la gaia educazione

la gaia educazione

lunedì 24 settembre 2012

Enjoy your lesson (2)


Caro studente che vai a lezione carco di libri e parco di speranze, che cosa puoi fare tu perché quel teatro dove si consuma il tuo “sequestro educativo” diventi una possibile fonte di godimento? E non di polverizzazione della tua pazienza e di triturazione delle tue fantasie? Anzitutto puoi mettere in scena il tuo desiderio, postularlo, manifestarlo. Non andare lì come si va dal dentista o a cena dai parenti, annoiato e con quel senso di minaccia che effettivamente la scuola trasmette (già a partire dai suoi muri gaiamente addobbati, dalle sedie lussuriose e dagli arredi pieni di buon gusto, si fa per dire). Vacci con l’eccitazione e il pungiculo di un appuntamento. Certo, so che ti vai a infilare dentro un’aula grigia con compagni dai calzini marroni che tu non hai scelto. Questo è vero ma prova a ribaltarlo. Fai una simulazione, credici. Fatti bello/a, datti una profumata, infilati una sciarpa sgargiante che calamiti l’attenzione. Porta la tua faccia più entusiasta e con essa introduciti nell’aula che sa di candeggina con l’aria di chi chiede: è qui la festa? Porta il tuo corpo dentro l’aula, con il suo flessuoso andamento animale, porta la tua giovinezza, non lasciarla fuori dalla porta, non esibire solo la tua depressione e la tua noia. Di tanto in tanto sorridi alla professoressa di matematica, portale dei fiori. Porta dei fiori anche alle tue compagne o ai tuoi compagni. Arriva con la ferocia del desiderio di far saltare le righe. Proponi sempre qualcosa, bacia tutti. Abbraccia il professore, ne sarà elettrizzato, resterà senza fiato. Vigila soprattutto. Non permettere che stritolino il sapere dentro la morsa dei loro sussidiari. Porta libricini odorosi, gonfi di foglie e di vecchie cartoline. Falli girare. Porta del cibo succulento, non solo per te ma per fare festa. Chiama gli altri ad esigere il proprio tempo, a stanare la cultura fino a che non inizia a perforare i muri. Reclama di uscire, di vedere i luoghi, esplorare i cantieri, entrare nelle botteghe, decifrare i misteri delle pasticcerie, fotografare e filmare il mondo e ritrovarlo solo dopo dentro quell’aula che si sarà trasformata in un laboratorio alchemico prufumato di ambra e di bergamotto. Chiedi che ci siano sensi e colore dappertutto. Quando vuoi azzittire il professore, fai partire una musica dolcissima dal tuo amplificatore personale. E danza. Avvicinati ai compagni, alle compagne, con fare seducente, e accendi i loro ormoni. Perché no? Se poi otterrai una sanzione, sarà stato per amore. Una nota disciplinare sarà una lieta pena per questo atto bellissimo di “terrorismo poetico”. Sei tu che puoi impedire lo scempio del sapere, la sua mortificazione e, con essa, la mortificazione del tuo corpo e del corpo senziente che formi con i tuoi compagni. Riscattali con la rivendicazione dell’appropriazione profonda delle materie, incarnata in azioni sceniche, in recitazione, in corpo a corpo con gli oggetti ancora vivi e vivibili. Sii manifestazione vivente a partire da te stesso/a, nei tuoi vestiti, nella tua voce, nei tuoi gesti, sii desiderio e poesia in azione. Non permettere a nessuno di abbrutirti con la mediocrità di una lezione malpreparata, con testi scolastici pachidermici e inutilizzabili, con lo stridore dei gessi sulle lavagne o con i rituali irricevibili dell’interrogazione e del compito in classe. Chiedi che non si valuti, ma che si restituisca, si baratti il sapere con un ringraziamento, quando lo merita. Chiedi semmai che si valutino solo i comportamenti che scaturiscono da un coinvolgimento profondo, che si valuti solo su richiesta, di chi impara, non del sistema paranoide che soffoca e inchioda ogni cosa ancora in vita. Imponi l’esperienza, le storie, la foresta dei simboli e le stratificazioni dell’immaginario, chiedi materia palpitante, odorifera, palpabile, gustabile, amabile. Installa la tua inequivocabile presenza fragrante e immensa, irriducibile, al centro di uno spazio che può diventare scrigno di incandescenze, firmamento scintillante, oltrenero sottomarino, folto boschivo, pioggia fitta e inebriante, labirinto sotterraneo, bagno di fango tiepido, fonte di acqua luminosa e carezzevole. Sii l’attore principale, rifiutati, ostacola l’idiotizzazione perseguita da chi entra in aula solo per timbrare il suo destino di cùlculo del sistema. Lo puoi fare con la tua energia ancora intatta. Ribalta i ruoli, spruzza il tuo desiderio come un gatto nero e affamato sulle pareti e sui banchi, esigi l’intensità, la densità, gli orizzonti infiniti!

lunedì 17 settembre 2012

Enjoy your lesson! (1)


L’unico comandamento è: goditela! Goditela la tua lezione, goditela insieme a loro, naturalmente. La lezione, che non è certo il massimo, in termini di apprendimento, ben inteso, è però un potenziale di febbre feconda, se la lavori bene, come una pasta in rigogliosa lievitazione. Allora, anzitutto tu devi godere. Simultaneamente, devi far godere loro. Il che poi significa, fatti due più due, che, se va bene, ve la siete goduta tutti sebbene non necessariamente allo stesso modo. E’ vero, fare una buona lezione ha qualcosa a che fare con il fare l’amore, però non è esattamente il trionfo della reciprocità. Diciamo che è un massaggio erotico che tu pratichi a loro e che, se va a buon fine, ti ritorna in forma di piacere diffuso… Veniamo ai fatti: intanto tu ti sei preparato. O meglio, hai preparato ogni cosa. L’errore più grossolano e fatale in cui puoi incappare (e troppo spesso ci incappi) è fare quello che loro si aspettano che tu faccia. Ogni tuo gesto prevedibile sarà un declino, più o meno abissale, della loro attenzione (loro, i tuoi pupilli, la carne umana che respira e trasuda nella sala dei desideri). Non tradirli. In qualche modo puoi, ogni volta, spiazzarli un poco, persino con la ripetizione (di un piccolo rituale per esempio). Ricordati che insegnare è una pratica festiva, non feriale. Ogni giorno è un appuntamento, una possibilità di vita, di piacere, non una condanna, una crocifissione sull’altare delle regole, della noia e della disciplina. Tu sei il sacerdote, il gran mogol, approfittane. Quindi, innanzitutto, tu hai apparecchiato ogni cosa, hai pensato, ricercato, studiato, organizzato, sistemato ogni cosa, prima. Cosa si aspettano loro? Che tu entri e con fare svogliato inizi a parlare di mestizie sarcofagiche e che gli propini il solito polpo morto da troppe ore. Evitalo. Invece entra e sviali (detournement, s’il vous plait), vai fuori binario. Sono cose che vanno curate bene fin dalla prima volta. Anzi, la prima volta è essenziale, fatidica direi. La prima volta è davvero “la prima volta”, uno sverginamento, per essere più espliciti. Pensa al corpo giovane e intatto dei tuoi allievi, un corpo intero, la prima volta, ancora intatto, intatto per te, naturalmente, che altri ci hanno già messo le loro mani addosso, purtroppo, lasciandolo piagato e svuotato (e allora a te toccherà la respirazione bocca a bocca). Un corpo che può respirare, mugolare, squittire, brontolare come un grande mammifero, morbido e odoroso (anche di odori forti e piccanti, si sa, sono giovani). Occorre lavorarlo con cura. Entra e non andare subito a sederti alla cattedra, se c’è qualcosa di simile ( e c’è, e c’è …). Fai gesti precisi, riconoscibili. Per esempio puoi modificare la luce, abbassala, cerca di creare dell’ombra, per avere più intimità, induci la “tua” atmosfera, in sintonìa con quello che stai per proporre. Oppure fai partire una musica, o anche le due cose in successione. O anche inizia a leggere un brano suggestivo, che sappia attrarre l’attenzione, senza preamboli, vai subito a toccare il nervo sensibile. Mostra delle immagini, un filmato, senza introduzione, senza attutire il colpo, quale che sia: una piccola recitazione, se lo sai fare, o uno spostamento del tuo posto, trascinando la tua sedia altrove, o un tappeto, perché no? Crea una se-duzione, chiamali a te, con un gesto che li spiazzi. Ci sono migliaia di possibili invenzioni, occorre solo che ti sforzi di immaginare un ingresso, un accesso allo spazio specifico su cui poi innesterai la tua lezione, la tua lezione “speciale”. Naturalmente ogni cosa che fai deve essere calibrata sulla “loro” sensibilità, la devi immaginare, devi spostarti dentro le loro crisalidi, dentro le loro anime. Non puoi leggergli una poesia “impegnata” di Giancarlo Majorino solo perché a te piace tanto, non puoi fargli ascoltare i campanelli dei monaci tibetani perché a te danno i brividi. Puoi arrivarci, ma sempre per gradi. Se poi va bene, otterrai un momento di altissima intensità. Avrai tutta la loro attenzione. Un’attenzione dalle molteplici sfumature, curiosità, diffidenza, speranza, resistenza ma comunque attenzione. Attenzione allo stato purissimo. E questo è incomparabile. E ti fa sentire come un dio. Un dio minore ma prossimo a prendere il volo.
La tua benzina è l’attenzione. Non farti scrupoli, lasciati blandire dalle malìe della seduzione. Lungi dal farti condizionare dall’ascetismo predicato dai barbogi pedagogici, punta sulla seduzione, rendi affascinanti i tuoi argomenti, i tuoi documenti, te stesso. Vai all’appuntamento con l’attenzione profumata dei tuoi allievi agghindato come una baiadera, non perdere l’unico motivo davvero vitale di una “lezione”. Salvala prima che si tramuti in irrimediabile petofanìa, in sodomia pneumatica. Devi inventare percorsi inediti, arrivare alle scienze passando per la letteratura, che so una lezione di botanica attraverso le poesie sui fiori di Rilke o certi quadri della O’Keeffe. Arrivare alla matematica attraverso la musica, indovinando le formule di certi passaggi sonori di Bach o di Frank Zappa ma insistendo sull’ascolto perché i numeri diventino materia godibile, oppure esordendo dal film della biografia di un celebre matematico (come in A beautiful mind di Howard o quello su Galois) o da uno che ponga problemi matematici (perché non Il cubo di Sekula?), o anche leggendo brani tratti dai diari di un impervio ricercatore, fiammeggianti, quelli fiammeggianti, non quelli sideranti. Osa i passaggi bizzarri e imprevedibili: fai preparare e recitare, attraverso ricerche e testi minori, il Risorgimento italiano, la Comune di Parigi, l’assassinio di Marat nella versione di Peter Weiss. Coltiva testi stuzzicanti per sporcare i fasti di un’epica consunta, accecali con immagini dell’arte contemporanea carica di materia e di umori o con la violenza carnale di Rubens, trapunta le tue lezioni con la musica e le registrazioni di celebri momenti scenici. Interrompi i passaggi barbosi delle tue spiegazioni (quelle esclusivamente necessarie) con un’improvvisa sequenza, appropriata, tratta da una commedia televisiva ironica e iconoclasta, da un varietà, da un film comico. Non temere di usare le immagini, i video, le clip. Oggi c’è a tua disposizione non certo l’archivio dei documentari pensati per la scuola, non certo il tremendo didattismo suicida dell’ “educational” ma l’intero giacimento ricco di pepite dell’immaginario accumulato nei secoli (specie negli ultimi decenni, nei quali è esploso). E’ con esso che puoi, seguendo un percorso non mortificato dalle introduzioni storico-critiche, dai tuoi balbettamenti prolegomenici, irrompere con la polpa vitale della cultura persino dentro l’oscena cupezza di un’aula scolastica! Ricorda: a scuola non si studia e si insegna per un dopo di cui ancora nessuno può misurare la benché minima consistenza. A scuola si vive ora e qui un’esperienza indimenticabile, le cui trame sono fondamentalmente nelle tua mani. Ogni tua lezione è un’occasione strepitosa per vivere subito nell’immenso teatro del sapere, tuffandotici anima e corpo insieme ai tuoi allievi, partner di un esercizio erotico incomparabile, quello di scoprire, esplorare, penetrare e farsi penetrare dalla cultura.

domenica 9 settembre 2012

Contro il feticismo del lavoro


Il lavoro è il grande imperativo. Esaurita e vituperata oltre ogni limite (anche da molti dei suoi protagonisti ahimè) la controcultura degli anni ’60 e ’70, nessuno osa più criticare quello che a buon diritto si può considerare il ritrovato e unanimemente plaudito mito del lavoro, anzi il feticismo del lavoro. Tutti vogliono lavorare (anche nelle condizioni di sfruttamento più spaventose), la mancanza di lavoro precipita in uno stato di prostrazione con aggiunta di senso di colpa e frustrazione che ha pochi rivali. Non solo: quando lo si ha, se ne vuole di più, la gara a riempire la propria agenda di impegni è, senza ombra di dubbio, una delle gare più spietate e brutali. La sbirciatina che il collega getta sulla tua agenda, sperando che si riveli semivuota, è inevitabile. Per quanto mi riguarda, concedo molte soddisfazioni ai colleghi. E temo di non riuscire a far loro capire che, per me, si tratta di un motivo di vanto. Questa è la situazione, su cui bivaccano i manipoli del fascismo culturale che promuovono la nostra vita all’incontrario, nella quale le esigenze dell’economia e la gogna del lavoro sono considerati gli unici parametri in base ai quali regolarsi. Chi non ha lavoro non è solo un disoccupato o inoccupato ma anche un reietto. Lavorare non “stanca” più, lavorare è un imperativo etico, sociale e persino estetico. Il lavoro rende liberi e belli. Evviva. Il lavoro è una religione, come dice bene Antonio Saccoccio in un suo recente libro. Certo, qualcuno arcignamente mi obietterà che criticare il lavoro, in modo poi così generico, è non solo stantìo, ma anche ingiusto, considerato che senza lavoro non si campa. Considerato che il lavoro fornisce l’autonomia, è il fondamento della “cittadinanza”. Vero. Ma senza critica, una critica serrata, spietata, anche solo la remota possibilità che si possa intravedere all’orizzonte una società dove il lavoro, quello “alienato”, si intende, possa ridursi, sarà sempre più inverosimile. Certo, una quota di lavoro alienato dovrà, e a giusto titolo, essere distribuita come impegno sociale, a carico di tutti (pena l’essere non socialmente legittimati, come spiegava bene André Gorz), ma è del tutto chiaro che il lavoro umano è sempre meno necessario e che per renderlo tale occorre continuamente inventarlo o inventare crisi che simulino la sua mancanza: il lavoro, sembra incredibile doverlo dire ancora, lo fanno ormai in larga misura le macchine. Ed è del tutto necessario arginare quel mostro divoratore che è l’imperativo della “crescita”, su cui è fondata in larga misura la produzione di merci e lavoro del tutto superflui. Se le cose si allineassero con la costellazione dei nostri bisogni più autentici, al centro delle nostre preoccupazioni dovrebbe esserci un ben altro tipo di lavoro, lavoro creativo, autodeterminato. Di quello, un lavoro non retribuito, gratuito, frutto della pura volontà di creare, di agire -stante la congiuntura sulle cui logiche fittizie agisce l’ideologia di questo decrepito capitalismo-, si parla invece sempre pochissimo. Il lavoro lavoro, quello che garantisce ricavi ai “padroni”, quello invece continua a ricattarci, sottomettendoci alle sue sempre più raffinate tecniche di sfruttamento, di soggiogamento, di condizionamento profondo. Ma soprattutto al furto sistematico delle nostre vite e del nostro tempo che, come noto (ai più lucidi), è l’unica autentica ricchezza cui si possa seriamente aspirare. Tempo da scegliere e da dedicare a ciò che si ama, che ci appassiona, che ci soddisfa. Solo pochissimi privilegiati (a spese degli altri), o vagabondi e obiettori consapevoli spesso emarginati (sotto osservazione e pronti ad essere “recuperati” dai servizi sociali), oggi hanno la possibilità di esercitare la libertà di disporre di gran parte del proprio tempo. Tutti gli altri sono schiavi, schiavi anzitutto dell’ideologia dominante ma poi però drammaticamente di sé stessi, dei propri complessi, della propria avidità e della terribile congiuntura che li vede incapaci di reggere un pensiero che non sia già in partenza castrato dalle ovvietà del conformismo globale. Lavorare meno, lavorare tutti, lavorare meglio. E poi: non lavorare. Occorre ancora una volta rivolgersi a chi, da secoli, e specie da quando il lavoro, con l’avvento della civiltà industriale, è diventato quello che è oggi, cioè, paradossalmente, un valore (mentre non lo è stato pressocchè mai in alcuna altra civiltà compresa la nostra, almeno fino a che il fare non è stato sottoposto alla legge infernale del profitto), lotta contro il lavoro, per spezzare il suo rinato feticismo e per esigere ciò che ci è dovuto: il nostro tempo, la nostra libertà, il nostro desiderio. Da Gorz a Vaneigem, da Hakim Bey a Marcuse a Russell a Illich, da Kropotkin al “Gruppo Krisis”, da Nietzsche a Lafargue al recente Philippe Godard, occorre dire basta al culto del lavoro e rivendicare ancora una volta e poi ancora il “tempo liberato”, una (anti)pedagogia del “tempo liberato” che si muova violentemente in antitesi con l’ideologia massiccia che, dalle organizzazioni sociali alle imprese, alle istituzioni, ai ministeri, ci vuole inchiodare alla ruota del supplizio che da sempre, e non a caso, si chiama lavoro. Un tempo liberato che non emargini, tempo di tutti, tempo di vita, tempo di integrazione, tempo festivo, tempo di intense passioni. Occorre rovesciare un mondo fondato sulle esigenze dell’economia e sostituirlo, al più presto, con un mondo fondato sul desiderio, il desiderio irrinunciabile di riappropriazione, di godimento del proprio tempo. “si sente oggi che il lavoro come tale costituisce la migliore polizia e tiene ciascuno a freno e riesce a impedire validamente il potenziarsi della ragione, della cupidità, del desiderio d’indipendenza. Esso logora straordinariamente una gran quantità d’energia nervosa, e la sottrae al riflettere, allo scervellarsi, al sognare, al preoccuparsi, all’ amare, all’odiare” (F.Nietzsche)