la gaia educazione

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sabato 29 dicembre 2012

La "rivoluzione digitale" a scuola?


I nuovi profeti della informatizzazione integrale stanno conducendo da tempo e con forze sempre più agguerrite la loro campagna di conquista della scuola. Come dargli torto? Posto che un giorno ciò possa avvenire, si tratta di un territorio che può fruttare dividendi enormi per chi si dovesse accaparrare la commessa di LIM e tablet su scala nazionale… Per carità, lungi da me l’idea di voler maleficare questi strumenti straordinari: si tratta di giocattoli assai affascinanti e che hanno indubbiamente il merito di svecchiare procedure didattiche logore e di introdurre il medium visivo in un ambiente che ne è rimasto fin troppo digiuno. La questione è più radicale però. I nuovi teoreti della digitalizzazione scolastica ammantano le loro proposte con una retorica ben nota, in ambito educativo, che fa riferimento alla didattica della ricerca, al learning by doing, all’apprendimento cooperativo (cfr. Ferri – Moriggi, su Agenda digitale, dicembre 2012). Tutte bellissime cose, anche se un po’ datate per la verità, la ricerca in classe si faceva già negli anni ’60, seppure certo con strumentazioni meno sofisticate… e per quanto riguarda il learning by doing, è uno degli slogan più declamati e però poi scarsamente realizzati, nella sua intima complessità, dell’intera storia del pensiero pedagogico. Ma diamo atto a questi riformatori delle loro buone intenzioni. E tuttavia occorre rimarcare il ruolo della scuola, cui, a mio giudizio, ben oltre ogni considerazione economica o didattica, occorre guardare. Al possibile ruolo della scuola, purtroppo raramente incarnato, e specie in questo frangente storico. Acuti osservatori della nostra contemporaneità hanno messo in rilievo, come Bernard Stiegler, tra gli altri, che stiamo vivendo, a causa della “captazione dell’attenzione” generata proprio dalla congerie di dispositivi elettronici e audio visuali da cui siamo circondati, un progressivo “immiserimento simbolico”. Che, cioè, il nostro essere immessi continuamente in un flusso di messaggi, informazioni, immagini non-stop, grazie appunto alla molteplicità di terminali cui siamo connessi, sta di fatto rendendo impossibile pensare e formulare pensieri con un linguaggio che risulti da una riflessione e non da una semplice reazione a ciò cui siamo continuamente esposti. Non diversamente, Yves Citton, pone fortemente in guardia da una “società della conoscenza” che non rende possibile l’esercizio di quella facoltà tipicamente umana che ci consente di interrogare e porre dei dubbi su ciò che ci assedia con questa continua stimolazione, cui rispondiamo ormai con la stessa rapidità di un circuito galvanico. Citton rivendica giustamente, nel suo bel libro Future umanità, la necessità di momenti di vuoto, di sospensione della risposta rapida, per potervi inscrivere l’atto riflessivo per eccellenza, riflessivo e inventivo ma anche interrogativo, l’interpretazione, che è al cuore di tutti i sapere umani non asserviti alla macchina del fare. Per essere più esplicito e per usare qualche metafora, siamo sempre con la spina attaccata. A scuola sarebbe bene staccarla questa spina per avere il tempo di osservare come funzionano i dispositivi che da quella spina sono alimentati. A scuola si dovrebbe smontare la tecnologia, guardarci dentro, interrogarne le motivazioni, il funzionamento, l’immaginario, l’ideologia. Non si dovrebbe permettere a ciò che già ci influenza già continuamente e ovunque, di spadroneggiare e colonizzare anche quegli spazi e quei tempi. La scuola deve funzionare un po’ come una chiusa nei confronti del flusso di questo ramificatissimo sistema di canali nei quali scorriamo a velocità sempre più vertiginose. Una chiusa dove aprire un tempo della domanda, dell’interpretazione. Ciò spiega perché a scuola occorre spegnere i cellulari. Non solo e non tanto perché distraggono e disturbano, ma soprattutto perché mantengono costantemente connessi a ciò da cui bisogna separarsi per poterlo pensare, per poterlo decostruire, per poterlo interrogare. Tra l’altro, per venire ad un altro degli slogan dei nostri ideologi, quello dello studente-ricercatore, i ragazzi sono già degli abilissimi ricercatori in rete, e lo dimostra la produzione di lavori scritti e di tesi sempre più frutto di un abile lavoro di taglia e cuci da ciò che si trova ampiamente grazie a internet. Non è di questo che hanno bisogno, ritengo. Certo, se il problema è svecchiare una didattica spesso davvero consunta, la cosiddetta didattica frontale e i suoi nozionismi, sono perfettamente d’accordo (per quanto anche qui con cautela, perché la capacità di ascolto è qualcosa che va anche esercitato, magari anche attraverso l’interpunzione audio-visuale). E tuttavia la scuola non può, per mantenersi al passo con i tempi, diventare un’altra sede di un fare tutto schiacciato sulla velocità dei flussi di informazione della rete. Occorre rallentare, smagliare, aprire dei vuoti, altro che rincorrere le velocità siderali della banda larga. E infine una considerazione che sempre più ha l’aria di un grido nel deserto. I nostri sostenitori della scuola digitalizzata non fanno certo mistero di avere in mente un’idea di scuola del tutto cognitiva, centrata sugli allievi come esseri portatori di cervello e sprovvisti di corpo. Non è una novità. Quando mai i corpi dei ragazzi sono davvero entrati nella scuola? Questo mancato riconoscimento è uno dei delitti capitali della scuola e sarà sempre troppo tardi accorgersi che il coinvolgimento del corpo, delle emozioni, dell’espressività, della creatività è fondamentale per generare autentico apprendimento. Ecco allora che alla scuola digitalizzata vorrei ancora una volta contrapporre, oltre ad una scuola interpretante e critica, oltre ad una scuola che sappia mettere le distanze tra sé e le richieste del mercato digitale, una scuola (che ancora mai si è data, per parlarci chiaro, almeno in maniera diffusa) in cui si restituisca, specie in quell’età in cui ciò è oggettivamente cruciale, al corpo, all’espressività, alla creatività, attraverso teatro, danza, musica, arte, il ruolo centrale che meritano ( e che meritano i bambini e i ragazzi interi, vivi e ricchi di potenzialità inespresse).

venerdì 14 dicembre 2012

Viva la controeducazione (agli adepti di Faunalia e oltre) !


La controeducazione, contrapposta alla triste scienza dell’ortopedia e dell’ingessatura, della mummificazione del cucciolo d’uomo e delle sue ulteriori figure sull’altare del conformismo e della passivizzazione, dell’ascetismo e della rinuncia, dell’immolazione al sacrificio, alla fatica, alla crocifissione e all’inginocchiamento, reali o metaforici, contrappone l’esaltazione affermativa dell’immaginazione, delle emozioni, del corpo e del piacere. Al primato di uno spirito irreparabilmente consegnato alla graticola delle restrizioni e al cilicio delle privazioni, il primato gaudente della sfrenatezza, dell’anima incarnata e ardente, impegnata nell’avventura delle molteplici posizioni d’essere e nel gioco interminabile della dissipazione. Curiosa di tutto, avida e inestinguibile, l’anima corporea della controeducazione, spinge a demolire le insegne imputridite e le stigmate di una formazione maligna che da sempre sequestra i corpi, le passioni, i sogni, per condannarli, reprimerli, punirli. A noi il divenire-danza, festa, sperpero contro la parsimonia ipocrita delle caste di conoscenza, a noi la generosa vendemmia di un sapere di tutti e di nessuno, così aperto da far deragliare ogni pretesa di dominio, così denso da risucchiare ogni proposito di analizzarlo, così intenso da respingere ogni tentativo di indebolirlo con le armi della falsa dialettica. Controeducatori di ogni contrada mondana, lasciatevi rapire dai cembali impazziti del corteo dionisiaco, dal richiamo delle fachiresse fourieriste, dalla materia leggendaria delle carni barocche e rubensiane , dalla fame di Pantagruele, dal riso di Zarathustra, dalle zone di temporanea eruzione vitale di Hakim Bey, dall’orgasmo interminabile dei fautori irreprimibili di un piacere non viziato dai ricatti del padre e della legge della mancanza. La controeducazione sarà precisamente la guida fausta e elettiva per chi ancora crede che al fare e al produrre vada anteposta l’esigenza ineludibile del dire di sì alla grassa materia della vita. Certo, appena oggi ci si permette di inneggiare al piacere e allo spirito festivo, subito si viene punzecchiati dalla fanfara grigia di chi vi vede l’imposizione del potere, il finto piacere della merce consumabile e dei soggetti manipolati e inchiodati al godimento obbligatorio. Ma dietro l’invettiva contro il piacere si annida sempre una teologia, un’idea di fondamento nella mancanza, l’impossibilità ad essere, insomma la tirannide feroce che da sempre vede l’uomo votato al naufragio. L’elogio della festa è però tutt’altro dal gravitare nelle acque melliflue del finto neopaganismo dell’epoca, è lo spirito insurrezionale che pretende di vedere il piacere posto al centro dell’essere, come motore primo, dinamico e fecondo, quello per cui si fa e si cerca anzitutto per passione ed è la passione l’unico vero oggetto perduto da sempre. Ispirandosi a quei pochi ma fermi maestri che ci invitano alla penetrazione del meraviglioso in ogni atto del vivere, che vogliono davvero sbarazzarsi dell’odioso tributo alle moraline del risentimento, da Charles Fourier a Hakim Bey, da Aristippo a René Schérer, cercare il piacere non è cedere all’incesto con gli imperativi dell’epoca barbara, semmai è redimere il pantheon degli dei delle passioni tristi per affiliarsi a quelli che da sempre affermano il diritto di esserci qui e ora, che conoscono il periplo di ogni alchimia riuscita, e cioè che alla fine della trasmutazione si entra nel ciclo della moltiplicazione. La moltiplicazione delle passioni, la loro soddisfazione, tutt’altro che impossibile, sono il vettore opulento della controeducazione, in rotta di collisione con tutti i vocati all’elogio della miseria, della rinuncia, dell’autocommiserazione.

sabato 10 novembre 2012

Ancora (sì, ancora), sui giovani, la loro speciale sensibilità per l'ingiustizia e le botte


Non ci si può esimere, se non altro in quanto osservatori e attori nel mondo dei giovani, a intervenire nei flussi di retorica che li inondano. I giovani, gli adolescenti ancora di più, restano una grande ghiottoneria per le riflessioni spesso gratuite che molti acuti (si fa per dire) maestri di penna ci infliggono approfittando del fatto che si tratta di un soggetto che raramente arriva a esprimersi in proprio nelle sedi dove appunto si consuma la retorica sopra di lui. I giovani. Cui si oppone, con sommo gusto della caricatura, il soggetto adulto o anziano, oppure i sempre idealizzati bambini (sapessero che razza di soggetto sadiano, magari in miniatura ma sadiano, lo ha mostrato bene Golding, sono i bambini!). I giovani, sempre un po’ ridicolizzati, sghembi per natura, non acconci. Oggi è tornato di moda l’antichissimo sport di prenderli a botte (e certo non solo metaforicamente). La polizia, che è sempre la stessa, un organo di repressione, sarebbe opportuno non dimenticarlo mai, Pasolini o non Pasolini, pesta i giovani. I giovani protestano ma, sottolineano acuti osservatori, senza sapere bene neppure il perché. I giovani narcisisti della società senza padre (sempre secondo i loro osservatori), riottosi a farsi adulti in un mondo privo di adulti perché ormai intenti essi stessi all’infinito gioco del desiderio (desiderio imposto però dal grande mercato delle merci) bla bla bla bla. Gli psicologi soprattutto. Un giorno o l’altro bisognerà fare una ricerca, una ricerca “politica”, sopra gli psicologi, questi arguti analisti delle vite altrui. Sempre pronti a fornire le loro preziose diagnosi, con terminologia squisitamente maleficatrice, che inchioda tutti alla patologia. Posizione comoda quella dell’analista, il vero dominatore della chiacchiera contemporanea ma anche insostituibile procacciatore della peggiore droga in circolazione, quella dell’ideologia che ci fa tutti integrati nella vita normale o irrimediabilmente sbagliati. Ma poi non sono solo loro. Tutti sproloquiano sui giovani, me compreso. Tutti siamo presi da questo sport arcigno, che li guarda da una presunta posizione di conoscenza, senza neppure aver davvero fatto banalmente i conti con ciò che significa essere giovani, o adulti. Soprattutto senza avere sperimentato davvero la nostra adolescenza, la nostra giovinezza, fino a farne un centro di irradiazione vitale, costante e pervasivo. I giovani, questa massa melliflua e sostanzialmente omogenea. Ma dove, ma quando? I giovani sono sempre esposti all’erpice violento delle interpretazioni. In verità essi sono altrove, perlopiù, dalla posizione dei guardanti, dei voyeur che li scrutano per metterne in luce le criticità, gli scarti, le devianze. Sempre altrove dallo sguardo sottilmente invidioso che li perlustra e che cerca di enuclearne i depositi di paura, le violenze, la confusione (apparente), l’immoralità. Diventare adulti però, occorrerebbe dirlo a lettere maiuscole, significa perdere quella SPECIALE BELLEZZA. E’ l’adulto il mancante, non il giovane. E’ l’adulto che perde in vigore, freschezza, sensibilità. L’adolescente, il giovane sono immensamente aperti, e densi, e liberi (quando non sono vilmente sabotati appunto dagli adulti che se ne occupano e dalle loro interpretazioni risentite). Ma di più, i giovani hanno qualcosa di indomabile che ha il sapore dell’utopia, nella loro condizione, quando è ancora così privilegiatamente libera, non ingabbiata nella vita sociale e professionale. Essi possiedono, stigma incancellabile, una speciale sensibilità per l’ingiustizia. Oh, virtus horribilis! E’ questo che li rende insofferenti, che talvolta li fa scendere nelle strade, gridare, rompere. A differenza degli adulti, quelli che poi davvero lo diventano (e, ahimè, qualcuno davvero lo diventa), essi avvertono, o meglio -forse proprio perché non ancora presi dalle norme cogenti dell’ingranaggio, perché pascolano ancora in quella zona di distacco da cui le cose appaiono inagite, possibili, non sottoposte al dominio di una ragione che le strumentalizzi-, sono sensibili alle storture, le aggressioni gratuite, la violenza implicita ed esplicita sul mondo, sulla natura e sulle loro vite ancora non definite e perdute (o predate). Mentre gli adulti affondano nei gorghi della loro progressiva acquiescenza alla putrefazione dei sensi (specie di quelli rivolti al dolore del mondo), i giovani, fin tanto che restano tali ( e molti lo restano a lungo, fino alla fine dei loro giorni perfino, eccezionalmente), sono ancora svegli, desti, sensibili appunto. Questo è insopportabile per l’adulto-guardiano (e guardone). Lui è al lavoro per anestetizzarli, per piegarli ai carichi di lavoro che possano finalmente normarne l’ indomabile tendenza insurrezionale, l’insubordinazione, anche il semplice lamento. Ecco allora la distribuzione gratuita delle sindromi: narcisisti, intolleranti alla frustrazione, indolenti, capaci solo di passioni tristi e compagnia cantando. Per la misera testimonianza che ne posso offrire, le passioni dei giovani starebbero benone, se non ci fosse lo sguardo degli adulti genitori, la scuola degli adulti insegnanti, il mondo degli adulti padroni a soffocarle. Se avessere intorno maestri di affermazione della vita e non tossicodipendenti della distruzione sistematica: distruzione del senso, distruzione della natura, distruzione della vita. Ci si stupisce che ogni tanto i giovani facciano sentire il loro grido di protesta e qualcuno è stupito perfino che li si rimetta rapidamente al loro posto (qualcuno persino si straccia le vesti, con finta ingenuità): li si rimette al loro posto con la polizia, polizia nelle strade ma anche polizia nella testa, con i nuovi e progressivi programmi di professionalizzazione precoce, di arruolamento nelle truppe di distruzione del cosmo e del possibile. Manganellate sulla schiena e manganellate psicologiche, sociologiche, manganellate a suon di test, di selezioni, di mete esistenziali risibili e palesemente alienate. Io continuo a stupirmi che i giovani non mettano a ferro e fuco le loro case, le famiglie, “gli armadi, le chiese, i notai”, come diceva Gaber. E gli psicologi. Purtroppo, è l’amara constatazione, i nuovi sistemi di manipolazione lavorano in profondità, sempre di più, l’idiotizzazione, l’adulterazione precoce funziona. E allora naturalmente se uno sta rivendicando il suo tempo e il suo diritto a essere fino in fondo, è solo un piccolo narcisista figlio dell’impero del consumismo, dei padri assenti e delle passioni tristi. E allora torniamo alle vecchie regole auree dell’autoritarismo, dei padri che prendevano a pedate l’autonomia di pensiero dei loro figli, che imponevano il loro scettro su ogni decisione, sotto la minaccia di castighi, fisici e psichici, innominabili. Torniamo alla buona generazione così rispettosa dell’autorità da non avere neppure più neppure la coscienza che le impedisse di accompagnare ai forni esseri umani loro simili, solo perchè questo gli era stato ordinato (da un capo-padre). Torniamo alla grande generazione di gente che sapeva diventare adulta, che sapeva separarsi dalla capsula affettiva delle famiglie, famiglie da cui separarsi certo era sempre un gesto troppo tardivo. Torniamoci e spazziamo via anche il più piccolo sintomo di giovinezza, quel sintomo che fa della giovinezza la stagione utopica della vita, la stagione “insubordinata”, letteralmente “senza luogo”, non ancora fissata, inchiodata ad un ruolo e alle responsabilità predisposte per essa dal sistema sociale. Quellea responsabilità che infine li piegherà al nulla e alla distruzione di cui i nostri magnifici e progressivi adulti continuano, ad ogni piè sospinto, a offrirci lo spettacolo incomparabile.

domenica 4 novembre 2012

Bullismo...insegnante (uscito su Alfabeta2 di ottobre 2012)


Le comari dell’educazione, e tutto il mondo inchinato ortogonalmente ai piedi delle ontoteologie pedagogiche, si scandalizza e si straccia le vesti di fronte al “bullismo”, al fatto cioè che alcuni scolari, gli arruolati loro malgrado alla disciplina scolastica, assumano comportamenti violenti nei confronti di loro pari e, talora, somma colpa inespiabile, anche nei confronti del “corpo insegnante”. I “bulli” sono la feccia scolastica, che se la prende con i deboli, con gli inermi, e che comunque sembra provare godimento nell’infliggere al fragile, al vulnerabile, addirittura al minorato, pene di ogni tipo, ricatti, perversi riti di sottomissione. Gli infami! Che sorridono… E’ pratica consolidata per la verità, di cui già narrava con dovizia di particolari la letteratura ottocentesca, ma anche dopo, si pensi alle pratiche convittuali (e si vada a rileggere al magnifico giovane Törless…), molto simili a quelle in vigore ancor oggi nelle caserme, vere e proprie procedure di iniziazione, ma anche di pura e gratuita sevizia. Il luogo dove tutto ciò però si dà nella sua forma più pura, sebbene nessuno sia tanto avventato da definirlo “bullismo”, è il carcere. Lì la pratica è tacitamente concessa, una specie di legge laterale ma fondamentale, che non fa che replicare in forma più sistematica ma segreta, la legge implacabile della violenza carceraria. Abusi, torture, violenze di ogni tipo che i più titolati nell’ambiente infliggono ai novellini, o, peggio, ai resistenti, ai dissidenti. E’ un codice, che si deve imparare, violenza che replica la violenza dell’istituzione, come in una sorta di emulazione, o forse sarebbe meglio dire di identificazione (con l’aggressore). E certo essere rinchiusi, segregati, sottoposti a disciplina più o meno feroce di certo non aiuta, non lenisce l’urlo dei sentimenti soffocati, repressi, rigidamente normati o interdetti nettamente. Ogni istituzione produce violenza, non c’è scampo. E’ nel suo dna, è il corrispettivo di reazione che deve prevedere alla sua possente spinta di coercizione. Si ritiene forse che la scuola faccia eccezione a questo quadro edificante? Mi pare davvero difficile da sostenere. La scuola obbliga, sequestra, imprigiona, disciplina, norma, punisce. Anzi, se possibile è un luogo di sofisticatissima amministrazione delle pratiche di sorveglianza e punizione, come già illustri studiosi hanno eloquentemente dimostrato. Nessuno si scandalizzi. Anzi, per il vero nessuno si scandalizza. E’ ovvio che sia così. Come si potrebbe, se non attraverso l’uso di un sofisticato sistema di norme e punizioni, radicato ben oltre le mura scolastiche, peraltro, tenere sotto custodia interi eserciti di bambini e di adolescenti che pullulano di pulsioni, di desideri in continua e virulenta metamorfosi, di autentica energia primigenia? Energia corporea, mentale, emotiva, immaginativa? Eppure il bullo fa problema, o come tale viene propagandato. Sebbene sia una sorta di servomeccanismo perfettamente integrato nel sistema. Senza dubbio in assenza del bullo la violenza imploderebbe. Come farla scaricare? Forse con la guerra? C’è violenza ovunque nelle scuole, nel loro reticolo di corridoi, nelle classi, rigidamente inquadrate, nei libri, nelle sedie, nelle “discipline”, che non a caso si chiamano così. Il bullo rispecchia fedelmente ciò che trova. E’ un sintomo, se si vuole, che la nave va, va con la sua consueta violenza, che domanda a sua volta violenza. La violenza per esempio dell’insensatezza (che si incrementa con l’andar del tempo, fino ai livelli elevatissimi di oggidì, quando la scissione tra la proposta scolastica e l’esperienza del mondo appare sempre più netta e incolmabile), almeno agli occhi di molti scolari che frequentano le sue mura. Per molti di loro ciò che si fa dentro le mura, al di là delle norme cui si deve comunque soggiacere a prescindere, diciamo, non ha il benché minimo senso, senso afferrabile, comprensibile, motivato adeguatamente per le loro attese, per i loro desideri, per le loro capacità. E il bullo in fondo, in maniera certo poco elaborata, non fa che ricevere, elaborare (a suo modo) e rimettere in circolo il coefficiente di violenza che circola nel dispositivo scolastico. Ma, come ripeto, tutto questo, che dovrebbe essere in certo qual senso “pacifico” e, dai tutori di quest’ordine, persino guardato con la cinica benevolenza con cui il capobranco guarda la muta dei più giovani azzuffarsi fino alla sfinimento, fa problema. Ma è anche un potente strumento ideologico, perché con la sua denuncia, si mantiene in vita nell’opinione pubblica quel bisogno di repressione in assenza del quale qualsiasi sistema coercitivo rischierebbe di perdere legittimità. Ciò di cui poco o quasi mai si parla è però, in questo quadro, un altro antico, persistente, massiccio, pervasivo, tipo di violenza con le medesime caratteristiche, che circola nella scuola e in luoghi analoghi: quello che mi piace chiamare il “bullismo” degli insegnanti. E mi si faccia venia se qui insisto su una parte, cospicua ma non certo globale, del mondo insegnante. Tutti noi, chi più chi meno, lo ha veduto, lo ha subito, lo ha vissuto negli anni del sequestro educativo. Come non ricordare lo stillicidio di violenze, di abusi, di sottili punizioni servite dai nostri insegnanti, quelli severi ma anche quelli meno, spesso a spese proprio dei più deboli, dei più vulnerabili, dei più inermi? Faccenda che riempirebbe volumi e volumi di un ipotetico “libro nero” della scuola e che, malgrado i mutamenti di rotta della “pedagogia”, almeno in certe sue frange minoritarie, insiste, in forme sempre nuove, sempre più sofisticate. Forse i colpi di bacchetta, le punizioni corporali, i ceffoni, le tirate di orecchi, gli scappellotti, intesi a punire gli irrequieti, gli irriverenti, i “resistenti”, si sono ridotti a poche eccezioni (forse…). Ma certo persistono e si evolvono invece le violenze verbali, i giudizi sommari, i sarcasmi (il “dark sarcasm” della celeberrima canzone dei Pink Floyd), le invettive che prendono di mira senza distinzione i risultati delle “prove”, quanto gli atteggiamenti, i caratteri fisici, la voce, gli abiti, i gesti, le posture, o persino le qualità intime, il carattere, le potenzialità. Quanta umiliazione si patisce in una scuola, spesso ribadita incessantemente, come una sentenza irrevocabile, quante mortificazioni insostenibili, sulla sciatteria, sul disordine, sull’impreparazione, sul linguaggio, sulla “buona educazione”, perfino sul buon gusto! L’esercizio del potere, del potere brutale, del bullo-insegnante è spesso feroce, anche perché somministrato da chi padroneggia le parole, da chi sceglie termini spesso raffinati per marchiare adeguatamente chi non si adegua, chi non arriva, chi resta indietro. I deboli appunto, i più vulnerabili, talora i disabili. Certo oggi ci pensa la psicologia a marchiare in maniera scientifica i “ritardati” di un tempo. Oggi chi non sa leggere non è più un incapace, un fannullone, un idiota, oggi è un dislessico e come tale abbisogna di supporto, di assistenza. Ma in fondo il sostegno non è anch’esso una forma sottile e indelebile di marchiatura, di umiliazione, di degradazione? Essere destinati al sostegno, nel quadro della disciplina scolastica, e cioè in un luogo che è ancora e sempre un luogo di inculcamento, di conformizzazione e di selezione, non è pur sempre una sottile squalifica? Ma sia. Sia un male minore che la scienza prenda il posto dell’insulto e della punizione (benché alla sua ombra l’indolenza insegnante si rifugi troppo spesso per mascherare le sue incapacità). Non è sufficiente. L’edificio scolastico continua a risuonare di catilinarie, di orazioni violente contro i ribelli, contro i diversi, contro i renitenti. L’umiliazione, spesso integrale, addobbata con tutti i crismi e l’autorevolezza miserabile che un insegnante può avere, risuona ancora nelle aule scolastiche. E non meno in quelle universitarie. Quante volte ancora, agli esami, dovremo sentire la tragicommedia di professori tanto arroganti e inconsapevoli della propria personale e immorale meschinità, da apostrofare gli studenti non congruenti alle loro aspettative con i termini dell’umiliazione, dell’insulto, del sarcasmo, della violenza verbale inscusabile pura e semplice? E’ ora di finirla, di ripulire le aule, le scuole e le università da un genere di violenza che, come se non ci fosse già quella prescritta e manifestata dagli orari, dai banchi, dai corridoi, dalle aule, dai libri, dalle prove e così via, non fa che aumentare oltre ogni livello di sopportazione uno spazio già irrespirabile e che, infine, non può che incrementare a sua volta quel bullismo che forse è anche una forma, poco consapevole, degradata, insostenibile ma comprensibile, di ribellione.

domenica 28 ottobre 2012

Tornare a Illich: far fuori la scuola


Far fuori la scuola.Non è solo uno slogan ma una necessità impellente. Una necessità che può davvero far ruotare il pianeta su sé stesso e ricollocarlo nella giusta orbita di gravitazione. Possiamo ritornare a mettere i piedi sopra il suolo e la testa nel cielo, non il contrario come accade adesso. La scuola è un’impresa delittuosa, l’artefice principale del “sequestro educativo”. E’ il principale strumento al servizio del soffocamento di quelle esperienze meravigliose e insostituibili che si chiamano infanzia e adolescenza. Noi dobbiamo strappare bambini e ragazzi ai reclusori, ai sarcofagi di cemento dove vengono internati per lunghissimi anni fino a che non siano stati trasformati in materia buona solo per far girare gli apparati di potere. Noi dobbiamo salvarli, memori di quanto abbiamo sofferto allora, quando ne fummo anche noi rapiti e inebetiti, e di quanto ineludibilmente si continua a soffrire anche ora, silenziosamente e perlopiù inconsapevolmente, a fronte del funzionamento osceno e apparentemente inarrestabile di quel meccanismo normativo e martirizzante. Occorre restituire ai bambini e ai ragazzi la loro esperienza. Occorre riportarli sulla scena del mondo, della natura, delle strade, dei luoghi dove si vive e si traffica e si impara sul serio. Illich lo ha già detto bene, a suo tempo, restando, come molti guru di superiore saggezza, inascoltato. Ma nel tempo in cui tutte le istituzioni sono sempre più assoldate alle necessità dell’astrazione-scambio, della merce, del profitto e della produzione del nulla, l’esigenza di aprire una breccia nel muro, di aiutarli a sfuggire a un destino di soggiogamento scandaloso, è sempre più inaggirabile. Dobbiamo pensare la presenza di bambini e ragazzi nel mondo come una presenza liberatoria, come il riferimento epocale, il vertice simbolico di una società che si interroga fondamentalmente a partire da questa presenza, accogliendone le domande radicali, in virtù delle quali ripensarsi globalmente. Domanda di spazio, di tempo, di eros, di gioco, di avventura che diventano domanda di vita nella quale tutti possono riconoscersi, oltre qualsiasi ricatto proveniente dal sinistro e demoniaco mondo dell’economia. I bambini e i ragazzi come attori sociali a tutti gli effetti, in grado di negoziare la propria esperienza come esperienza di integrazione nel mondo, nella sua carne e nei suoi saperi, in presenza di un’offerta straripante di occasioni vitali di accesso alle fonti primarie del fare e dell’essere. La compagine sociale può divenire, secondo meccanismi di rotazione e di inserimento virtuosi, la sfera dell’apprendimento vitale, non un luogo separato e separatore. Proprio come aveva suggerito (e profetizzato) Illich, si tratta di un reticolo di possibilità sempre più intrecciate, di cui ognuno deve poter fruire grazie ad un sistema di accesso esteso e articolato. Imparare come esperienza che si radica nella vita concreta, con infiniti possibili punti di irradiazione, insegnanti, guide, maestri, esperti che offrono la propria disponibilità in situazioni ciascuna dotata di autonomia, di localizzazioni specifiche, dove l’unica motivazione a frequentare sia l’interesse, così come deve essere sancita la possibilità di allontanarsi in ogni momento. Il mondo intero può diventare spazio di esperienza, di avventura e di specifica formazione e i ragazzi possono riconquistare il diritto di scegliere un proprio percorso vitale, punteggiato di fasi di ascolto e di fasi di azione, di vuoti e di pieni, di appassionamenti e di abbandoni, di volta in volta fruendo della possibilità di condividere, di discutere i propri piani con pari, con adulti, con chi riterranno meglio. Scegliendo luoghi e possibilità di esercizio dove corpo, mente, anima ed emozioni siano insieme connessi e attivati. Dal circo alla danza, dal teatro alla musica, dall’azione plastica alla scrittura alla lettura, dal calcolo alla pura immaginazione, dalla costruzione alla demolizione, dalla cucina all’amore, dall’esplorazione della natura a quella della città, dalla bottega all’industria, dal laboratorio veterinario ai campi di granturco, dalla palestra alla pista di pattinaggio, secondo nuove geometrie, ritmi, scadenze, una temporalità il cui fulcro sia il libero e protratto esercizio al diritto di provare, di godere, di esaltarsi e di sbagliare, di abbandonare, di perdere e di incontrare. Il mondo che diventa un immenso teatro vitalissimo per l’immersione dei bambini e dei giovani nelle sue maglie e nei suoi labirinti, finalmente sottratti al giogo del sequestro scolastico e all’incorporazione obbligata nei suoi schemi inibenti e mortificanti.

domenica 14 ottobre 2012

(Ritorni): Ego add-io


Sappiamo ormai con discreta sicurezza che la storia non procede diritta e che comunque dovremo abituarci alla convivenza di tempi asincroni, di discrasie e di stratificazioni complesse nelle manifestazioni future dell’umano, il che peraltro ci consentirà di sperimentare forme di vita multiple e contaminate, sia per radicamento, sia per profilo. Sappiamo altresì che una reversione pura e semplice, come forse qualcuno auspica, non è davvero possibile . Non possiamo resuscitare il fantasma di un io dominatore e legislatore, eroico e progressivo, mosso dalle fantasie faustiane e prometeiche di una definitiva padronanza del mondo. E credo, in buona compagnia, che non valga la pena di dolersene. In compagnia di buoni profeti anche non più recenti, da Kafka a Benjamin, da Deleuze a Hillman, possiamo guardare al nuovo panorama contemporaneo, senza per questo dimenticare che ogni epoca è inevitabilmente segnata dalle sue devianze e dai suoi orrori, con maggiore benevolenza e più fiducioso ascolto immaginativo. Questa postmodernità, come è stata definita con buona approssimazione, è un tempo attraversato da fermenti molteplici e spesso in conflitto, da una pluralità di possibili. Ma è certo un tempo che si è lasciato alle spalle, in larga misura, i miti del passato, e anche le sue certezze. Un tempo dove è molto difficile credere in qualcosa di permanente e duraturo. La morte di Dio è oggi un fatto, non è più solo un’intuizione filosofica ma qualcosa che pervade la vita sociale, qualcosa che i giovani trovano come un dato certificato dal funzionamento sociale stesso, dal trionfo definitivo di un’esistenza appiattita sul pragma, dominata dal puro chronos, governata in profondità dal fattore economico ( che, va ricordato, è anche sempre un fattore sperequativo: al narcisismo dell’occidente risponde la lotta per la sopravvivenza di gran parte del mondo condannato ad una povertà non facilmente superabile), dall’astrazione amorale dello scambio e del profitto, ma anche radicata come mai forse lo è stata nella storia dell’occidente, nell’immanenza e nella terrestrità. Questa compresenza, certo drammatica, apre uno scenario che va interrogato con grande radicalità e anche con un certo disincanto, senza nostalgìe e senza ottimismi ingenui. E anche con l’attenzione fenomenologica che un orizzonte davvero inedito manifesta e su cui dunque invita a calibrare letture pronte a porre con forza in discussione categorie, concetti, modelli davvero ormai inservibili. La fine del padre e di Dio apre scenari forse disturbanti ma anche affascinanti. Oggi non è tempo per istituire nuove sorveglianze e punizioni, per una nuova morale sanzionatoria, per famiglie o scuole normative. Oggi occorre probabilmente un altro atteggiamento. Qualcosa che potrebbe provvisoriamente chiamarsi un “rigore della debolezza”, un’attenzione partecipativa alla fluidità delle forme di vita e alla loro proliferazione molteplice e reticolare, alla loro indole anche eccessiva e trasgressiva. Un’accoglienza, una ricettività, una conversione conoscitiva non giudicante, ricca di immaginazione, mobile, all’insegna di un approccio al reale che sappia avvertire l’avvento di una segnatura epistemologica aperta, contraddittoriale, tensionale. Al posto del vecchio io angosciato e paranoico, si fa strada forse un “io poetico”, minore, immaginale, che accetta di “divenire infante, animale, stella”, come voleva Deleuze. Non c’è più posto per il vecchio soggetto platonico che divide il giorno dalla notte e le idee eterne dalla materia corruttibile, e neanche per quello già più timidamente arroccato nel suo schematismo trascendentale dell’orologiaio di Konigsberg. Men che meno per lo spirito autocomprendente di Hegel, per il suo inveramento storico nella potenza di un Occidente arrogante e imperialista, per quanto consapevole del “negativo” che lo attanaglia. E neppure probabilmente per il ritorno della conversazione felice del giardino epicureo o del duro cammino di scoperta di sé socratico. Forse la nostra modernità ha sviluppato una bizzarra sopravvalutazione dell’individualità umana, un’inflazione, di cui i grandi romanzi di formazione tra la fine dell’800 e l’inizio del 900 hanno portato impressa l’indelebeile traccia. Un individuo ampio, esteso, profondo, allagato dalla molteplicità dei suoi interessi e della sua cultura, attorniato dalla montagna dei suoi ricordi e delle sue imprese, il tutto cumulantesi in profili inconfondibili, insostituibili, irripetibili. Il che ha reso all’individuo stesso tanto ingrato il cedere all’oblìo, alla dissoluzione, al tramontare. Individui talmente affamati di vita da rendere vertiginosa la piramide iridescente delle proprie vite. A quest’immaginario aristocratico e romantico, inevitabilmente sopraffatto da una sensibilità tragica e malinconica, la contemporaneità oppone la sciatteria apparente di una vita senza traccia, fungibile, affondata nella serialità e nella mescolanza. Una vita però forse meglio integrata nella totalità di un mondo più interconnesso, più integrato, per paradosso più simile a quell’universo premoderno in cui l’affermazione di sé non era una destinazione desiderabile, era peccato o manifestazione di colpevole arroganza. Oggi è il tempo del flusso e della rete, delle intensità e di una materia inafferrabile, come ci rivela giorno dopo giorno la ricerca microfisica. L’uomo contemporaneo, ciò che sta venendo alla luce, è non più il fulcro di un organismo ben regolato dalle leggi dell’identità, quel microcosmo capace di riassumere in sé l’intera costellazione deglle analogie cosmiche, né l’identità fondata sulla presenza e sul discorso che ha occupato la scena di tutta la metafisica occidentale. Non vi sono più Sfingi da sfidare all’orizzonte e forse neppure più uno specchio onnipotente cui attribuire tutta l’estraneità del proprio volto. Semmai campi d’insistenza, flussi di energia e di forze che si dissipano e che si attraversano. L’io di oggi è un io diffuso, un io “quantico”, ambiguo nella sua stessa struttura materiale, onda e particella, vivo e morto come il gatto di Schroedinger, partecipe delle molteplici influenze che lo disseminano e che lo trasformano, infinitamente sensibile, un io immaginale, come piace definirlo a James Hillman, notturno e infante, parente del sogno, corpo risonante di una magmatica armonia e disarmonia su cui prova continuamente e insensibilmente ad accordarsi. Più figlio di Proteo e della sua sovrana cangianza che di Apollo e di Teseo, più dionisiaco e orfico che marziale o saturnino, l’io di oggi oscilla tra materia e immateriale, al confine tra il virtuale e il reale, in una zona intermedia che ha i caratteri della flessibilità e dell’iridescenza e che, forse, sta sviluppando una nuova corporeità, più sottile, una carnalità ipersensibile capace , nel tempo, di soggiornare nel caos, nel divenire, nel mutamento certo molto meglio di quel vecchio personaggio donchisciottesco che ambiva a soggiogare la terra. Forse più cinico e strumentale, talvolta, ma anche politeista e non letterale, l’io di oggi e domani sembra bisognoso di sfuggire alle vecchie ipoteche totalizzanti e integratrici, a tutti i maiuscoli dettati dalle metafisiche che lo hanno preceduto. Non più l’io freudiano assediato dall’angoscia, non certo l’io inflazionato di D-io, ma nemmeno l’io dell’od-io e delle grandi passioni, neppure l’io di m-io, l’io del possesso e del domin-io. Un io senza metafisiche, io microfisico e pulviscolare, io desinenza, suffisso mobile e musicale, l’io di obl-io, di desider-io, di add-io.

martedì 2 ottobre 2012

Farsi una controeducazione (1)


L’evidenza è che il “bastardo educante” è ovunque. Così è sempre stato ma ora è peggio. Guardati in giro. Tu sei il frutto di tutto quello che si trova intorno a te, immobile o in divenire. Guarda i tuoi muri e i tuoi manifesti, guarda le tue scarpe abbandonate sul pavimento. Guarda il colore alle pareti, la stoffa sulle poltrone, la materia dei pavimenti, guarda la tua libreria ma non guardare quello che c’è nei libri, guarda i loro volti, le loro dimensioni, la loro materia. Tutto questo ti fa. Eccome. Per non parlare delle colonie di genitori che spuntano ovunque, mascherati da fratelli, gemelli, maestri, parenti, imbonitori. Poi c’è la pletora degli orifizi, degli occhi che si aprono sull’etere: pozzi da cui sbuca la vita diminuita. Ne sei circondato, li tieni in mano, ti si rovesciano addosso. Tu sei il loro bersaglio e, a volte, il loro monitore. Ma il circuito è stracarico. Ti sei affollato davanti alla tv, e sei stato colpito. Qualche volta hai goduto ma, perlopiù, sei caduto nel nulla. Così girano le cose: nelle strade, ad alta velocità, e non sono più innocue. La loro velocità ti modella, come può fare un grosso tornio su una pellicola di rame. Tu sei rame sottile, comunque con un certo potenziale. Potenza di superamento. Ma tutto congiura a immobilizzarti, a renderti un commestibile per mascelle sempre in moto. Lo vedi: le tue scelte. Anzitutto neppure le parole. Le hai già in bocca, scorrono fuori e tu non le sai. Ne avverti il sapore? Dubito: sono insapori, al tuo gusto. E invece hanno veleno da vendere. Parole che ti abusano impercepibilmente e con cui tu ammorbi un uditorio che non ti ascolta. Quando ti ascolta è per una parola nuova, che tu però non hai. Avverti i tuoi gesti? Sono preconfezionati. Non sai dire dove li hai comprati perché ti si sono attorcigliati addosso come serpenti, mentre come un sonnambulo percorrevi i corridoi bui della tua vita assediata. Non sei un nittalope, sei un cieco. In un vicolo cieco. Il viottolo dello stordimento. Non sai cosa maneggi, cosa mangi, cosa tocchi: tutto ti è estraneo e non ne conosci la sorgente. Sempre che una sorgente ci sia. Non c’è modo di sbarazzarsi della bava di questo mondo fittizio, mondo ortopedico che ti calza addosso come una cintura di castità e ti toglie l’aria. Il tuo deretano sa distinguere una poltrona o un coccio di vetro? C’è di che dubitarne. Sei un pezzo di anestesia allegramente in circolazione, beotamente ignaro. Come puoi fabbricarti anticorpi per non essere saccheggiato tutto il giorno dalla tua stessa inettitudine? Per non essere la vittima della tua sbadataggine mutuata nell’assenza? Compito duro che chiede duro tirocinio. Non si costruisce un’attenzione intorno a una distrazione radicale. Bisogna fare un buco nella muraglia che ti circonda, quella che non vedi. E poi annusare. L’olfatto è sempre un buon indicatore, ad averlo ancora vivo. Una regola dell’autocontroeducazione è: cura l’olfatto. Allenati, con quello che hai intorno. All’inizio non sentirai nulla, solo fantasmi di giudizi troppo banali per essere attendibili: sento odore di polvere, sento odore di cibo, sento odore di cesso. Tutto sbagliato, tutto da rifare. E tu lo sai bene. Ognuno di questi coaguli di segni è un cosmo di fili incandescenti pronti a colpire le tue vibrisse ma il tuo naso è davvero troppo piccolo per albergarli anche solo in parte. Allora: matura il naso. Crescilo, non lasciarlo vagabondare come un pinguino cieco in mezzo alla brughiera di notte. Installalo al centro delle tue cure. Fanne un’antenna ad alta portata. Costringilo a frugare la foresta corallina di spruzzi odorosi che si avviluppa a tutta intera la materia che ti circonda. Per ottenere ciò, però, piano piano, dovrai dissolverti. Non esserci con i brontolii sordi di quella crisalide unta che chiami io. Fai esercizio di non-io. E il primo esercizio è: annusa.
Come proteggersi dall’assalto a fauci spalancate della polluzione di orifizi inutili, quella infausta pletora di schermi dalla quale siamo assediati? Ritrovando la gravitazione. Sii un corpo diffuso ma prima: sii corpo. Come puoi distinguere dentro un buco di vetro di pochi millimetri senza prima aver allenato il corpo all’autoascultazione profonda? Cosa fai quando la nube dell’insoddisfazione ti avvelena come il gas nervino delle tue stesse bugie? Come fai ad accorgerti se sei in piena centrifuga di panico o se il petto ti insuffla miele rovente fino all’inguine? Non è facile. Spesso patisci fingendoti goduto. Lo dice la tua pancia, in contrazione acefala. Lo dice il disegno che compili con l’alluce sulla superficie dell’aria come il miglior pittore senza braccia. Lo dicono i tuoi denti in stridore permanente mentre nella mente ospiti il condominio di scene incorporate in apnea dal tuo ultimo dispositivo di iperconnessione. Candido subzoico che procedi ignaro verso l’autodistruzione, credimi, devi allenare il corpo. Fargli l’addestramento a reclamare il giusto spazio nell’economia della tua saturazione inesausta. Allenare il corpo significa accartocciarsi come un grande organo senziente su di lui, e poi sopra quello di tutto il resto. Impara a sentire come sta il tuo radio, cosa dice la tua ipofisi, come vibra quella maledetta staffa quando le propini le frustate delle tue manie metalliche. E poi impara a indagare l’opinione del tuo esofago quando inghiotti le consuete chimere di proteine senza averle tradotte in stupore e sapore. Poi dilata quelle pupille intasate: indaga la fioritura di fuliggine delle tue pareti, sorvegliane l’odore. Resta a lungo sulla vagina dei tuoi fiori, finchè non rivela la chiave esatta della sua combinazione cromatica. Come potrai decifrare l’occhio interminabile della tua beneamata senza un tale addestramento, o il sapore dei suoi ginocchi, se non l’avrai sperimentato in proprio, a lungo leccando e tastando con le papille il dorso fragile di una prugna, senza aver intinto la lingua nel mosto d’uva cotto? Hai perduto la temeraria confidenza di bambino con l’immersiva bellezza del gusto sabbioso e acuto della ghiaia, con le poltiglie odorose di bava, con i rossetti e lo sterco che ancora non istigava il tuo grillo parlante a rimuovere tutto ciò che sa di sudicio, per indirizzarlo al limbo dei diseredati? Sii più sapiente, altrimenti non saprai manovrare il piacere dei cibi e dei corpi, delle carezze di sole e delle piogge abbondanti. Non saprai distinguere la storia di maneggi impressa sopra il libro che stai leggendo e nemmeno la nebbia sapida delle serate in fondo a un’osteria ancora impregnata di cotture, di fritture, di effluvi speziati. E dunque, allargando, è questa la seconda prescrizione: amplifica il tuo corpo, per l’ampio e per lo spesso, addensane la trama e stendilo come una pellicola sensibile sopra il corpo del mondo, fino a che non faccia gloriosamente tutt’uno con esso. Poi, quasi infine, ma non c’è infine all’apprendimento delle cosce calde del mondo, del suo seno giovanile e immensamente morbido. Ad apprenderne i linguaggi, le forme, la materia mobile e incatturabile. Eppure infinitamente godibile.
Impara l’immaginazione. A immaginare ci vuole orecchio, e tatto, e gusto, e olfatto, prima ancora che gli occhi. L’immaginazione non è una faccenda di immagini visive: dietro l’immaginazione c’è la fisiologia delle cose, l’avvertimento delle risonanze, un udito così sottile che percepisce il brontolio sordo degli stomi sulle foglie, quando l’albero dorme. Immaginare è perforare ancora una volta il busto di piombo che l’anestesia diffusa ha piantato sopra la pelle della vita. Immaginare come diviene, quella vita, dove attinge i suoi spasmi, come pulsa, come si irradia. Non c’è immaginazione che cavalchi nel vuoto. L’immaginazione non è saturazione di un buco. L’immaginazione è trapianto del fiore della tua sensibilità proprio in mezzo alle correnti profumate che trattengono la terra nella sua rotta, perché non ceda. Immaginazione è cogliere la pelle del tuo amore come l’alfabeto stellare e, al tempo stesso, come la propagazione di luce che corre nelle fibre di un prato. Immaginazione non è sturare il lavandino delle tue inestinguibili manie di dominio, piuttosto è abbandono, dissolvimento, cedimento all’assalto innumerabile di quel pulviscolo che prima incatenavi alla macina di mulino di un’unica parola. Immaginazione è ancoraggio e poi flusso, perdita e improvviso ritrovamento, pulsazione di istanti in una scia instabile ma persistente. Non c’è immaginazione senza sensibilità, senza quel lungo e paziente ascolto degli alfabeti sommersi dei corpi, corpi viventi minerali e stellari, semoventi e immobili, sonori e danzanti, gonfi di umori, rivestiti di tegumenti, palpabili, inalabili, copulabili. Immaginati in piena ardente fornicazione con la grande mammella terrestre, la tua pelle ipersensibile esposta alle mille vellicazioni della piovra vegetale, allo scorrimento penetrante del vento, al fragore del respiro del tuo amore, quando gode, quando sorride. Immaginare fino in fondo, lungo le superfici, minuziosamente, pienamente, intensamente. Per fare sapore, per far denso il silenzio, per annegare il mare. Esausti, avremo acceso le prime aperture nella barriera che ci ottunde e ci depriva. Organizza i gesti della tua personale, ormonale, aromale controeducazione!

lunedì 24 settembre 2012

Enjoy your lesson (2)


Caro studente che vai a lezione carco di libri e parco di speranze, che cosa puoi fare tu perché quel teatro dove si consuma il tuo “sequestro educativo” diventi una possibile fonte di godimento? E non di polverizzazione della tua pazienza e di triturazione delle tue fantasie? Anzitutto puoi mettere in scena il tuo desiderio, postularlo, manifestarlo. Non andare lì come si va dal dentista o a cena dai parenti, annoiato e con quel senso di minaccia che effettivamente la scuola trasmette (già a partire dai suoi muri gaiamente addobbati, dalle sedie lussuriose e dagli arredi pieni di buon gusto, si fa per dire). Vacci con l’eccitazione e il pungiculo di un appuntamento. Certo, so che ti vai a infilare dentro un’aula grigia con compagni dai calzini marroni che tu non hai scelto. Questo è vero ma prova a ribaltarlo. Fai una simulazione, credici. Fatti bello/a, datti una profumata, infilati una sciarpa sgargiante che calamiti l’attenzione. Porta la tua faccia più entusiasta e con essa introduciti nell’aula che sa di candeggina con l’aria di chi chiede: è qui la festa? Porta il tuo corpo dentro l’aula, con il suo flessuoso andamento animale, porta la tua giovinezza, non lasciarla fuori dalla porta, non esibire solo la tua depressione e la tua noia. Di tanto in tanto sorridi alla professoressa di matematica, portale dei fiori. Porta dei fiori anche alle tue compagne o ai tuoi compagni. Arriva con la ferocia del desiderio di far saltare le righe. Proponi sempre qualcosa, bacia tutti. Abbraccia il professore, ne sarà elettrizzato, resterà senza fiato. Vigila soprattutto. Non permettere che stritolino il sapere dentro la morsa dei loro sussidiari. Porta libricini odorosi, gonfi di foglie e di vecchie cartoline. Falli girare. Porta del cibo succulento, non solo per te ma per fare festa. Chiama gli altri ad esigere il proprio tempo, a stanare la cultura fino a che non inizia a perforare i muri. Reclama di uscire, di vedere i luoghi, esplorare i cantieri, entrare nelle botteghe, decifrare i misteri delle pasticcerie, fotografare e filmare il mondo e ritrovarlo solo dopo dentro quell’aula che si sarà trasformata in un laboratorio alchemico prufumato di ambra e di bergamotto. Chiedi che ci siano sensi e colore dappertutto. Quando vuoi azzittire il professore, fai partire una musica dolcissima dal tuo amplificatore personale. E danza. Avvicinati ai compagni, alle compagne, con fare seducente, e accendi i loro ormoni. Perché no? Se poi otterrai una sanzione, sarà stato per amore. Una nota disciplinare sarà una lieta pena per questo atto bellissimo di “terrorismo poetico”. Sei tu che puoi impedire lo scempio del sapere, la sua mortificazione e, con essa, la mortificazione del tuo corpo e del corpo senziente che formi con i tuoi compagni. Riscattali con la rivendicazione dell’appropriazione profonda delle materie, incarnata in azioni sceniche, in recitazione, in corpo a corpo con gli oggetti ancora vivi e vivibili. Sii manifestazione vivente a partire da te stesso/a, nei tuoi vestiti, nella tua voce, nei tuoi gesti, sii desiderio e poesia in azione. Non permettere a nessuno di abbrutirti con la mediocrità di una lezione malpreparata, con testi scolastici pachidermici e inutilizzabili, con lo stridore dei gessi sulle lavagne o con i rituali irricevibili dell’interrogazione e del compito in classe. Chiedi che non si valuti, ma che si restituisca, si baratti il sapere con un ringraziamento, quando lo merita. Chiedi semmai che si valutino solo i comportamenti che scaturiscono da un coinvolgimento profondo, che si valuti solo su richiesta, di chi impara, non del sistema paranoide che soffoca e inchioda ogni cosa ancora in vita. Imponi l’esperienza, le storie, la foresta dei simboli e le stratificazioni dell’immaginario, chiedi materia palpitante, odorifera, palpabile, gustabile, amabile. Installa la tua inequivocabile presenza fragrante e immensa, irriducibile, al centro di uno spazio che può diventare scrigno di incandescenze, firmamento scintillante, oltrenero sottomarino, folto boschivo, pioggia fitta e inebriante, labirinto sotterraneo, bagno di fango tiepido, fonte di acqua luminosa e carezzevole. Sii l’attore principale, rifiutati, ostacola l’idiotizzazione perseguita da chi entra in aula solo per timbrare il suo destino di cùlculo del sistema. Lo puoi fare con la tua energia ancora intatta. Ribalta i ruoli, spruzza il tuo desiderio come un gatto nero e affamato sulle pareti e sui banchi, esigi l’intensità, la densità, gli orizzonti infiniti!

lunedì 17 settembre 2012

Enjoy your lesson! (1)


L’unico comandamento è: goditela! Goditela la tua lezione, goditela insieme a loro, naturalmente. La lezione, che non è certo il massimo, in termini di apprendimento, ben inteso, è però un potenziale di febbre feconda, se la lavori bene, come una pasta in rigogliosa lievitazione. Allora, anzitutto tu devi godere. Simultaneamente, devi far godere loro. Il che poi significa, fatti due più due, che, se va bene, ve la siete goduta tutti sebbene non necessariamente allo stesso modo. E’ vero, fare una buona lezione ha qualcosa a che fare con il fare l’amore, però non è esattamente il trionfo della reciprocità. Diciamo che è un massaggio erotico che tu pratichi a loro e che, se va a buon fine, ti ritorna in forma di piacere diffuso… Veniamo ai fatti: intanto tu ti sei preparato. O meglio, hai preparato ogni cosa. L’errore più grossolano e fatale in cui puoi incappare (e troppo spesso ci incappi) è fare quello che loro si aspettano che tu faccia. Ogni tuo gesto prevedibile sarà un declino, più o meno abissale, della loro attenzione (loro, i tuoi pupilli, la carne umana che respira e trasuda nella sala dei desideri). Non tradirli. In qualche modo puoi, ogni volta, spiazzarli un poco, persino con la ripetizione (di un piccolo rituale per esempio). Ricordati che insegnare è una pratica festiva, non feriale. Ogni giorno è un appuntamento, una possibilità di vita, di piacere, non una condanna, una crocifissione sull’altare delle regole, della noia e della disciplina. Tu sei il sacerdote, il gran mogol, approfittane. Quindi, innanzitutto, tu hai apparecchiato ogni cosa, hai pensato, ricercato, studiato, organizzato, sistemato ogni cosa, prima. Cosa si aspettano loro? Che tu entri e con fare svogliato inizi a parlare di mestizie sarcofagiche e che gli propini il solito polpo morto da troppe ore. Evitalo. Invece entra e sviali (detournement, s’il vous plait), vai fuori binario. Sono cose che vanno curate bene fin dalla prima volta. Anzi, la prima volta è essenziale, fatidica direi. La prima volta è davvero “la prima volta”, uno sverginamento, per essere più espliciti. Pensa al corpo giovane e intatto dei tuoi allievi, un corpo intero, la prima volta, ancora intatto, intatto per te, naturalmente, che altri ci hanno già messo le loro mani addosso, purtroppo, lasciandolo piagato e svuotato (e allora a te toccherà la respirazione bocca a bocca). Un corpo che può respirare, mugolare, squittire, brontolare come un grande mammifero, morbido e odoroso (anche di odori forti e piccanti, si sa, sono giovani). Occorre lavorarlo con cura. Entra e non andare subito a sederti alla cattedra, se c’è qualcosa di simile ( e c’è, e c’è …). Fai gesti precisi, riconoscibili. Per esempio puoi modificare la luce, abbassala, cerca di creare dell’ombra, per avere più intimità, induci la “tua” atmosfera, in sintonìa con quello che stai per proporre. Oppure fai partire una musica, o anche le due cose in successione. O anche inizia a leggere un brano suggestivo, che sappia attrarre l’attenzione, senza preamboli, vai subito a toccare il nervo sensibile. Mostra delle immagini, un filmato, senza introduzione, senza attutire il colpo, quale che sia: una piccola recitazione, se lo sai fare, o uno spostamento del tuo posto, trascinando la tua sedia altrove, o un tappeto, perché no? Crea una se-duzione, chiamali a te, con un gesto che li spiazzi. Ci sono migliaia di possibili invenzioni, occorre solo che ti sforzi di immaginare un ingresso, un accesso allo spazio specifico su cui poi innesterai la tua lezione, la tua lezione “speciale”. Naturalmente ogni cosa che fai deve essere calibrata sulla “loro” sensibilità, la devi immaginare, devi spostarti dentro le loro crisalidi, dentro le loro anime. Non puoi leggergli una poesia “impegnata” di Giancarlo Majorino solo perché a te piace tanto, non puoi fargli ascoltare i campanelli dei monaci tibetani perché a te danno i brividi. Puoi arrivarci, ma sempre per gradi. Se poi va bene, otterrai un momento di altissima intensità. Avrai tutta la loro attenzione. Un’attenzione dalle molteplici sfumature, curiosità, diffidenza, speranza, resistenza ma comunque attenzione. Attenzione allo stato purissimo. E questo è incomparabile. E ti fa sentire come un dio. Un dio minore ma prossimo a prendere il volo.
La tua benzina è l’attenzione. Non farti scrupoli, lasciati blandire dalle malìe della seduzione. Lungi dal farti condizionare dall’ascetismo predicato dai barbogi pedagogici, punta sulla seduzione, rendi affascinanti i tuoi argomenti, i tuoi documenti, te stesso. Vai all’appuntamento con l’attenzione profumata dei tuoi allievi agghindato come una baiadera, non perdere l’unico motivo davvero vitale di una “lezione”. Salvala prima che si tramuti in irrimediabile petofanìa, in sodomia pneumatica. Devi inventare percorsi inediti, arrivare alle scienze passando per la letteratura, che so una lezione di botanica attraverso le poesie sui fiori di Rilke o certi quadri della O’Keeffe. Arrivare alla matematica attraverso la musica, indovinando le formule di certi passaggi sonori di Bach o di Frank Zappa ma insistendo sull’ascolto perché i numeri diventino materia godibile, oppure esordendo dal film della biografia di un celebre matematico (come in A beautiful mind di Howard o quello su Galois) o da uno che ponga problemi matematici (perché non Il cubo di Sekula?), o anche leggendo brani tratti dai diari di un impervio ricercatore, fiammeggianti, quelli fiammeggianti, non quelli sideranti. Osa i passaggi bizzarri e imprevedibili: fai preparare e recitare, attraverso ricerche e testi minori, il Risorgimento italiano, la Comune di Parigi, l’assassinio di Marat nella versione di Peter Weiss. Coltiva testi stuzzicanti per sporcare i fasti di un’epica consunta, accecali con immagini dell’arte contemporanea carica di materia e di umori o con la violenza carnale di Rubens, trapunta le tue lezioni con la musica e le registrazioni di celebri momenti scenici. Interrompi i passaggi barbosi delle tue spiegazioni (quelle esclusivamente necessarie) con un’improvvisa sequenza, appropriata, tratta da una commedia televisiva ironica e iconoclasta, da un varietà, da un film comico. Non temere di usare le immagini, i video, le clip. Oggi c’è a tua disposizione non certo l’archivio dei documentari pensati per la scuola, non certo il tremendo didattismo suicida dell’ “educational” ma l’intero giacimento ricco di pepite dell’immaginario accumulato nei secoli (specie negli ultimi decenni, nei quali è esploso). E’ con esso che puoi, seguendo un percorso non mortificato dalle introduzioni storico-critiche, dai tuoi balbettamenti prolegomenici, irrompere con la polpa vitale della cultura persino dentro l’oscena cupezza di un’aula scolastica! Ricorda: a scuola non si studia e si insegna per un dopo di cui ancora nessuno può misurare la benché minima consistenza. A scuola si vive ora e qui un’esperienza indimenticabile, le cui trame sono fondamentalmente nelle tua mani. Ogni tua lezione è un’occasione strepitosa per vivere subito nell’immenso teatro del sapere, tuffandotici anima e corpo insieme ai tuoi allievi, partner di un esercizio erotico incomparabile, quello di scoprire, esplorare, penetrare e farsi penetrare dalla cultura.

domenica 9 settembre 2012

Contro il feticismo del lavoro


Il lavoro è il grande imperativo. Esaurita e vituperata oltre ogni limite (anche da molti dei suoi protagonisti ahimè) la controcultura degli anni ’60 e ’70, nessuno osa più criticare quello che a buon diritto si può considerare il ritrovato e unanimemente plaudito mito del lavoro, anzi il feticismo del lavoro. Tutti vogliono lavorare (anche nelle condizioni di sfruttamento più spaventose), la mancanza di lavoro precipita in uno stato di prostrazione con aggiunta di senso di colpa e frustrazione che ha pochi rivali. Non solo: quando lo si ha, se ne vuole di più, la gara a riempire la propria agenda di impegni è, senza ombra di dubbio, una delle gare più spietate e brutali. La sbirciatina che il collega getta sulla tua agenda, sperando che si riveli semivuota, è inevitabile. Per quanto mi riguarda, concedo molte soddisfazioni ai colleghi. E temo di non riuscire a far loro capire che, per me, si tratta di un motivo di vanto. Questa è la situazione, su cui bivaccano i manipoli del fascismo culturale che promuovono la nostra vita all’incontrario, nella quale le esigenze dell’economia e la gogna del lavoro sono considerati gli unici parametri in base ai quali regolarsi. Chi non ha lavoro non è solo un disoccupato o inoccupato ma anche un reietto. Lavorare non “stanca” più, lavorare è un imperativo etico, sociale e persino estetico. Il lavoro rende liberi e belli. Evviva. Il lavoro è una religione, come dice bene Antonio Saccoccio in un suo recente libro. Certo, qualcuno arcignamente mi obietterà che criticare il lavoro, in modo poi così generico, è non solo stantìo, ma anche ingiusto, considerato che senza lavoro non si campa. Considerato che il lavoro fornisce l’autonomia, è il fondamento della “cittadinanza”. Vero. Ma senza critica, una critica serrata, spietata, anche solo la remota possibilità che si possa intravedere all’orizzonte una società dove il lavoro, quello “alienato”, si intende, possa ridursi, sarà sempre più inverosimile. Certo, una quota di lavoro alienato dovrà, e a giusto titolo, essere distribuita come impegno sociale, a carico di tutti (pena l’essere non socialmente legittimati, come spiegava bene André Gorz), ma è del tutto chiaro che il lavoro umano è sempre meno necessario e che per renderlo tale occorre continuamente inventarlo o inventare crisi che simulino la sua mancanza: il lavoro, sembra incredibile doverlo dire ancora, lo fanno ormai in larga misura le macchine. Ed è del tutto necessario arginare quel mostro divoratore che è l’imperativo della “crescita”, su cui è fondata in larga misura la produzione di merci e lavoro del tutto superflui. Se le cose si allineassero con la costellazione dei nostri bisogni più autentici, al centro delle nostre preoccupazioni dovrebbe esserci un ben altro tipo di lavoro, lavoro creativo, autodeterminato. Di quello, un lavoro non retribuito, gratuito, frutto della pura volontà di creare, di agire -stante la congiuntura sulle cui logiche fittizie agisce l’ideologia di questo decrepito capitalismo-, si parla invece sempre pochissimo. Il lavoro lavoro, quello che garantisce ricavi ai “padroni”, quello invece continua a ricattarci, sottomettendoci alle sue sempre più raffinate tecniche di sfruttamento, di soggiogamento, di condizionamento profondo. Ma soprattutto al furto sistematico delle nostre vite e del nostro tempo che, come noto (ai più lucidi), è l’unica autentica ricchezza cui si possa seriamente aspirare. Tempo da scegliere e da dedicare a ciò che si ama, che ci appassiona, che ci soddisfa. Solo pochissimi privilegiati (a spese degli altri), o vagabondi e obiettori consapevoli spesso emarginati (sotto osservazione e pronti ad essere “recuperati” dai servizi sociali), oggi hanno la possibilità di esercitare la libertà di disporre di gran parte del proprio tempo. Tutti gli altri sono schiavi, schiavi anzitutto dell’ideologia dominante ma poi però drammaticamente di sé stessi, dei propri complessi, della propria avidità e della terribile congiuntura che li vede incapaci di reggere un pensiero che non sia già in partenza castrato dalle ovvietà del conformismo globale. Lavorare meno, lavorare tutti, lavorare meglio. E poi: non lavorare. Occorre ancora una volta rivolgersi a chi, da secoli, e specie da quando il lavoro, con l’avvento della civiltà industriale, è diventato quello che è oggi, cioè, paradossalmente, un valore (mentre non lo è stato pressocchè mai in alcuna altra civiltà compresa la nostra, almeno fino a che il fare non è stato sottoposto alla legge infernale del profitto), lotta contro il lavoro, per spezzare il suo rinato feticismo e per esigere ciò che ci è dovuto: il nostro tempo, la nostra libertà, il nostro desiderio. Da Gorz a Vaneigem, da Hakim Bey a Marcuse a Russell a Illich, da Kropotkin al “Gruppo Krisis”, da Nietzsche a Lafargue al recente Philippe Godard, occorre dire basta al culto del lavoro e rivendicare ancora una volta e poi ancora il “tempo liberato”, una (anti)pedagogia del “tempo liberato” che si muova violentemente in antitesi con l’ideologia massiccia che, dalle organizzazioni sociali alle imprese, alle istituzioni, ai ministeri, ci vuole inchiodare alla ruota del supplizio che da sempre, e non a caso, si chiama lavoro. Un tempo liberato che non emargini, tempo di tutti, tempo di vita, tempo di integrazione, tempo festivo, tempo di intense passioni. Occorre rovesciare un mondo fondato sulle esigenze dell’economia e sostituirlo, al più presto, con un mondo fondato sul desiderio, il desiderio irrinunciabile di riappropriazione, di godimento del proprio tempo. “si sente oggi che il lavoro come tale costituisce la migliore polizia e tiene ciascuno a freno e riesce a impedire validamente il potenziarsi della ragione, della cupidità, del desiderio d’indipendenza. Esso logora straordinariamente una gran quantità d’energia nervosa, e la sottrae al riflettere, allo scervellarsi, al sognare, al preoccuparsi, all’ amare, all’odiare” (F.Nietzsche)

venerdì 3 agosto 2012

La scure sui fuori corso (dal Sinistro Profumo)

Il nostro ministro dal nome tanto aggraziato agita di codesti sinistri tempi la scure sopra la stirpe della quale mi sento un orgoglioso rappresentante, color che vanno “fuori corso”. Intendendo per costoro quegli studenti negligenti e sciatti, tardivi ed erranti che arrivano a laurearsi non per tempo ma “nel” tempo. Al di là del fin troppo ovvio paradosso di una società, di cui il profumante ministro è caricaturale portabandiera, che sottrae posti di lavoro e vuole però buttare nel vuoto sempre più giovani revocandone il lussuoso diritto a impigrirsi all’università (una volta considerata, e non a torto, per ragioni similari, un’ “area di parcheggio”), la faccenda appare fetida e sulfurea. Con malizia marxiana se ne potrebbe dedurre ma è fin troppo ovvio, che si voglia più disperati in circolazione, da cui trarre il duplice profitto di far pressione sugli occupati affinché si concedano ai peggiori ricatti e ai non occupati perché siano disposti a vendersi anche alle condizioni più offensive e mortificanti. Ma questo è fin troppo palese. Vorrei però concentrarmi sull’odiosità speciale di un tal gesto, di cui, tolta la suddetta, non si vede altra motivazione sensata. Perché infierire sull’eterno studente di cechoviana memoria? Forse per invidia, l’invidia di chi giustamente vi percepisce il sottile gusto del rinvio, del rallentamento, del persistere in posizione di godimento (diciamo in termini psicoanalitici) mentre tutto congiurerebbe a volerlo al più presto prono e sottomesso allo sfruttamento di qualche invertebrato in zona di potere? Oppure vi è una preoccupazione più “morale”, quella di chi vede nel “fuori corso” l’indolenza del privilegiato, mantenuto dalla famiglia mentre diserta il compito sovrano del contributo al reddito sociale, e dunque esige che anch’egli sia rimesso al giusto cilicio degli altri, i meno provvisti dal destino che, volenti o nolenti, debbono sbrigarsi per trarre d’impiccio sé medesimi e i loro famigliari che sudano sangue per mantenerli colà? Dubito che vi sia tanta caritatevole propensione nei nostri conducatori espertissimi. (E poi, non si dimentichi che molti dei ritardanti, per esser davvero morali, vanno ascritti alla specie infelicissima del lavorator-studente e dunque, a voler essere pietosi, li si dovrebbe semmai incoraggiare e sostenere…) Dolce fuori corso , svagato e vagabondo, specie di giovine selvatico e ascensionale, preso in derive e in tragitti obliqui, quanto ti amo! Per te voglio spezzare una lancia, memore di esserlo stato e ancora avvertendo in me lo spirito di quella vocazione d’ enfant gâté che tuttavia ospita il dubbio, l’esitazione, lo stile ellittico verso la decisione. Alla perfida omelia che prescrive d’esser ratti, lineari e percussivi acciocchè si addivenisca presto all’inculcamento sovrano e ci si arruoli nei destini progressivi della gran macchina di produzione, oppongo, e per motivi diversi, il cammino vago e interrogante del “fuori corso”, puer aeternus dall’indolenza meditativa e sorniona, dall’intelligenza quieta e ricca d’umore.

Allo studente pennellato sulle esigenze dell’istituzione e dei suoi stakeholder interessati, a quello studento diritto, puntuale, insopportabilmente diligente, preferisco di gran lunga l’inoperoso ma pensante, colui che esercita il diritto a fermarsi, financo a provare altre strade, a perdersi in rivoli d’esperienza. Ritardare l’esito significa sondare campi, interporre sentieri inusitati, provare molto e molto abbandonare. Ricordo che nei lunghi anni del mio perdurare in età universitaria ebbi diverse vite, saggiai il teatro, misurai lo sforzo dell’impegno politico, mi ci inabissai ed entusiasmai, fui educatore in luoghi di pura utopia e di rancide periferie, dormii, lessi, pensai, amoreggiai. Età magnifica, dalle mille porte, benché già allora, seppur in tempi men vieti e men cinici, bussava l’orrenda parenesi a farsi repentinamente prodighi del proprio sudore per meglio far girare il grande ingranaggio dell’addomesticazione. Improdussi invece, ma con quanto personale senso di dolce nutrizione, di denso appagamento e financo di un certo vanaglorioso gusto di renitenza! Occorrerebbe poi sceverare meglio la questione anche sotto un profilo di efficacia. Cioè a dire se uno studente silurato in fretta dal gangro universitario, che si sia affrettato a ingurgitare sapere e a macinarlo a ranghi serrati, non finisca per sedimentare una conoscenza meccanica e povera, scarsamente ruminata, per dirla alla Nietzsche, se in lui il cammello mai si possa trasmutarsi in leone, o ancora, ma non è possibile neanche il pensarlo, in saggio bambino… Mi sembra, suffragato in ciò anche da qualche lettura a lungo masticata, che la conoscenza chieda tempo, meditazione, chieda di passare di tanto in tanto a maggese il campo troppo torturato, per metabolizzare meglio, per trasfondersi in sapere tondo, riflettuto, compreso. Ma è fin troppo chiaro che l’olezzante ministro per nulla è sollecitato da cure di cotal tipo. Per lui, che misura calcolando ogni passo del suo andare ottuso, l’unica ragione è quella dell’efficienza e della rendita algebrica di teste e finanze. Ahimè quanta sorda insipienza in tale logica di gretto ragioniere! E allora, addivenendo a un primo provvisorio sunto del mio proposito voglio dir ciò: come studente m’onoro d’esser stato un tempo tardo e indeciso, come professore aspiro a veder rinviare la fine degli studi al maggior numero dei miei allievi, anco nel timor, sia detto per inciso, che voglian troppo presto iscriversi alla trista anagrafe dei giovin sposati (spavento!) o, peggio, dei giovani dirigenti! Post Scriptum per i giovani scrupolosi: non esitate a far saldare ad libitum il conto ai vostri genitori per la responsabilità immane che si son presi di chiamarvi al mondo…

martedì 24 luglio 2012

Il piacere ignorato: le fasi della luna di Paul Delvaux

I due più vestiti ignorano. Il grado di vestizione determina il grado di distrazione. L’occhiale sollevato del miope, che, sistemato correttamente, potrebbe dargli la vista della profferta di tanta bellezza muliebre, lo induce invece a chinarsi su un oggetto piccolo e inerte, forse esso stesso un occhio, in un circuito di febbre ossessiva e autoriferita. Il secondo uomo, lo sguardo gigantesco e inebetito, che ne sottolinea l’impotenza visiva, sosta attonito, i piedi piatti e larghi a denotarne l’adesione rigida al suolo, alla staticità inamovibile. Sono le figure dell’astronomo e del geologo, polarità irriducibili dell’ attitudine maschile alla distrazione, alla fissità e all’incapacità di godere, già incontrati altrove nella pittura di Delvaux, (nelle Fasi della luna III, in particolare (1942) . Emblemi del rifiuto ostinato e incomprensibile del dono. Dono che si protende infiocchettato, silente e imperturbabile, con un’espressione un poco beffarda, conscio della sua procace seduzione, il piccolo piede malizioso che infrange il limite della balaustra. Dietro la donna un tavolo con il globo terrestre, illuminato da una lampada, effigie forse della vera conoscenza, conoscenza “globale”, che non ha segreti, su cui la luce è sempre accesa, sempre che si riesca a percepirla. Giorno che incede verso il suo crepuscolo, con la luna che si affaccia sopra la scena, custodendone la cifra simbolica, accogliendola nella sua capace arnia di corrispondenze. E’ sotto la luna che gli uomini vestiti ignorano la donna che si offre nuda e infiocchettata. Sul fondo della scena un giovane semivestito, figure di limine e di transito, come il pifferaio di Hamelin, conduce una brigata di donne ignude in una sorta di corteo bacchico. Il giovane appare figura del possibile mentre, a contrassegnare l’ignavia imperdonabile dei due uomini in primo piano, accanto a loro, su una cassa di legno rovesciata, giace un oggetto che evoca le fattezze di un teschio, sub specie anamorfica, come negli Ambasciatori di Holbein. Autentico monito, nel centro dell’immagine, sulla caratura letale determinata dall’ignoramento, dalla diserzione dal desiderio dei due uomini.
A questo quadro può essere associato un altro lavoro di Delvaux, il Congresso (1941, ma anche gli Astronomi, 1961), dove questa separazione, tra uomini anziani, dai grandi occhi attoniti, vestiti e paludati, intenti in presunte attività intellettuali e donne nude o incoronate di splendidi cappelli, è albergata in un padiglione che ne rimarca l’impossibile e paradossale convivenza. Qui, sullo sfondo, ci sono degli scheletri che campeggiano nel vano di una porta, non a caso sull’asse del settore maschile. Uno degli uomini, mentre si allontana, sul lato occupato dalle donne, lancia uno sguardo furtivo e ipocrita, verso quella bellezza ancora una volta ignorata e elusa.
E’ un tema ritornante questo, nella pittura dell’artista di Liegi, che incontriamo anche in Ingresso nella città (1940), dove un paesaggio di stile classico, il paesaggio senza tempo che insiste su questa condizione irriducibile, custodisce la parata di bellezze sontuose che incedono come ipnotizzate sulla via, incoronate dalla natura, mentre gli uomini, come al solito, appaiono più distanti e attardati, vestiti, affaccendati, inghiottiti nelle volute di un agire ignaro della seduzione, del desiderio, del possibile. Solo un giovane, ancora una volta, seminudo, sta seduto in primo piano, mentre si accanisce a esplorare una mappa, forse la sua Mappa del Tenero, come insinua Jean Clair, forse in cerca di un passaggio che gli consenta di entrare in contatto con l’alone di mistero che avverte, presentisce, il mistero erotico così esplicito che quei corpi femminili spandono intorno, di cui anch’egli pare però non avvedersi. E non è forse questa la cifra del nostra stare, ripetuta proprio a beneficio di tutti i ciechi e i sordi che noi stessi siamo, ignari di quel possibile di puro piacere da cui siamo circondati, che è immediatamente alla nostra portata e che pure, a causa dei lacci infiniti in cui ci siamo intrappolati, per la nostra idiozia, ben vestita e inesorabilmente affaccendata, ci resta preclusa?
L’unico ad accedere, nel suo candore disinibito, resta il bambino, letterale ma soprattutto simbolico.

venerdì 20 luglio 2012

Ai venditori di competenza emotiva (repetita iuvant?)


La “competenza emotiva” è entrata prepotentemente nei percorsi di educazione dei bambini e dei giovani. Per molti ciò suona come una grande conquista. Finalmente anche la terra desolata e emarginata delle emozioni fruisce di uno spazio sistematico di elaborazione formativa nelle nostre scuole e nelle nostre università. Ma è davvero così? Anni fa (nel 2000 per l’esattezza), in un piccolo libro dal titolo Miti d’oggi nell’educazione e opportune contromisure, già mi espressi con sincera disapprovazione per il grande successo che i libri di Daniel Goleman raccoglievano presso il nostro mondo editoriale e presso molti docenti universitari. Oggi la mia preoccupazione non è per nulla calata benché talune esperienze di educazione emotiva, specie nelle scuole dell’infanzia, abbiano assunto i propositi golemaniani non sempre in una versione così radicale e strumentale come apparivano nel testo del loro vate. E tuttavia credo valga, e forse a maggior ragione la pena, di tornarci sopra per risottolineare come l’intelligenza emotiva abbia allargato i propri consensi, come si sia riprodotta con singolare e inquietante generosità e come, soprattutto, a tutt’oggi, i rilievi critici restino sostanzialmente inesistenti. Possibile? Possibile davvero che non ci si renda conto che l’illuminazione sistematica di questa sfera così delicata del nostro essere, a tutto profitto delle nostre prestazioni operative, -perché, come è evidente di questo si tratta nell’ideologia dell’intelligenza emotiva- non venga letta come un infausto, tra i molti, segno del tempo? Sia chiaro, la conoscenza delle emozioni, della loro genesi, dei loro effetti, della loro complessa fisionomia, è qualcosa che viene da molto lontano e non è dato preoccuparsi per essa. Così pure una deontologia emozionale, una terapeutica, un’elaborazione e sia pure dei metodi di contenimento e filtrazione delle emozioni, sono cose che hanno una storia assai lunga e molto colta (che compare assai poco però nelle sedi educative come oggetto di esperienza culturale). Ma la “competenza emotiva” è cosa che si staglia su questo scenario con una sua ben specifica e allarmante singolarità. Che si attesta chiaramente sul fronte degli studi di tipo neuropsichiatrico e neurocognitivo, dunque sul fronte della scienza dura e fortemente finalizzata ( e fortemente finanziata, non a caso) ma che soprattutto conduce i risultati di queste ricerche nella direzione di una “farmacologia”, e non soltanto di natura chimica, decisamente preoccupante. Ciò che già Goleman prescriveva alle nostre scuole alla fine del secolo passato, i corsi di alfabetizzazione emozionale, erano un’arma per imporre il dominio della ragione sopra il mondo delle emozioni. Ora, come già evidenziavo allora, le emozioni non sono una materia di natura razionale, come è evidente, sono la manifestazione sensibile delle nostre profondità, del nostro corpo, dei nostri istinti, o, se si preferisce, del nostro inconscio. Veicolano in forme molto diversificate le tensioni, le reazioni, le affezioni che patiamo nella nostra vita secondo differenti modalità espressive. Così proviamo e manifestiamo – legittimamente- tristezza e talora depressione quando siamo colpiti da una perdita, quando assistiamo a un evento drammatico o tragico. Proviamo e manifestiamo –legittimamente- rabbia quando siamo feriti da qualcosa o da qualcuno o quando siamo aggrediti o umiliati. Proviamo e manifestiamo –legittimamente- malinconia quando siamo immersi in riflessioni sulla memoria, sul trascorrere del tempo. E così via. Le emozioni sono il nostro ambito più autonomo, più indominabile proprio perché la loro genesi non appartiene al nostro io, giace più in profondità, è radicata nel nostro corpo animale. Il che naturalmente può essere sgradevole o addirittura intollerabile. Ciò è ovvio. Ma è essenziale, persino salvifico. Come potremmo ribellarci ad una situazione che ogni giorno ci mortifica e ci perseguita se non provassimo alcuna emozione, come una macchina? Come è noto infatti le macchine sono state create anche per sollevarci spesso da qualcosa che può essere troppo gravoso per noi, come molti lavori, molti, non a caso, travagli. Ma questa idea, quella cioè di sollevarci e sgravarci dal dolore che molte esperienze portano con sé, può essere sfruttata in maniera più sottile e pervasiva. Proprio attraverso la competenza emotiva. Goleman non ne faceva mistero. Per lui il quoziente emotivo, termine quant’altri mai rappresentativo di un’ideologia a forte connotazione pragmatica e produttivista, doveva essere registrato premiando la capacità di conoscere e dominare le emozioni (quelle negative) e ancora di saperle leggere negli altri (empatia), non tanto al fine di comprenderli, quanto al fine di essere più efficaci. Nel senso che se imparo a conoscere meglio lo stato d’animo dell’altro, sarò più abile ad intercettarne le attese e a manipolarlo secondo i miei interessi. In realtà, quello che propone Goleman e con lui tutta l’ideologia dell’intelligenza emotiva, è l’addomesticamento delle emozioni e il loro sfruttamento al fine di ottimizzare le proprie prestazioni professionali e personali. In tal senso egli arriva al limite di prescrivere l’eliminazione delle emozioni sgradevoli e ostacolanti per coltivare soltanto quelle positive e performanti (in tal modo prefigurando uno scenario già letterariamente noto, quello di un mondo dove, grazie all’ingegneria genetica, le emozioni “disturbanti”, siano state raschiate via “ab origine”) . Un suo famoso esempio riportava il caso di una coppia in condizione di “piena emozionale” durante un litigio. Il suo consiglio era di fermarsi, controllare il proprio battito cardiaco e, qualora avesse superato una certa frequenza “ a rischio” dal punto di vista della”scarica” che avrebbe potuto produrre, di prendersi una pausa di dieci o venti minuti. Una caricatura molto “americana” di un mondo futuro di persone altamente consapevoli e capaci di regolare i propri flussi emozionali in modo che non producano attriti nella vita sociale. Certo, anche una persona sottoposta a sfruttamento del suo tempo e dei suoi diritti sul lavoro potrebbe agevolmente di tanto in tanto sottoporsi allo stesso esame, in modo da tornare, dopo adeguata pausa (sempre se concessa), a produrre profitto rasserenato e senza aloni sulla camicia. Così pure in futuro potrebbe esserci consigliato, sempre sulla stregua di un tale esempio (ma questi manuali sono sempre prodighi di esempi edificanti), per esempio dopo un lutto, di fare frequenti esercizi di focalizzazione cognitiva su oggetti dispensatori di gioia in maniera tale da non soffrire di penose perdite di efficienza nell’assolvimento dei nostri compiti lavorativi. Naturalmente la parenetica dell’intelligenza emotiva non fa cenno a casi simili, per quanto essi siano già da tempo il campo d’azione sistematica di una “farmacologia” tutta chimica questa volta, orientata a evitare pericolose defaillances al business.
Ma l’intelligenza emotiva non dichiara la sua collusione con l’industria del farmaco e, a cascata, con il sistema industriale tout court, lei è più buona, più soft. Vuole dispensarci dal dolore, è in realtà una terapia del dolore e della consapevolezza. Conosciamo i nostri sentimenti e…sapremo usarli meglio. E sì, perché questo è il succo. Basta con l’essere succubi delle emozioni, siamo noi a decidere quali emozioni dobbiamo avere in un determinato frangente! Qui non è in gioco il sussiego psicoanalitico che ancora si attardava a contrapporre e talora persino a tentare di comporre il principio del piacere con quello della prestazione. O meglio, ciò che allora pareva -nelle menti migliori si badi perché poi molta psicoanalisi si è fatalmente “psicologizzata”, per così dire-, un conflitto, per i fautori della competenza emotiva non è più tale. Persuasi dall’idea che in fondo tutto si sana con dosi di “effectiveness”, cioè con la sensazione di essere efficaci, il che può anche essere talvolta verosimile, piacere e prestazione vanno a braccetto nei corsi che insegnano ad aver successo con il controllo, la diagnosi veloce e il trattamento delle emozioni a fini appunto di “effectiveness”. Persone efficaci, ma soprattutto efficienti, questo vogliono i solerti venditori della “competenza emotiva”, materia scolastica e parascolastica, oggetto di innumerevoli corsi e master all’insegna del buon umore e di una vita piena di “realizzazioni”. Basta con i sognatori, gli introversi, i melanconici, queste emozioni si possono sedare con pochi esercizi di psicologia cognitiva, e dove non bastasse, ci sono ottimi farmaci, sempre più precisi e circoscritti. Basta con le depressioni, e che diamine! Dopo un lutto, o più semplicemente in presenza di una malattia cronica e invalidante, perché deprimersi quando c’è un’ offerta di competenze emotive ad hoc per continuare a sperare, godere, e soprattutto a fare? Fare fare fare è l’imperativo dei venditori d’intelligenza emotiva. A loro non piacciono i dispersivi, i conflittuali, quelli che si attardano in inutili e magari persino critiche manifestazioni di dissenso emotivo. Il destino ce lo si forgia da sé. E dove non basta, ci sono ottimi esercizi per migliorare le proprie prestazioni, specie quelle più indomabili e perniciose, quelle emotive. Ecco come allora l’intelligenza emotiva vada a braccetto con tutto l’armamentario ideologico del nuovo e rampante efficientismo, con la propaganda del merito, della competenza e della competizione, ça va sans dire. Non credo che ci si debba rallegrare che tutto ciò sia entrato nelle nostre scuole. Anch’io a suo tempo avevo pensato che fosse una buona pubblicità alla totale mancanza di cultura affettiva nell’esperienza dell’educazione. Ma qui non si tratta di cultura delle emozioni, che dovrebbe interessarsi del giacimento prezioso di tutte le emozioni senza distinzione così come si è attratti e affascinati da una grande foresta vergine, che andrebbe tutelata e protetta e conosciuta nella sua complessità reticolare ma non per fini di sfruttamento della sua materia prima. Qui, come troppo spesso accade proprio quando qualcosa entra nella scuola, si tratta di un’illuminazione oscena, predatrice, che vuol far fuori il necessario complemento di misteriosità, di animalità, di segretezza di questa “riserva indiana”, come la chiamai allora, sempre più piccola e minacciata. Oggi come allora quindi, “non si tratta di rendere intelligenti gli affetti, abbiamo invece bisogno di recuperare l’atmosfera affettiva della conoscenza, l’ eros che è esso sì connesso alla autentica conoscenza e che ci tiene ben lontani dall’idea, fallace e onnipotente, di addomesticare razionalmente le emozioni”.

venerdì 13 luglio 2012

La marcia zoppa del caravanserraglio tecnologico


Mentre le grandi menti che rimestano il calderone impazzito del naufragio scolastico insistono serafiche a escogitare nuovi strumenti e strategie di valutazione, a predisporre inedite sigle e bastardismi anglofili per denominare le competenze del nuovo rivoluzionario sistema della didattica, a misurare e a catalogare come al solito, lenta e azzoppata avanza la carovana della tecnologia. Salutata con grande trasporto dalle parenetiche ministeriali e dalla retorica giornalistica da Sole 24 ore, la tecnologia, quella elettronica per intenderci, è attesa come la grande panacea del buco nero che è ormai la scuola. L’ingresso in anni lontani di qualche lavagna luminosa, poi di qualche videoproiettore, poi di qualche computer, senza mai produrre significativi cambiamenti, si moltiplica oggi con l’avanzata ancor non si sa se finanziata e finanziabile di tutto un armamentario (dalle Lim ai tablet ecc. ecc.) dalle destinazioni e dagli usi perlomeno degni di qualche sospetto. Fortunatamente non c’è esattamente un consenso unanime su tale fenomeno dalla chiara marcatura culturale e ideologica: gli unici a tifare in modo incontrollato sono naturalmente i detentori del business e la tecnocrazia. Vengono sollevati dubbi del tutto legittimi da più parti e francamente l’ottimistico auspicio che i nuovi congegni possano determinare significativi mutamenti appare piuttosto risibile. Ma al di là dell’oggettiva debolezza di un’ introduzione di apparecchiature e strategie comunicative delle quali si sa bene che saranno lente, parziali e fortemente pleonastiche, occorre sottolineare quanto, specie nei retori del macchinismo insegnante, sia del tutto, e per l’ennesima volta, sconfessata ogni possibilità di aggredire i punti d’inceppamento dell’esperienza scolastica: la voglia, il senso, il sapere. Ancora una volta anzitutto sono i corpi ad essere sconfitti ( e forse in maniera decisiva e finale), il che già di per sé costituisce uno scandalo insopportabile. La scuola continuerà a restare un fatto puramente mentale, anzi aumenterà ulteriormente il grado già altissimo di penalizzazione corporea, emozionale e relazionale. Ma questo non ci stupisce: maggiormente angustia il fatto che la tecnologia penetri nella scuola non per essere interrogata, alterata, rifatta, ma tale quale, sinistra protrusione di un sistema di condizionamento parossistico che già grava su tutti nel fuori del cosiddetto libero mercato. La tecnologia avanzata, digitale, non è un servomeccanismo innocuo, è il volto della civiltà contemporanea, il suo reale e il suo immaginario. La scuola, prima ancora di fruirne, di volta in volta criticamente, potrebbe essere il luogo più adatto per smontare, revisionare, decostruire i meccanismi della tecnologia. Comprendere i risvolti cognitivi della programmazione informatica, il potere delle immagini e delle scritture prestabiliti, il senso delle sequenze programmate. Ma molto di più, introdurre strumenti tecnologici che consentano di fare cinema, di costruire audiovisivi, di passare alla moviola i processi di comunicazione, di investigare la luce, il rumore, la musica. Gli strumenti tecnici devono poter essere usati in modo originale, come strumenti creativi, devono poter essere riprogettati e riprogettanti, non semplicemente subiti come un nuovo grimaldello per abolire sensi e pensieri. La tecnologia non deve servire per ottimizzare la vecchia didattica, tanto per cambiare in fin dei conti considerata buona e giusta. Deve pervertirla e costituire semmai, dove possibile, un elemento di scasso e di rivisitazione critica dei processi di incorporazione di quei frammenti mortificati di sapere che i manager scolastici e ministeriali continuano a chiamare “programmi”.