere a fuoco, immaginare. <br />
<br />
Il ruolo del vecchio insegnante dovrebbe modificarsi radicalmente, non più colonizzare le menti con il suo sapere, ma cercare chi e cosa possa innescare, nel mondo, quello vicino e quello lontano, occasioni di apprendimento, di ricerca, di interrogazione, di connessione.<br />
<br />
Nessun esame finale, solo percorsi che progressivamente divergono, inevitabilmente. Occorre immaginare che ragazze e ragazzi con il tempo mettano a fuoco obiettivi sempre più precisi, desiderino alimentare passioni e vocazioni sempre più specifiche e che quindi i loro itinerari si stacchino da quelli degli altri, si riuniscano con altre persone in altri luoghi, vadano e vengano secondo la necessaria oscillazione che si sperimenta in quegli anni. <br />
<br />
Ragazze e ragazzi affascinati dal volontariato oppure dal mondo della moda, che poi, vivendo e vedendo e sperimentando, cambino idea e si scambino i ruoli e poi ancora, divergendo continuamente, sfruttando tutte le opportunità. <br />
<br />
Gli adulti tutti diverrebbero insegnanti ma in un senso molto più debole e più intenso al tempo stesso. Ognuno è professore di qualche cosa e sarà ogni situazione specifica a rendere possibile una trasmissione delle conoscenze. L’idraulico potrà commentare le sue operazioni di riparazione allo stesso modo di un ingegnere o di un organizzatore di eventi.<br />
<br />
La presenza dei ragazzi, che dovrà essere agevolata e talora prescritta ma che presto o tardi sarà accolta come una benedizione, fungerà anche da meccanismo di interrogazione, di metariflessione continua per tutti, inducendoli a essere più sensibili, a riflettere su ciò che stanno facendo, forse anche a entrare in crisi. Le domande pungenti e intuitive dei ragazzi e delle ragazze obbligheranno tutti a una maggiore consapevolezza. La loro stessa presenza nel mondo, renderà inevitabilmente tutti più attenti, più cauti, il traffico dovrà rallentare e forse le amministrazioni si decideranno a creare piste ciclabili o ad abbassare la velocità in maniera decisa nei centri abitati, per permettere a bambini e ragazze soli di circolare, di muoversi con minor rischio.<br />
<br />
I giovani hanno sensibilità per le ingiustizie, per i danni portati all’ambiente, alle cose. La loro presenza sarà un deterrente, un fattore di denuncia continua e loro stessi, grazie alla loro presenza creativa, caparbia, alimenteranno un precoce senso di responsabilità, altro che imparare la cittadinanza a scuola. Essere presenti nel teatro del mondo sarà un immediato esercizio di cittadinanza e di emancipazione. Per tutti.<br />
<br />
Un’esperienza di questo tipo, di cui si possono cominciare a immaginare percorsi, vie, articolazioni, sbriciolerebbe la gabbia della passività e dell’impotenza, della noia e del rifiuto della cultura e invertirebbe verso il desiderio di sapere la sensibilità dei bambini e degli adolescenti. <br />
<br />
Chiaramente gli adulti dovrebbero anche aiutare a selezionare, dovrebbero impiegare le loro capacità per indicare punti strategici, scrigni particolarmente ricchi di stimoli. Potrebbero poi proporre momenti di approfondimento, incursioni in territori meno visibili, meno a portata di mano, diventare consulenti per dare corpo a visioni, intuizioni. Il loro lavoro sarebbe molto più stimolante e anch’essi sarebbero portati a investigare, allargare i propri orizzonti, aggiornarli continuamente. <br />
<br />
La scuola diffusa non sarebbe più “scuola” ma tempo di esperienza totalmente ripensato, che dovrebbe progressivamente passare nelle mani dei protagonisti stessi, per assumerlo, deciderlo, programmarlo secondo le loro esigenze e le loro sensibilità. Non è scontato ma è molto probabile, se effettivamente i percorsi condurranno a sviluppare passioni. Sono le passioni, come sosteneva Fourier, che possono indurre allo sforzo. <br />
<br />
Non si tema che questo tipo di rivoluzione produca disinteresse e derive pericolose. E’ semmai vero il contrario. E’ la scuola deprimente e deprivante che induce al vuoto e alle passioni tristi. I bambini, le bambine, i ragazzi e le ragazze sono normalmente vivi, lo si vede bene non appena gliene si fornisce qualche opportunità, fosse anche solo quella di una gita in montagna. <br />
<br />
Occorre solo ribaltare completamente quel dispositivo di pena e di demotivazione che è la scuola, aprire la gabbia, metter in circolazione le energie, i desideri, le possibilità.<br />
<br />
E allora la vita di ragazze e bambini, di ragazzi e bambine tornerà a essere essa diffusa e entusiasta, contagiando tutti, costringendo anzitutto noi a domandarci che cosa stiamo facendo, dove abbiamo perso il bandolo e forse rivelandoci che uno dei più grandi piaceri è anche proprio quello di stare semplicemente con loro, con le loro domande, con le loro idee, nei luoghi di lavoro, fuori da essi, viaggiando con loro, affidandosi a loro, che ancora, sperabilmente, non saranno stati anestetizzati e avviliti come purtroppo molti di noi.<br />
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<br />
Unknownnoreply@blogger.com4tag:blogger.com,1999:blog-8109023150103176649.post-88449245613268145552015-04-12T01:11:00.000-07:002015-04-12T01:12:02.821-07:00La libertà vigilata dei cosiddetti minori<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjjJJrOR1vAX0fS5X6VIsXXSX5JenfV2dTQVC9zU5NpSd4CRrUhbr8U0QV_jSQrHhd02dMC9oHnDGYT7o9u8G-U3WZE0InOP8nS-XbeSNMZGuJKndeHKijAsO3AYNUhxjWLC9zDBCK0e7g/s1600/bambiniincarcere.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjjJJrOR1vAX0fS5X6VIsXXSX5JenfV2dTQVC9zU5NpSd4CRrUhbr8U0QV_jSQrHhd02dMC9oHnDGYT7o9u8G-U3WZE0InOP8nS-XbeSNMZGuJKndeHKijAsO3AYNUhxjWLC9zDBCK0e7g/s400/bambiniincarcere.jpg" /></a></div><div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on"><br />
</div><br />
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Definiti minori quasi universalmente sotto il diciottesimo anno d’età, essi, i minori, restano per tutti quegli anni sottoposti a un regime di libertà vigilata, spesso sconfinante negli arresti domiciliari, sotto il diretto controllo degli agenti che li hanno messi al mondo.<br />
<br />
Un tempo, quando le case non avevano ancora porte blindate, le scuole non esistevano e nemmeno gli psicologi, i minori non se la passavano un granché neanche allora, ma presumibilmente trovavano più facilmente il modo di filarsela da qualche parte alla prima occasione, specie se maschi ma anche le femmine, nell’incuria generale, sapevano come sottrarsi.<br />
<br />
Oggi, i nostri minori metropolitani o anche semplicemente cittadini, sono ai ceppi. Minori e dunque minorati, perciostesso non in grado di fronteggiare il mondo. Non minori come gli accordi minori, che ci danno un poco di quieta malinconia. No, minori minori. Minori bequadro.<br />
<br />
Ed eccoli dunque: un oggetto da trasportare da un luogo all’altro ma sempre sotto scorta. Come prigionieri, qualcuno si incarica di accompagnarli da un luogo di custodia (cautelare) ad un altro. Dalla magione alla scuola, dalla scuola alla piscina, dalla piscina al catechismo, dal catechismo alla magione e così via. Sempre sotto scorta e sempre verso nuove custodie. Guardie giurate (alla loro protezione si intende) sempre presenti. <br />
<br />
<br />
Un fenomeno questo pervasivo specie se i minori sono molto minori e se il mondo, lì fuori, in virtù del suo scorrere massiccio e indifferente sui binari della compravendita delle merci (che anch’essi stanno per diventare, in virtù del trattamento giudiziario), procede feroce e appunto incurante di loro. <br />
<br />
Il trattamento giudiziario si doppia poi all’interno dei luoghi di custodia (cautelare) ( e preventiva), con misure punitive ove si cerchi di sottrarsi alla restrizione. Inoltre i minori sono ivi sottoposti a misure sempre nuove e inesauribili di continua “misurazione” della loro capacità di corrispondere alle attese degli ordini disciplinari in cui vengono iscritti o meglio arruolati senza essere stati pressoché mai interpellati in merito.<br />
<br />
Alla scuola, struttura di custodia per eccellenza, in quanto “d’obbligo”, l’interrogazione-interrogatorio e l’esame (istruttorio e probatorio), sono costantemente in atto, affinché la conformazione non abbia a rischiare anche la minima compromissione. E implacabile è sempre sotto osservazione la condotta del carcerato (cui la pena inflitta può essere anche allungata, ove ricorrano gli estremi). A orari fissi egli viene rilasciato solo a nuovi tutori che dimostrino di possedere le credenziali normative per poterlo effettivamente custodire e sorvegliare. <br />
<br />
Ogni luogo, compresi quelli del transito (auto o altri veicoli), risultano identificabili come dispositivi restrittivi in cui quasi tutti i comportamenti sono vietati: l’automobile per esempio è un luogo dove spesso il minore viene letteralmente legato ad un piccolo sedile predisposto perché non possa assolutamente muoversi, pressappoco una camicia di forza. Ovvio che questo si fa a scopi preventivi e protettivi. <br />
<br />
Nello sport, nella istruzione religiosa o musicale, le forme di custodia risultano altrettanto molteplici e variate e la sorveglianza su eventuali anomalie lascia ampio spazio a indagini che possono poi comportare l’intervento suppletivo di nuove figure tutoriali e ispettive pronte a correggere disturbi ed errori.<br />
<br />
E così via, fino alla maggiore età, quando, come è ovvio, il minore, essendo stato definitivamente reso minore e manco a vita, incapace di intraprendere qualsiasi azione in assenza di tutela, si affiderà spontaneamente a nuove protezioni, a nuovi custodi, a nuove misure restrittive, che saranno lì, puntuali, ad accoglierlo, a braccia aperte. <br />
<br />
Poi subito richiuse.<br />
<br />
Così va la vita dei minori nel tempo della democrazia.<br />
Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8109023150103176649.post-80683126198130302712015-03-22T02:52:00.000-07:002015-03-22T02:52:37.010-07:00La nausea<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhqODmZU0l6V-CsOo20o8KstDWgrxagdDLKeEKZv4O_r9HVqC4SzD0aGaoD6sCcr9rXabqbIAEgBdO3Cg00zrSJ5XvrzQIZYEkoEurwGC623_Kj-WHqqFxlNbxKVxUUvl_taKB59y_7-EM/s1600/grand-maitre-of-the-outsider-1947.jpg!Blog.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhqODmZU0l6V-CsOo20o8KstDWgrxagdDLKeEKZv4O_r9HVqC4SzD0aGaoD6sCcr9rXabqbIAEgBdO3Cg00zrSJ5XvrzQIZYEkoEurwGC623_Kj-WHqqFxlNbxKVxUUvl_taKB59y_7-EM/s400/grand-maitre-of-the-outsider-1947.jpg!Blog.jpg" /></a></div><div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on"><br />
</div><br />
Quanta amarezza in questo tempo…<br />
Ciò che accade in scuole e università, in generale nel mondo della cultura è rivoltante. Nei nostri posti di lavoro, parlo agli universitari, fanno a pezzi gli ultimi residui del senso, del significato, del lavoro creativo. Passano norme ignominiose sulla valutazione della produttività scientifica, si fa a gara per racimolare gradimenti dagli studenti, ci si spintona per intercettare fondi di ricerca cercando in ogni modo di montare in copule improbabili filosofia, antropologia, psicologia con i temi del cibo perché c’è L’expo che è un’enorme mammella da succhiare finché ce n’é convertendo per anni il senso del proprio operare al solo obiettivo economico.<br />
<br />
Nausea e schifo…<br />
Dalle commissioni didattiche degli atenei ci fanno sapere che negli esami dobbiamo usare tutta la gamma dei voti, si faccia il piacere, e che si deve controllare bene che nessuno si permetta di studiare su dispense o appunti. Troppi colleghi paiono voler incollare i pezzi del loro nulla con la colla di una qualche nuova forma di autorità, di rigore, di disciplina.<br />
Oggi se scrivi una monografia vale 0 mentre se scrivi un articoletto in inglese su una rivista di fascia XL entri nella hit parade dei cervelli in vendita…<br />
Le tesi devono essere più brevi, più simili ai paper anglosassoni, le ricerche devono essere sempre e solo per obiettivi ratificati da qualche commissione europea (dunque sempre connesse strettamente all’economia), altrimenti non ti danno un soldo.<br />
<br />
Tutti pronti a sbavare per pubblicare su un foglio di giornale, a mostrare il culo perché sia per bene manipolato da chi sul suo potere ci costruisce, lui sì, uno straccio di godimento (l’unico godimento che davvero circola, con buona pace delle Cassandre del godimento scatenato: il godimento non dissipa più, accumula semmai, è godimento del potere, qualsiasi potere, anche quello ridicolo del professore universitario che baratta la sua ipotetica identità di studioso con un posto di ricercatore o di dottore di ricerca o un finanziamento qualsiasi).<br />
<br />
Vorrei possedere una scrittura nitida e tagliente come un rasoio per poter prendere congedo da questo magma merdoso in cui invece si finisce per precipitare proprio malgrado. Si finisce corrosi dall’invidia, dalle gelosie, dall’unico orizzonte che ad oggi sia percorribile per gratificare di un senso il proprio esistere, sempre più vacuo e indistinto. Unico orizzonte che è quello dell’emergere, in un qualunque modo, dalla schiuma scura e sporca dove quasi tutti annaspiamo aggrovigliati. Emergere anche solo per poco, toccare per un momento, riconoscendo meravigliati il proprio volto estraneo nel suo riconoscimento pubblico, l’appagamento di una riuscita, l’unica che oggi davvero assuma un peso, un valore.<br />
<br />
Oppure inseguire oasi, piccole TAZ individuali, magari facendo dei propri figli il perno del proprio riscatto, fin che son piccoli almeno. Ma anche solo in un fare qualsiasi, con l’etica del lavoro risanata secondo lo slogan pietoso del “ben fatto”, beandosi di fare del buon vino o della salsa tradizionale.<br />
Ognuno con il suo successino, cduri quel che duri, pur di rispecchiarsi in qualcosa che sia, magari solo per un attimo, condiviso. E non solo dall’amico (pronto a fregarti) o dal compagno o dalla compagna (fin che c’è).<br />
<br />
Le nostre vite son sempre più friabili e leggere, possono essere soffiate via in un baleno da tanto che non hanno più gravitazione, peso, consistenza. Nulla ci garantisce di nulla, vertigine rizomica e perpetuo flusso. Ma si badi, al flusso non ci arrendiamo, pretendiamo di coagulare, di fissare la nostra immagine nello specchio di un compimento, è questa la nostra miseria. Finita la necessità di un significato, invochiamo un compimento qualsiasi, fosse anche soltanto dare la forma a un tipo di pasta o apparire velocemente in un talk-show.<br />
<br />
A volte, dialogando con i miei mèntori mi sorprendo a sorridere tristemente, pensando alla gravità delle loro considerazioni, al tormento autentico da cui apparivano abitati (l’ “apparivano” sia concesso al cinismo indefettibile che ci abita…). Dialogo con Rilke o con Etty, o con il vecchio Nietzsche e penso a quanto sembravano poter credere (in ciò che dicevano, che scrivevano). Già, credere in fondo.<br />
Sapere e credere, ancora quello, no: è vetusto e insopportabile. Oppure…<br />
Mi confido con loro, sicuro di (non) essere ascoltato. Almeno ne sono certo. Non con i…i che cosa? Come chiamare la folla in cui si serpeggia e si striscia quotidianamente, con brevi attriti, le figure che per qualche ora, o giorno, o addirittura mese, emergono a striare il tempo di una gamma relativamente costante? Amici? Compagni? Conoscenti?<br />
O forse proprio nemici, concorrenti, competitori? Siamo tutti in competizione. Non puoi veramente fidarti di nessuno, di nessuno. Nulla più ti appartiene e tu non appartieni più a nulla. <br />
<br />
Vertigine…. La vertigine di questa compiuta inconsistenza, dove puoi dire tutto e tutto è niente, ovviamente. Dove galleggi tronfio su un social network se in un giorno hai spinto fuori più post o tweet, magari raccogliendo l’approvazione di un piccolo manipolo di confermatori, a loro volta sospinti dal bisogno di essere confermati da te il giorno appresso. <br />
La nostra volatilità è assoluta. L’uomo è finito? No, solo ora sappiamo che non c’è mai stato. L’infinita e grottesca buffonata di cui parlava Shakespeare non è mai stata così patente, così esplicita, così letterale. Basta con i panneggi, con le tragedie, con le grandi recitazioni, (altro che narrazioni)! Questo siamo noi, un grande bluff che anela a un attimo di riconoscenza.<br />
Pietosi e fragili, infinitamente deboli e paurosi, animaletti cui è stata inflitta la gogna di sapersi, almeno in parte, e perciò dannati ad libitum…<br />
Ora possiamo guardare senza veli la nostra miseria. Ma ancora insistiamo, vogliamo un attimo di gloria, ancora!<br />
<br />
Sarebbe meglio accettare, zittirsi e assumere fino in fondo quel poco o nulla che siamo, ritrovando lo stimolo a far “social catena”, per sorreggerci, con compassione, con umiltà, insieme a tutto, animali, pattumiere e moribondi vegetali. Una sana e prolungata purga a quella tracotanza che ancora vuole esibirsi, con un pubblico indifferente. <br />
<br />
Ho scoperto recentemente che c’è chi sceglie come fidanzata una bambola (di materiali che simulano perfettamente la pelle umana…). Forse è quella la soluzione: tanto vale riempire i teatri, quelli della nostra vita, di manichini, anche di cartone, come già accade per la televisione, dove chi è guardato è solo il pretesto per dormire, anestetizzarsi o il bersaglio di tutto il possibile dileggio e di ogni villania.<br />
Nausea, rabbia e malinconia.<br />
Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8109023150103176649.post-91690509871757956142015-01-20T11:01:00.001-08:002015-01-20T11:01:37.778-08:00Perdere l'anima: il successo nell'epoca ipermediale<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj08GQhbnpFoe0QWOti-yflfAfXZdmpP-BH0KzaRaSETjPkw3qXpGX5vktM6yQb0Y5d104l9aXO12e9BhNg3uQDIcMz5l7aEwZbw1LbQ9wa4URkNU66KX2EyqJWMw1lgTd4unVZkHvul4A/s1600/particolaremascheradiferro.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj08GQhbnpFoe0QWOti-yflfAfXZdmpP-BH0KzaRaSETjPkw3qXpGX5vktM6yQb0Y5d104l9aXO12e9BhNg3uQDIcMz5l7aEwZbw1LbQ9wa4URkNU66KX2EyqJWMw1lgTd4unVZkHvul4A/s640/particolaremascheradiferro.jpg" /></a></div><div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on"><br />
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Una breve e per forza di cose schematica riflessione sul successo.<br />
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E’ di grande evidenza che oggi (come peraltro anche prima dell’avvento del grande circo multimediale ma in forme diverse), il successo, la visibilità e il riconoscimento pubblico siano tra le mete più agognate della giostra sociale. Non solo per corrispondere, anche se è fondamentale, al ben noto “desiderio di essere desiderati” che tale risultato implica, ma anche per motivi di ordine materiale e di natura più letterale.<br />
<br />
Vano sarebbe soffermarsi sull’ovvia ricca messe di doni che il successo porta con sé. Qualcosa di così remunerativo che consente di comprendere bene perché infatti la maggior parte, se non la totalità di coloro che lo conseguono, non riescono più a separarsene, ad ogni costo, avendo sviluppato rapidamente una vera e propria dipendenza. I casi sono sotto gli occhi di tutti. Non esiste praticamente pentimento sulla via del successo.<br />
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Al successo si può giungere per molte vie, alcune casuali e fortuite, che spesso generano dei successi temporanei (come i reality, i talk ecc.), e che spesso peraltro conducono a cadute tragiche seguite da depressioni, tossicodipendenze ecc.<br />
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Altre più graduali e sicure, specie nel caso del mondo dello spettacolo (attori, cantanti, conduttori ecc.), per assicurarsi le quali spesso a valere è un effettivo talento, o meglio il gradimento diffuso del talento, dunque la “popolarità”. Tali percorsi, talora anche molto lunghi e accidentati, conducono a un successo meno transitorio, che solitamente decade con l’età ma non necessariamente. Anche qui tuttavia, non si viene meno ad un certo continuo restyling, un ‘opera di accurato “adeguamento” del proprio profilo ai gusti del pubblico e l’interdetto a ogni eccesso di “differenza”.<br />
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Vi è poi il caso dei giornalisti, oggi campioni della popolarità di un tempo totalmente arroccato sull’istantaneità e sul breve termine, che tuttavia debbono dimostrare una certa attitudine di assertività e presenza, debbono possedere un eloquio originale, dire cose nuove senza però eccedere in trasgressione. I casi sono numerosi.<br />
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Più specifico e più singolare, oltre che inquietante, è il caso degli intellettuali. Da noi un grande apripista, in questo settore, fu Francesco Alberoni già molti anni fa. Di lui il meno che si possa dire è che, del suo potenziale talento di intellettuale radicale fece ben presto un falò, preferendo di gran lunga diventare un vero e proprio caposcuola nell’arte dell’annacquamento, della divulgazione e della svendita delle idee a padroni sempre più remunerativi e capaci di fornire visibilità e fama. In questo caso la perdita dell’anima, posto che mai essa abbia avuto sede in lui, è acclarata.<br />
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Su questa via si sono poi accodati in molti, con gradi diversi di prostituzione intellettuale ma sempre con l’obiettivo di emergere dall’oscurità accademica o professionale, di cavalcare una visibilità remunerativa che consentisse di diventare allo stesso tempo influenzatori e star. E di riempire possibilmente rapidamente il proprio portafogli e il plotone dei fan. All’inizio i lidi più agognati furono soprattutto i giornali. In seguito soprattutto le televisioni, vere e proprie catalizzatrici e moltiplicatrici del successo.<br />
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Influenzatore si diventa naturalmente a patto di accettare di essere potentemente rimodellati dai mezzi della diffusione. E’ un assioma banale ma inoppugnabile. A questo scopo ci si può affidare a consulenti specializzati che, a caro prezzo, “popolarizzano” a patto di cedere ad ogni richiesta di rimaneggiamento che riguardi il linguaggio, i toni, le idee (che devono essere adattate al grande pubblico), di sicuro l’immagine (rielaborata in funzione della vendita).<br />
Naturalmente ogni trionfo ha i suoi prezzi, e nel caso di quasi tutti costoro, lo scadimento qualitativo della loro ricerca, il tono elementarizzato delle loro argomentazioni e soprattutto la levigazione progressiva di ogni accento di eccessiva “diversità” o estremismo sono indispensabili.<br />
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Beninteso, si può essere prescelti dal mercato editoriale e mediale anche e proprio in quanto “outsider” autentici (almeno fino al momento dell’assunzione nell’eden mediale), e si pensi a fenomeni come quelli di Busi o di Mauro Corona o altri, ma a patto poi di reggere costantemente la maschera e di non discostarsene troppo, perché la regola del mondo dello spettacolo rimane quella di un buon grado di prevedibilità.<br />
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Il successo arride dunque ai “fenomeni”, ai “mostri” da una parte e agli adattabili dall’altra. <br />
Prezzo unico del viaggio, non procrastinabile: perdere l’anima e la faccia. Si badi, l’anima, come intimità propria che viene inevitabilmente cancellata (questo è il prezzo che deve pagare ogni moderno Faust), e la faccia, sostituita poi definitivamente da una maschera, che deve rimanere sempre identica, talvolta persino nel costume (la camicia aperta, quella bianca con cravatta, la terribile condanna alla stessa pettinatura o alla stessa barba incolta). Di volto, come manifestazione inconfondibile della propria unicità, mai più neanche a parlarne.<br />
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Tutto questo è sicuramente vecchio e insopportabile per un’epoca che ha già dimenticato i Benjamin, i Warhol e i MacLuhan (e il mito). Comunque è ciò che si mostra intorno a noi e che ci riguarda, tutti.<br />
Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8109023150103176649.post-54073663690266584392015-01-04T08:08:00.000-08:002015-01-04T08:08:25.263-08:00La scuola è una gabbia<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiIuIPTsoeVh_lsWuJ6ZILKEQiosOFQaZaCkS0ZhtH2_UBemK-Y-WIIt8qRThXRpbTg6nxfGydOl6jwGjQCdCZKglA-zPTXxKfXNEZD4QYIEC60J3CRIPtgW6x3Q9Qj2A9UpLYr-ZjyI5Y/s1600/414321.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiIuIPTsoeVh_lsWuJ6ZILKEQiosOFQaZaCkS0ZhtH2_UBemK-Y-WIIt8qRThXRpbTg6nxfGydOl6jwGjQCdCZKglA-zPTXxKfXNEZD4QYIEC60J3CRIPtgW6x3Q9Qj2A9UpLYr-ZjyI5Y/s400/414321.jpg" /></a></div><div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on"><br />
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La scuola è una gabbia. Una gabbia molto efficiente. Una gabbia a molti livelli, con strutture di separazione, gerarchizzazione e soffocamento pervasive e capillari.<br />
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La gabbia scolastica è tale perché bambine e bambini e ragazze e ragazzi devono essere sottratti al fuori, alla libera circolazione e alla libera esperienza. Bambine e bambini e ragazze e ragazzi devono essere deportati in massa, ogni giorno, molto presto, allo scoccare dell’ora del lavoro totale, e fino a che l’ora del lavoro totale non termina. Lì sono messi ai ceppi dell’immobilità e della passività, per anni e anni, fino a che non siano pronti per essere a loro volta caricati nel ciclo del lavoro totale.<br />
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La gabbia agisce in modo preciso e indefettibile. <br />
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Essa è ben visibile nelle classi, celle obbligatorie, chiuse e separate, dalle quali si può uscire solo con un permesso o quando l’orario di segregazione finisce. Le classi prevedono numeri fissi di compagne e compagni sezionati in orizzontale, tutti della stessa età. Un tempo erano sezionati anche per genere, tutti dello stesso sesso (almeno biologico). <br />
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Nelle classi penetrano gli agenti dell’insegnamento, isolati e fungibili al bisogno, essi stessi ben divisi per categoria disciplinare, che debbono rispettare accuratamente. Perché nella gabbia il sapere penetra a sua volta sezionato in celle di conoscenza, ognuna ben separata dalle altre, in modo che mai si abbia del sapere un’idea complessiva e in modo tale che l’ideologia complessiva di un acculturamento siffatto, devitalizzato, separato rigorosamente dal reale e deprivato di ogni armonia e integrità, possa funzionare a dovere. Un tale sapere sarà immaginato nella sua cacofonica e geometrica figura a celle isolate e non comunicanti, imago stessa dei mestieri alienati che ab initio ognuno di coloro che passa attraverso la gabbia, deve interiorizzare.<br />
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La gabbia è visibile nelle procedure, nei fogli quadrettati e a righe, nella struttura delle aule, nei banchi, nelle sedie, negli apparati di valutazione, con schede sempre più simili a gabbie e valutazioni rigidamente sezionate e gerarchizzate. <br />
La gabbia si apre sull’aperto solo a patto che l’aperto sia stato previamente ingabbiato e sezionato. All’esterno si esce solo costruendo un canale di comunicazione tra una cella della gabbia e una cella del mondo esterno, esso stesso in larga misura edificato secondo il modello unico della gabbia. Null’altro vi deve filtrare. Al ritorno dal fuori bisogna compilare relazioni che ingabbino l’esperienza vissuta e la rendano misurabile e valutabile, secondo la logica ferrea della quantità che domina incontrastata nel mondo della gabbia. <br />
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L’esperienza deve sempre essere castrata e vanificata. Ogni angolo della gabbia è sotto controllo e nulla vi sfugge, se non per distrazione degli agenti del controllo. Ogni comportamento non a norma è sanzionato. Presto c’è da attendere l’ingresso di telecamere a circuito chiuso in modo che nulla più possa essere nascosto all’occhio della disciplina.<br />
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La gabbia è al lavoro nella censura e ripartizione dei sensi di bambine e bambini e ragazze e ragazzi, che devono funzionare sempre e solo in maniera separata. Vista e udito dominano totalmente gli altri sensi, considerati inaffidabili e ambigui, troppo corporei, poco suscettibili di essere comparati e parametrati. L’integrità di ogni esperienza, che si misura sulla globalità percettiva e sull’investimento dell’intera persona, mente, anima corpo e emozioni, è invariabilmente sabotata e scissa, secondo la legge assoluta della gabbia. <br />
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La gabbia è un luogo dal quale non si può uscire. Bambine e bambini e ragazze e ragazzi vi sono rinchiusi perché solo il loro cervello possa esservi esercitato a interiorizzare le forme scisse e separate del dominio e perché incorpori, in virtù della disciplina ascetica, sessuofobica e ripetitiva del lavoro scolastico, il ritmo del lavoro totale, il suo non senso, la sua inamovibilità. In una parola il suo essere l’unico orizzonte possibile.<br />
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<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiRgcECJHbrU61_6hfNki4AGRMZM1WHbRpeM4RJd3mkAP1RJG4H8V4YxxMHcTrslnnFcATswnf6KmBMxkcVCD1EKj_N45mOv9hWJCszddiL3vUWCSERPGZORazNyVijX_uSYEr-kCRfgUs/s1600/53506a6dc07a80460000002a_modsim-yazgan-design-architecture_yazgan_modsim_07-774x1000.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiRgcECJHbrU61_6hfNki4AGRMZM1WHbRpeM4RJd3mkAP1RJG4H8V4YxxMHcTrslnnFcATswnf6KmBMxkcVCD1EKj_N45mOv9hWJCszddiL3vUWCSERPGZORazNyVijX_uSYEr-kCRfgUs/s400/53506a6dc07a80460000002a_modsim-yazgan-design-architecture_yazgan_modsim_07-774x1000.jpg" /></a></div><br />
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Occorre far saltare la gabbia, puntando a far esplodere a uno a uno tutti i meccanismi operativi che la strutturano e che rendono impossibile qualsiasi esperienza autentica e soprattutto degna della vita, unica e irripetibile, di bambine e bambini e ragazze e ragazzi, dei loro desideri, delle loro attitudini, della loro singolarità.<br />
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Occorre far saltare la chiusura, perché bambine e bambini e ragazze e ragazzi possano nuovamente circolare nel mondo, imponendo la loro misura e la potenza della loro insubordinazione. <br />
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Occorre far saltare le scissioni disciplinari, perché ogni cosa che si impara sia integra come lo è nel mondo, frutto dell’intersezione di saperi diversi e di informazioni e tecniche che travalicano di gran lunga ogni ripartizione. <br />
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Occorre far saltare le procedure oppressive della valutazione perché ogni cosa imparata sia valutata solo in base a come si rende capace di incrementare e intensificare l’esperienza vitale alla prova dei fatti e del tempo. <br />
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Occorre far saltare le aule, i sezionamenti orizzontali, affinché le diverse età, i sessi, le forme si intreccino e si scambino nella proliferazione ed estensione del campo d’esperienza. <br />
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Occorre far saltare la gerarchizzazione dei sensi, perché la pelle, la carne, il movimento, il piacere possano tornare ad essere la materia prima di un mondo finalmente corrispondente alla grande potenza sensibile racchiusa nell’ età più ricca.<br />
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Occorre far saltare la scuola, perché si ritorni nel mondo, bambine e bambini, ragazze e ragazzi e adulti infine, per immaginare una vita che metta il lavoro subordinato e castrato fuori gioco, e il desiderio e il piacere, la fantasia e l’operatività integra e plenaria di tutti, nella loro irriducibile singolarità e differenza, al centro.<br />
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