la gaia educazione

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domenica 30 novembre 2014

Lessico psicopatologico quotidiano : occupabilità



E’ uno dei parametri vitali. Oggi. Nel tempo dell’evaporazione della vita, ci si misura a occupabilità. Molti organismi nazionali, internazionali, interregionali, verificano lo stato di occupabilità, con i loro termometri ferrigni. Non si sfugge alla verifica di occupabilità. Certo, è un fatto che riguarda soprattutto i giovani, che diamine. E d’altra parte un giovane non occupabile è oggettivamente un fenomeno preoccupante. Bisogna preoccuparsi di occuparli, caso mai siano ancora poco occupati.

Sembra che i nostri giovani siano quelli più indietro –in termini di competenze- per quanto attiene il manometro dell’occupabilità. Dentro di me pensavo, ah però, forse allora sono più intelligenti degli altri. Ma mi zittivo da solo. Pensavo immoralmente, anzi immoralisticamente.

Occupabilità, che parola bizzarra, che sindrome bizzarra quella di cui soffrono coloro che ne sono affetti, l’inoccupabilità. Quella riguarda però di più gli anziani. Con l’invecchiare si diventa inoccupabili. E pensavo. Che liberazione! Poi però mi zittivo di nuovo, perché in verità occorre restare occupabili per tutta la vita. Forse anche dopo. Quindi ragionavo male, poco economicamente, poco eticamente, tenuto conto che quella è l’ultima etica in circolazione.

La connessione più immediata che mi viene, pensando al termine occupato, se non ci fossero gli stetoscopi dell’OCSE o simili, è che occupato si dice di un cesso, pardon, di una ritirata, secondo il vecchio lessico delle ferrovie nord milano. Ma oggi occupato invece è lo status cui tutti aspirano, pur sapendo che, per obbligo morale, non può e non deve, si badi bene, essere permanente. Appunto come per i cessi. E infatti un cesso sempre occupato può risultare d’intralcio al buon andamento dei flussi. Non entro nel merito di quali. Probabilmente non quelli finanziari.

Ma insomma, per dirla in breve, i giovani sono sotto sondaggio continuo per vedere se e quanto sono occupabili.
Certo la parola è bizzarra, e anche ambigua, sotto il profilo linguistico. Occupabili perché possono essere occupati, participio passato del verbo occupare, dove si presume che vi sia un soggetto attivo che li occupa, loro, i giovani, passivi. Un po’ come occupare una casa.

Una volta occupare, occupazione, riguardava soprattutto fenomeni che avevano a che fare con la guerra, nelle forma per esempio di “truppe d’occupazione” oppure con la rivolta, come in “occupare la fabbrica”. Oggi bisogna occupare i giovani. Bisogna insomma entrare in loro con violenza e picchettarne le uscite.

E’, nella sua paradossalità, interessante questa modesta incursione linguistica perché a me questo pare un fenomeno che socio e psico addetti dovrebbero prendere in considerazione. La mia osservazione, del tutto fenomenologica è la seguente: a me pare che i giovani, ma già i bambini, siano occupati in modo selvaggio e continuo. Il problema della nostra civiltà con bambini, ragazzi e giovani, è come occuparli. Lo spettro: il tempo vuoto, non occupato, le mani vuote, non occupate, la testa vuota, non occupata. Si rischia che poi finiscano “sdraiati”, come è stato autorevolmente scritto. Dunque occupiamoli. E così è. Non credo ci sia mai stata una generazione di “minori” così sempre occupati. E non sto a enumerare le infinite attività che si sono create perché anch’essi siano sempre colonizzati dall’intimazione universalmente acclamata e ormai unica fede monoteista rimasta, quella del “fare”.

Sì, perché occupazione, essere occupati, in una delle sue molte accezioni, vuole dire anche e soprattutto questo: essere intenti a fare qualcosa. Dal che, l’espressione, spesso esclamativa, con cui un chiunque, richiamato da altri, può rispondere, per negarsi, “sono occupato!”.

Ma occorre che esca da questo labirinto semantico, altrimenti qualcuno potrà pensare che gioco con le parole (e avrebbe ragione). Ma non si può giocare con le vite (evaporate) della nostra gioventù. Perché, come autorevolmente, da molte fonti si osserva, “occupabilità” è un parametro vitale, appunto. O sei occupabile, o sei destinato all’emarginazione, al degrado, a quella zona dove prolifera la peggior specie di esseri umani, se ancora possano essere così chiamati, oggi viventi, o sopravviventi, gli “inoccupati”.

Gli inoccupati sono creature davvero inquietanti. Niente a che vedere con i “disoccupati”, quelli almeno una volta hanno conosciuto la beatitudine e la cura formativa dell’occupazione. Sono stati bonificati e redenti dall’essere almeno per un po’ stati occupati, da qualcosa o da qualcuno. Ma gli inoccupati, quelli sono devianza pura, sono formazioni fantasmatiche, pura virtualità inagita, vuoti a cercare, zombie.

Si ha paura a circolare per la strada e magari incontrare qualche inoccupato. Creature imprevedibili, fuori dalla gaussiana, infette.
Certo, tra gli inoccupati si comprendono molti quindicenni e sedicenni, quelli sono inoccupati anche un po’ fisiologici, ma, si badi bene, entrano nella parametrazione.

Oggi, come una volta, tenersi occupati, è sempre un grande farmaco, celeberrimo e antico quanto provato farmaco per evitare di cadere nella crapula e nella lussuria, non c’è miglior rimedio al disagio sociale.

Per tenersi occupati, bisogna solo accogliere tutto quello che gli occupanti, i proprietari di un fare da distribuire, chiedono. Avere competenze di base, minime, quello che basta per essere occupabili (cose informatiche, l’inglese, una buona disponibilità a non mettere in discussione nessun tipo di richiesta). L’occupabilità, omettono i nostri organismi internazionali, oggi si misura soprattutto in caratteristiche poco misurabili: non avanzare rivendicazioni di alcun tipo, dismettere ogni dignità, curvare la schiena e mostrarne il fondo affinchè possa essere manipolato e penetrato a piacimento dagli occupanti, e sempre e comunque accettando la conditio sine qua non della cultura dell’occupabilità che suona “mai per sempre”.

Che sembra un peana di gloria e di speranza, ma nel modo dell’evaporazione della vita in cui ahimé sostiamo, significa soltanto la condanna ad essere manovrati come soldatini in un campo di battaglia da un bambino preocemente ubriaco e malevolo, quel bambino avido e feroce che si chiama mercato, che gioca con le vite di tutti ma soprattutto e sempre di più con quelle di chi, ma lui vorrebbe che fossero quelle di tutti, stenta in “occupabilità”.

Orsù, verso un mondo migliore: occupateci, ve ne prego!

mercoledì 6 agosto 2014

Immaginare una "formazione" sessuale



L'idea di una "formazione" sessuale può risultare problematica nel contesto del dibattito contemporaneo sull'educazione. E, per certi versi, non del tutto a torto. Non tanto per ragioni di ordine morale quanto perché non accenna a spegnersi l’eterna querelle sul carattere intimo e segreto del piacere sessuale e delle sue forme, secondo diversi rami di quella che mi piace definire una sorta di “mistica sessuale”, contro un atteggiamento, che potrebbe essere imputato di illuminismo, che invece vuole mettere a nudo e laicizzare questa esperienza.

Personalmente cercherai di evitare entrambi gli scogli, provando a intercettare tuttavia gli elementi positivi che ne derivano.

Da un lato riconosco un certo grado di verità all’assunto che la sessualità debba godere di un po’ di penombra, che non debba essere illuminata a giorno dai fari di una sua assai problematica razionalizzazione, che la farebbe cadere nelle inquietanti pratiche dell’educazione sessuale sub forma di istruzione medico-psichiatrica o meramente tecnica. Indubbiamente la sessualità appartiene ad una regione profonda della nostra vita, è intessuta di implicazioni fortemente irrazionali e deve essere coltivata come una pianta selvatica e preziosa.

Dall’altra tuttavia credo che un eccesso di esoterismo erotico finisca con il separare una sessualità per iniziati da una popolare e ignorante, destinata ad essere plasmata dalle forme più degradate di polluzione mediatica, con una perdita di esperienza grave per la maggioranza delle persone.

La sessualità è uno dei veicoli più a portata di mano, pur nella sua complessità, per ognuno di noi, per ottenere piacere, soddisfazione, benessere. Come tale è un terreno d’esperienza fondamentale e imprescindibile cui ritengo sia necessario prestare un’attenzione non secondaria e non casuale. Da questo punto di vista, invocare una formazione sessuale a me pare la soluzione adeguata.

Con il termine formazione qui voglio sollecitare un tipo di intervento che appunto non riduca e non scinda le molte dimensioni della vita sessuale. Occuparsi solo dell’atto, delle pratiche igienico-sanitarie o della contraccezione mi pare un atteggiamento che avvilisce la sessualità, facendone oltretutto emergere soprattutto il volto minaccioso. I bambini e gli adolescenti debbono certo essere informati dei rischi legati alle relazioni sessuali. E tuttavia mi pare che sia necessario che queste informazioni siano un corredo rispetto invece all’importanza che una formazione di questo genere dovrebbe assegnare alla conoscenza del piacere sessuale, del modo in cui è stato nel tempo fatto oggetto di sacralizzazione, di venerazione, di iniziazione, di avventura in determinate culture oppure di divieto, marginalizzazione e maledizione in altre. Mi pare importante che bambine e bambini e ragazze e ragazzi possano lentamente scoprire la grande ricchezza dei miti e delle religioni nel loro rapporto con la sessualità, dell’immaginario sessuale depositato nelle letterature, nelle storie, nell’arte, nella musica, nel teatro, nel cinema e così via. Che possano conoscere la ricca trattatistica, sia laica che esoterica, legata alla vita sessuale, al suo potere trasformativo, non solo generativo in senso biologico, addirittura magico e visionario.

Che possano infine entrare in contatto con una visione della sessualità come grande arte dell’amore sensibile, in cui tutti i sensi debbono essere coinvolti, allenati e potenziati, dove la cura del corpo, della sua cosmesi, dei luoghi e degli ambienti, delle diverse fasi dell’atto come del suo immenso potenziale di esplorazione, scoperta e invenzione debbono venire fatti oggetto di una vera e propria pratica conoscitiva.

La sessualità non è più un fatto biologico nell’uomo, è un’esperienza culturale, di una ricchissima cultura che si è depositata in innumerevoli opere, documenti, testimonianze, forme dell’arte e dell’immaginario. E’ una parte meravigliosa della vita che non può essere abbandonata esclusivamente all’improvvisazione ma che, anche per debellare le molte paure ad essa in parte connaturate e in parte inoculate da secoli di morale censoria e patriarcale, deve essere approfondita, coltivata, curata.

E infine ritengo anche condivisa. Le attività di mutua narrazione su questo tema, l’aiuto reciproco e il confronto, possono essere un interessantissimo terreno di esperienza formativa, certo a patto che finalmente si debellino i moltissimi tabù ancora diffusi, che ci si emancipi da visioni assai limitanti di questa esperienza straordinaria, siano esse figlie di quel misticismo che vuole la sessualità confinata nel chiuso della relazione di coppia, siano esse il tributo coatto alle richieste performative di questa nostra società del fare e del produrre sempre di più.

La sessualità è una fonte di straordinario piacere, al di là dei molti pregiudizi che, oltre alla religione e alle morali dogmatiche, anche le moderne scienze psicologiche vi hanno introdotto, ma non è ovvia. La nostra visione è ancora molto arretrata, viziata e paurosa. Occorre un grande avanzamento (per esempio per scoprire, con Riane Eisler e altri, che alle nostre origini, nelle società e religioni prepatriarcali, il piacere sessuale era onorato, rispettato e oggetto di specifiche pratiche iniziatiche), uno sforzo che ritengo debba anche tradursi in una potente formazione, a partire dall’infanzia, con gradualità e secondo i linguaggi adatti ma con decisione, urgenza e passione.

La sessualità, non dimentichiamolo, è dono e dissipazione, contro ogni ideologia dell’accumulazione e del profitto. Questa sua dimensione radicalmente controcorrente può essere però sempre tradita proprio dall’infiltrazione di un imperativo di tipo prestazionale. Per evitare questa deriva c’è una sola strada, la cultura della sessualità.

venerdì 18 luglio 2014

Il delirio dei valutatori...



Sempre più mi si chiarisce il nichilismo violento, il delirio dei valutatori, della valutazione, dei valutazionisti.
Vanità e follia di un comportamento che umilia e corrompe l'esperienza del sapere. Lo avverto ormai con un'acutezza che quasi suscita il grido.

Quanto dovremo sopportare ancora e ancora questi bruti della domanda sterminatrice, questi ossessivi del controllo, questi ispettori delle menti alla ricerca di frantumi di conoscenza? Continuano a indagare, con le loro torce inutili, dentro i cervelli, per stabilire se le macerie di esperienza mutilate e prescritte dai loro manuali sono arrivate a destinazione, se sono state immagazzinate, se qualcosa è rimasto nelle povere menti martoriate dei loro alunni.

Lo sanno loro, quei folli, che tutto quello che è stato immagazzinato a forza già l'indomani sarà evacuato insieme ai libri ferali che ne veicolarono l'infausta ingestione? E proprio a causa di quella forsennata imposizione?

Non capiscono che l'unica domanda che si può porre, dopo che un incontro con il sapere si sia dato, un incontro acceso, vivo, integro e emozionato, un dono di conoscenza condivisa, potrebbe solo essere:

Che cosa ti ha toccato? Che traccia ha lasciato questo incontro?
Che cosa ha preso dimora in te?
Cosa ha trovato ospitalità? Chi?

sabato 12 luglio 2014

Delle nostalgìe dell'amore eterno



Circola molta nostalgìa. Una nostalgìa menzognera, in quanto proietta nel passato l’idea che in esso siano custodite le icone della certezza, della verità, dell’eterno. Il che è solo parzialmente vero, soprattutto se a quelle certezze si voglia connettere un’ipotesi di vita più integra, più autentica, più piena.

In realtà l’unica certezza del passato è che in esso i dispositivi del potere erano molto più capaci di dominare il destino delle persone di quanto non lo siano oggi. La debolezza dell’ignoranza rendeva le persone molto meno capaci di disegnare un proprio destino altro da quello che le diverse istituzioni (stati, chiese, padroni) prescrivevano loro.
Nel nostro tempo le forme del potere hanno dovuto sofisticarsi e investire capillarmente l’immaginario profondo proprio perché la consapevolezza delle persone è molto più attrezzata e in grado di distinguere e respingere le pratiche più rozze del soggiogamento.

L’unica vera certezza che ha abitato il passato è stata, su vasta scala, quella del dominio.
L’amore eterno, una bugìa con cui spingere i popoli in simulacri di vita, mentre i potenti vivevano amori libertini e raffinati. Il matrimonio, una istituzione buona per i poveri in spirito e in materia. Per i potenti (maschi naturalmente ma non sempre e non solo) è stato sempre e soltanto un paravento simbolico, dietro il quale consumare vite all'insegna dell'eccesso. E così via.

Certo, la favola bella dell’amore eterno è in sé struggente e al tempo stesso rassicurante. I casi rari di amori tali, mi viene in mente André Gorz e il suo bel libro alla moglie appena scomparsa, sono stati il frutto di catene di circostanze imprevedibili e particolarmente singolari. L’incontro amoroso resta qualcosa di estremamente delicato, vulnerabile, preda di un vortice incessante di scarti, di iati e di rare coincidenze. L’accettazione integrale dell’altro è una chimera altrettanto radicale, che si fonda sull'accettazione di amputazioni non sempre contenibili entro una soglia sensata di sopportabilità. L’entropia amorosa è un percorso così evidente che non necessita neppure di essere esemplificato. Piuttosto taluni eroismi amorosi sono l’effetto di concatenamenti aleatori, ben altro che l’insistenza nella ripetizione e la divinizzazione della ferita, come sostengono certi nostri psicologi nostrani.

Indubbiamente l’amore a due, la coppia, restano collaudati deterrenti e anestetici potenti contro la morte (quella sì unica e certa) e come tali offrono un riparo tra i più frequentati (con buona pace dei nostri savonarola scagliati contro il malcostume del tempo). Ma la morte, che siamo d’accordo sta anche e forse soprattutto nell’affermazione feticistica dell’ego, si eufemizza forse solo dissolvendosi nel flusso dei molti, piuttosto che nell’idolatria dell’Altro, il Tu dietro il quale traluce sempre l’ombra del monoteismo.

Chi oggi parla di eternità dell’amore non può non rendersi conto che sta reintroducendo un’idea che in effetti ha avuto una lunga vita nella nostra civiltà ma in tanto e in quanto sussisteva appunto una garanzia escatologica. L’eternità è l’eternità. Nel tempo in cui tutto appare generato dalla fine di questa fede, o, per essere più chiari, nel tempo della morte di Dio, queste parole sono false e ingannatrici. Assumere fino in fondo la propria finitezza, o meglio, vivere con la morte, significa non essere più disposti a sopportare alcuna attenuazione dell’intensità della propria esperienza in attesa di un riscatto trascendente. Il vincolo eterno ha funzionato, o meglio è stato sopportato dalla gran massa delle persone fintantoché si è potuto immaginare una compensazione di una vita dimidiata qui in un’altra vita piena là. Questa è stata la vera ragione che per secoli ha reso sopportabile a moltissimi un destino di sottomissione e di rinuncia.

Oggi questo non ha più alcun effetto almeno sulla massa di chi vive nella nostra civiltà. Che poi resista una sorta di speranza, oltre ogni evidenza, è un’altra questione. Ma occorre tenere conto di questo. E leggerne l’elemento intrinsecamente emancipatorio. Nessuno deve più essere disposto a tollerare nulla che non sia pienamente congruo al suo desiderio di affermazione vitale in un contesto ove la vita è diventata radicalmente immanente. Non solo sotto il profilo delle relazioni ma in ogni senso, nel lavoro, in generale nel disporre del proprio tempo.

Senza escatologie le morali del sacrificio non valgono più. E dunque, per quanto straordinariamente imbellettata, anche l’ipotesi dell’amore eterno, che è chiaramente l’eccezione, e lo è sempre stata, e non la regola, diventa molto sospetta se predicata in un regime di assenza di riscatto eterno. Chi oggi moraleggia ad ogni più sospinto sul fatto che i molti vogliano divorare il loro presente, non coglie questo elemento decisivo, in sé peraltro gravido di un potenziale di insofferenza per ogni forma di dominio.

Vero è che il potere è stato molto abile a indirizzare il desiderio vitale verso mete che esso manipola incessantemente. Ma chi oggi depreca il desiderio di affermazione vitale, l’insofferenza per ogni dilazione del proprio piacere, l’incapacità a tollerare le frustrazioni, forse non si rende conto di questo fondamentale mutamento di prospettiva antropologica. Oggi, in assenza di Dio, ognuno di noi vuole una vita integra, intensa, sempre e comunque. Ogni interruzione di questa possibilità è percepita come un attentato. Tutto ciò può apparire anche tragico, e forse disperato. Ma è anche vero che è proprio questa consapevolezza, quella della tragicità del vivere che, da sempre, rende gli uomini potenzialmente in grado di non farsi rubare la vita. Cosa che invece gli spacciatori di eterno, in genere, hanno sempre fatto e continuano in molti luoghi del mondo, a fare.

E comunque resta il fatto, come detto sopra, che l’amore e il desiderio, ineludibilmente compagni tra loro, sono traiettorie molto fragili, esposte a mille e mille possibilità di infrangersi. E questo tanto più in quanto il mondo si riconosce plurale, molteplice, irriducibile ad ogni fantasma di unicità. Tanto più in quanto si fa aperto alle differenze, alle singolarità, ai mutamenti e al divenire. Solo l’idealizzazione sostanzialista e improponibile di qualche relitto di verità e unicità può oggi cercare di rinverdire l’idea dell’amore eterno o di una maturità sentimentale. Il vento, anzi la tempesta dell’avvento dei molti e diversi rende impraticabile ogni resurrezione di feticci teologici, all’insegna dell’identico. Nulla resta identico, e prima di tutto quello stesso che dovrebbe costruire la pietra su cui fondare l’edificio di una relazione stabile. Non c’è nessuno stesso ma sempre un altro appunto, un altro che di minuto in minuto ci sfugge e si rende irriconoscibile se non a prezzo di sforzi disumani di continuo aggiustamento, di continuo rincorrersi.

Ma, instancabile, l’opera della restaurazione rinasce dalle sue ceneri, là dove non pensavi di trovarla.

Va da sé che l’arrendersi plenario e finalmente innocente al mondo dei flussi, del reversibile e del mutevole è probabilmente ancora lungi dall’accadere, specie quando tornano in auge i miti del sempre, del medesimo e del due, quel due che è sempre una trappola, una trappola comoda per chi vuole soggiogare, non per chi voglia spingere il mondo al possibile. Il possibile è sempre oltre ogni dualismo (dietro al quale naturalmente sibila il vecchio feticcio dell’uno), sta al minimo nella fessura necessaria che fa irrompere il “terzo escluso”.

martedì 10 giugno 2014

L'epoca dei numeri tristi (e infami)




L’orrore avanza, implacabile. Nell’epoca in cui, con pieno plauso dei nuovi yuppies accademici tutti prestazione e internazionalità, si valuta sempre di più il numero delle pubblicazioni e non quello che c’è dentro; la lingua in cui sono scritte (purché sia l’inglese, unica lingua che fa punti) e non certo il tema; la rivista su cui appaiono, che deve essere mainstream anche se palesemente conformista e ripetitiva; ebbene in quest’epoca, quella in cui la valutazione di tutto diventa così reticolare e capillare che uno si chiede se verrà valutato anche sul come riempie la tazza del cesso, e se questo verrà reso pubblico (aggiorno gli ultimi disinformati che da quest’anno anche le nostre università, come le prestigiosissime e intramontabili anglosassoni, esporranno le valutazioni assegnate dagli studenti ai docenti in un autentico tripudio di democrazia valutativa: non perdetevele! Come dire, invece di rinnovare e magari eliminare le valutazioni che impallinano da sempre gli studenti sostituendole con qualcosa di più sensato, la cosa migliore è mettere sotto tiro qualunque cosa si muova. So che dire questo mi fa cattiva pubblicità davanti al nutrito fronte valutazionista, uno dei pochi fronti del tutto transpolitico e interclassista ma pazienza), ebbene, dicevo, la quantità sempre più trionfa.

Ieri mi capita sott’occhio la pubblicità di un convegno pedagogico, su un argomento sempre "hot", l’adolescenza. La pagina iniziale di informazione del convegno è una vera e propria summa dei valori del nostro tempo: il calcolo e il nulla. Accanto alle foto di tutti i relatori, che ruotano avanti e indietro grazie a un click (non vi dico quanto invoglia andare a un convegno dopo aver visto le brutte facce dei suoi relatori ma va da sé, è molto trendy, molto americano), accanto, subito vicino, campeggia a lettere cubitali la descrizione del convegno, il suo sex-appeal: “due plenarie, 14 workshop, oltre 30 relatori”, alè, chi più ne ha più ne metta. “Oltre 30 relatori” è fantastico, è stratosferico, è troppo fico! Oggi i convegni vanno a numeri di relatori. Capisco che la quota del convegno, che non enuncio per carità di patria, visto che è un convegno italiano, sia parecchio alta e vada giustificata. E allora vai con un numero competitivo di workshop e un numero super di relatori: signori e signori, siamo oltre i 30!
Poi nient’altro, non il programma, (criptato sotto l’elenco dei relatori e dei workshop), solo una lista di argomenti piuttosto appealing: cyberbullismo, sessualità, devianza, autolesionismo ecc. ecc. (il solito ritratto agghiacciante dei poveri ado, qui definiti “supereroi fragili”). C'è anche un video(ormai immancabile nel marketing convegnistico), con uno scoppiettante intervistatore e l'introduzione del coordinatore scientifico.

Inorridisco.

Capisco di essere sempre più fuori tempo e non mi stupisco che l’autorevole critico letterario di “Italia oggi”, giornale peraltro autorevolissimo, abbia definito il mio ultimo libro “vintage e chic”. Va bene così. Sono vintage e chic, o forse voleva dire kitsch. Chissà mai.
Meglio vintage di questa merda però.

P.S. : sì, me lo hanno detto che un buon bloggista non dovrebbe fare troppo l’arrabbiato, non dovrebbe usare un linguaggio scurrile, dovrebbe essere positivo (per avere seguito, per essere “followed”). E va bene, non sarò followed. Però il mio risentimento, con buona pace del caro Nietzsche, ogni tanto bisogno che lo scarichi. E, come diceva il vecchio menestrello bolognese, uno super vintage, anzi oramai da fiera dell’antiquariato, a culo tutto il resto!

giovedì 22 maggio 2014

Sad Eros



Oggi per il povero Eros tira una brutta aria, aria di miseranda restaurazione. Da Badiou a Han ritornano al galoppo tutti i vecchi rosari. Prima il grande ultimo filosofo comunista che si affida anche lui ai sempreverdi Platone, Agostino, Goethe per perorare la causa intramontabile di un amore vero, uomo-donna, fedele all’Altro, assoluto, capace di resistere alle lusinghe dei flussi contemporanei, delle macchine desideranti o delle chat erotiche. Il pensatore coreano, tanto brillante e incisivo nella Società della stanchezza, oggi ci rifila anch’egli l'assolutamente altro, tra Hegel e Levinas. Sui nostri rotocalchi si addomestica Lacan per farne una versione per le scuole (private e cattoliche).

Seppelliti da tempo i Marcuse, i Reich, i Lowen, sempre occultato il povero Fourier (che tuttavia andrebbe riletto con più gusto e un pizzico di humour), sembra che coppia e amore eterno debbano essere nuovamente gloriati e santificati.

Quanto poco ascolto per chi di eros e sesso davvero ha trattato con finezza e consapevolezza profonda. Riane Eisler per esempio, il cui “Il piacere è sacro”, un libro formidabile che fa l’archeologia della demonizzazione del sesso, andrebbe a mio giudizio reso obbligatorio a scuola, tanto per ricordare da dove veniamo e dove rischiamo ancora di andare (noi figli di un immaginario patriarcale assai solido anche nella grecità). E perché no, persino il supermaschilista Julius Evola, capace però nella Metafisica del sesso e anche in altri scritti di disegnare con magistrale scrittura la grande e fondata sacralità dell’eros, il suo potere trasformativo e visionario.

Noi perdiamo di vista che con Eros andrebbe sempre ripensato Dioniso e dietro lui la coppia Shiva-Shakti, autentica radice di ogni sessualità radicata nell’esperienza della terrestrità, della natura e di una cultura non solo intrisa di scissioni e minorazioni (e si rammenti così anche Danielou).

Ma no, noi siamo appesi alle nostre stampe vittoriane, alle fiabe romantiche, alla indissolubile coppia amore-morte, pronti ad asserragliarci intorno al vecchio codice ristretto condito più o meno variamente di teologie e sacralizzazioni improprie, l’assoluto, la verità, il dolore.

Come fare per insinuare in questo accampamento di irriducibili monaci trappisti, (con tutto il rispetto dovuto a quelli autentici), il sospetto che la sessualità è il centro della nostra esperienza nel mondo, di una vita possibilmente vissuta all’insegna del piacere, della condivisione, medicine insostituibili per placare l’orrore della competizione?

Quanto tempo occorrerà perché finalmente una cultura della sessualità degna di questo nome, e non solo una manfrina di retoriche psicologiste e istruzioni medico-sanitarie intrise di moralina, entri nelle nostre scuole, nella società, nel cinema (anche) per non abbandonare i ragazzi e le ragazze all’incontro con l’esperienza più straordinaria della loro vita in balìa di preconcetti, timori e un immaginario mediale violento e ripetitivo.

E’ inutile, sono anni che provo a scuotere i miei studenti nei banchi dell’università su questa “irruzione del meraviglioso”. E’ tardi. Il danno è già stato fatto. Li vedo intimoriti, inibiti, incapaci di articolare una qualunque alternativa ai copioni più logori e normalizzati. La sessualità resta un incredibile tabù, e non c’è rave che possa esorcizzare la penuria di sapere, fantasia, immaginazione.

Alla faccia dello scatenamento del godimento, quello che sperimentiamo, dentro e fuori di noi, è solo e ancora un corpo ignorante dove sensibilità e consapevolezza appaiono povere, mute. I corpi di noi tutti sono ancora goffi e passivi come lo sono quelli che si presentano davanti al tribunale della medicina o della psichiatria, corpi divisi, la cui esperienza di vita è castrata.

L’eros delle infinite sfumature, quello dei trattati antichi ed esotici, di una sacralità vitale e non sacrificale, diffuso nelle eresie, nelle letterature periferiche, nelle utopie, nell’espressività simbolica negletta dei grandi visionari di ogni tempo e luogo, quell’eros non penetra la nostra cittadella murata dalla sua anestesia.

Viene nostalgìa di un Eros bambino, alato e vagabondo e della sempre elusa potenza di Afrodite, che ci richiamerebbe a un grande elogio del piacere che mai abbiamo conseguito, tra teologie une e trine e simulacrali godimenti acefali.

Per sfregio, di fronte a tanta santificazione dell’amore con la A maiuscola (la cui esclusività, non lo si dimentichi, è anche causa di inenarrabili sofferenze), perorei con forza la causa della masturbazione, atto pacifico e individuale, di pura dissipazione, antiproduttivista e, come diceva Woody Allen (il cui narcisismo non si può negare abbia avuto grande potere creativo), atto erotico che si consuma con qualcuno che, volenti o nolenti, si stima.

E però anche, con il vecchio Fourier, voglio immaginare una combinatoria più ampia, complessa, una rotazione, una gerarchia mobile e virtuosa, dove la manìe si combinino con le manìe, non per premiare un piacere esonerato dall’intensità persino delle sofferenze, per quanto magari attutite da una sacrosanta affermatività, ma solo per onorare la vita, la breve vita che ci è capitata e che ci scorre via mentre ci accapigliamo per togliere al nostro tempo ogni autentica possibilità di essere “goduto”.

domenica 27 aprile 2014

La scomparsa dello sguardo



Guardandomi in giro non trovo più sguardi. Né quelli apatici di chi rotola mesto al lavoro. Né quelli garruli di chi rimugina una qualche fortuna. Né quelli torvi di chi odia il prossimo ( e anche il distante), né quelli curiosi di chi ti esplora con attenzione, né quelli timidi di chi guarda di sfuggita, obliquamente, o, talora, in tralice.

La verità è che l’esperienza di guardare ed essere guardati è totalmente tramontata. Non perché si sia diventati ciechi. Assolutamente no. Semmai perché gli occhi sono stati ingoiati da quei prodigiosi apparecchi che sono i moderni cellulari. Piccoli, maneggevoli e potentissimi strumenti di alienazione terminale dello sguardo.

Osservo le persone in auto, dal momento che vi trascorro ahimè molto tempo. Una percentuale altissima è al cellulare, alcuni per parlare (per un tempo incredibilmente interminabile, mi chiedo sempre su quali conti vadano chiamate di tale lunghezza), altri per vedere, digitare, accarezzare per far scivolare le molte finestre e finestrine e finestrinine dell’ingegnoso strumento.
Per strada, sugli autobus, nelle stazioni è anche peggio. Ovunque non si incontrano più sguardi ma corpi immersi nel flusso microscopico e magnetizzante dei loro cellulari. E se per caso si scopre qualcuno che non è adeso all’oggetto, anche se lo tiene quasi sempre comunque in mano, come una specie di fallo sostitutivo (specie le donne, va detto), ecco che, di fronte all’insolenza del mio sguardo, subito la difesa è fuggire nel piccolissimo schermo, l’ultimo di una catena di rimpicciolimenti nel campo della comunicazione(dal grande schermo, il cinema, al piccolo schermo, la tv, allo schermo micro, l’androide o aifono che sia).

Non si veda in ciò un rigurgito si moralismo. A scanso di equivoci anch’io possiedo un cellulare, androide credo, e lo uso, per quanto con una parsimonia tale che certi giorni neppure mi accorgo della sua esistenza. In gran parte parte perché ancora mi rifiuto di leggere la mia posta, i messaggi, le notizie e tutto il resto dentro quel miserabile schermo ma, soprattutto, perché ancora le mie dita non hanno sviluppato l’abilità tutta contemporanea della scrittura su microtasto. Imperciocché perderei tempo e vista a mettere insieme anche poche frasi spesso rischiando, con l’uso del T9, di sbagliare molte parole accorgendomene troppo tardi.

In verità però c’è anche dell’altro. Oso appena mormorarlo: inspiegabilmente, contro ogni evidenza, credo che il mondo là fuori sia più interessante delle per quanto mirabolanti infinite possibilità di acciuffamento di novità, messaggi e chattamenti vari il cellulare possa mai predisporre per me (fatte salve le urgenze). In fin dei conti il mondo del possibile, per quanto brutto possa essere, e spesso lo è, eccome, è quello là fuori. Quello nel microschermo è comunque il mondo piccolo, privato, a uso e consumo della mia petizione, delle mie intenzioni, per quanto lontano si possano spingere. E tutto sommato pur sempre un mondo che fatica molto ahimé, a trasmutarsi da fantasmatica virtualità in concreta e carnale consistenza.

Non essere ri-guardati è un’esperienza che travalica di gran lunga lo shock di cui parlava Walter Benjamin. Non più solo sguardi vuoti o assenti, ora proprio non sguardi. Perché per quanto, negli attriti imprevedibili della folla, di tanto in tanto uno scambio di sguardi, un bagliore di reale impertinente, prima dell’avvento dei microschermi, ancora poteva essere incontrato. Ora non più. Oltre al fatto che il contatto continuo con la parata molteplice delle scene del cellulare, di cui certo non può essere negato il fascino, pari a quello di un moderno caleidoscopio, è comunque un lavoro, un’attività, che non consente mai di riposare, di defluire, di calare nel mondo semplicemente per sostarvi inattivi, passivi, immemori (oppure memori ma di qualcosa che non ci piova addosso dal cellulare).

Insomma il cellulare, anche se certo è anche uno strumento che arricchisce il repertorio delle nostre possibilità comunicative, è l’ultima frontiera dell’annichilimento dell’incontro fortuito nel reale. Oggi l’incontro (fortuito?) si dà solo nell’irreale, con tutte le complicazioni che ciò suscita, naturalmente (presentazioni ingannatrici, fake, raggiri di ogni tipo, come è giusto che sia in un ambiente del tutto virtuale).

Trottoliamo nel mondo ignari di tutto, senza più sollevare lo sguardo su ciò che ci circonda (non stupisce allora che l’orrore che ci avvolge possa incrementare ogni giorno la sua proliferazione, in assenza totale di vigilanza (vedasi l’espansione cancerosa degli obbrobri expofili del paesaggio della mia città in questi ultimi anni)).

Ma soprattutto totalmente in opposizione all’altro che non ci viene più incontro, che non più con-è, tanto per dirla un po’ fenomenologica. Perché è del tutto in-line, ben al riparo dall’interlocuzione improvvida tanto quanto da quella provvida.

Chi ha più il coraggio di accendere una comunicazione con qualche compagno di viaggio in treno quando tutti appaiono presi da un altrove illocalizzabile, o comunque affaccendati, con quell’aria compiaciuta di chi può finalmente negare la sua solitudine costitutiva esibendo la parata delle sue gloriose conversazioni (perlopiù imbarazzanti o semplicemente ottuse, come quelle diffusissime con la mamma o il marito/moglie), o peggio, mostrandosi entusiasticamente travolto da una digitazione che appare però più una prestidigitazione (per la incredibile rapidità della tecnica)con un non-si-sa-dove non-si-sa-quando però assolutamente incomparabile con la tenue possibilità di un contatto con chi è lì, magari a pochi centimetri da lui, e che, per colmo della sorte malevola, deve pure sorbirsi le sue chiacchiere o il suo entusiastico diteggiare, a meno di non contrapporre a sua volta la magìa sconfiggi-sfigataggine con un altrettanto roboante tastipestamento orgastico.

Sì è vero prima c’erano i libri a difenderci dal prossimo ma in modo più tenue, più silenzioso e in fin dei conti non del tutto impenetrabile. Dal libro lo sguardo si leva talora, anche solo per rimuginare e riaffiorare al mondo. Dal microschermo non si riemerge più.

L’uomo è finito, diceva un filosofo non proprio di buon umore, un po’ di tempo fa. Ho sempre riluttato a questa sentenza, allevando in me, seppure con una progressiva difficoltà a trovare materia per alimentarla, una sorta di apotropaica speranza nella reversibilità del nulla.
Oggi la materia in mio possesso sta scivolando via come l’ultima sabbia di una clessidra, di fronte a questa razza di cellulare-protesizzati che vagano come sonnambuli in un reale definitivamente lasciato a sé stesso e agli ultimi inevitabilmente depressi testimoni del suo abbandono.

E’ triste non trovare più sguardi con cui scambiare la muta solidarietà dell’essere umani, quella che allude ad un comune destino, magari ingrato, quella di una semplice elemosina di attenzione, o quella più esuberante o intimidita di una seduzione. Nulla di tutto questo è più possibile.

La civiltà dell’ “autos” ha partorito il suo ultimo indefettibile apparecchio di distruzione della “social catena”, quella che sembrava poter magari debolmente contrapporsi allo strapotere di minacce anonime o organizzate, naturali o artificiali che fossero, laggiù nel reale. Oggi c’è una “social catena” in-line, invisibile, imperimetrabile, fondamementalmente autistica. L’hikikimori (quello che si chiude in casa per commerciare con il mondo solo via schermo) è a un passo.

Non so se sia meglio o peggio. Da quello che vedo deve essere meglio. Bisogna che sgomberi i miei dubbi, che smetta di sperare in un ri-guardo che non viene più. Sono proprio un vecchio romantico, credo ancora nel flâneur, nelle derive nel mondo (quello reale), nel sorriso di qualcuno che ti passa accanto o anche semplicemente nel saluto, quello che un tempo (ora quasi più) chi passeggiava si scambiava in montagna (dove però grazie al cielo spesso, ma per quanto? i cellulari non funzionano sempre a dovere).

Basta con questo ciarpame.
L’unica è che faccia un corso di microditeggiatura veloce e mi inchiodi anch’io al mio cellulare, giorno e notte, in auto o in metrò, via dalla pazza folla!

venerdì 18 aprile 2014

Templi e icone contemporanei (1): Il camion e i capannoni industriali



L’ecologismo, che noia…!
Basta con il piagnisteo sulla natura, che diamine! Occorre essere orgogliosi dell’infallibile sviluppo della creatività umana, della sua operosa intraprendenza, dei suoi mirabili manufatti!

Non si può non genuflettersi davanti a quelle prodigiose manifestazioni dell’arte umana che un mondo che si dilata senza tema secondo il principio della bellezza convulsiva produce ogni giorno. E mi riferirò alla mia zona, quella dove vivo da privilegiato assoluto e talvolta colpevolmente insoddisfatto a cagione delle conseguenze del tutto secondarie, mi rendo conto, di un benessere di cui dovrei essere più che pago.

Me ne vergogno, ma qualche volta non sono allegro, ahimé. Sicuramente per problematiche interne e deficit psichici. Sebbene talora mi sorga luciferino il sospetto che anche alcuni dettagli che attengono alle metamorfosi antropogeniche dell’ambiente abbiano su di me un sordido effetto rattristevole.

Mi riferisco, in prima battuta, alla mutazione delle forme di vita che il mio territorio, la terra padana lombarda, con particolare riferimento alla Brianza, sua inclita località ridente e meta del più aristocratico dei villeggiare fino a un paio di cinquantennii fa, genera vieppiù. E allegramente.

Oggi la “bella Brianza”, un tempo meta di narcisate e merende ghiotte presso i crotti della zona, fiorisce di una nuova specie di schietta genìa di presenze sempreverdi: i camion. Si può ben dire ormai, come si dice per esempio che l’astigiano è terra del vino o che la loira è terra dei castelli, che la Brianza è la “terra dei camion”. Non perché essa li produca in proprio, no niente affatto. Essa li ospita, li culla e li fa circolare sul suo corpo estesamente cementificato, ovunque e a tutte l’ore. Camion d’ogni fattezza e dimensione, dal camioncino per piccoli trasporti al gigantesco TIR a due vagoni, dall’articolato allo snodato, furgonati e telonati, dal Doblò sempre sferzato a chiodo per consegne urgenti all’autotreno dalla sirena marittima, il camion troneggia giorno e notte per ogni dove, salutando il popolo gagliardo della Brianza con il canto del suo motore potente, con il caratteristico sferragliamento dei suoi opulenti sistemi di trasmissione, con le sue trombe dal suono fatale. Più numerosi dei narcisi stessi, ormai ridotti a qualche microcosmica manifestazione nei noti giardini delle belle villette a schiera brianzole, della misura di non più di un modesto tinello, essi troneggiano ovunque, scintillanti e invincibili.

E’ rassicurante ogni giorno averli alle spalle, specie quando nel retrovisore della mia utilitaria di essi non appare che il ghigno ammiccante dei loro lustri fascioni paracolpi, oppure qualche simpatico “musone” old style a filo di posteriore (loro amano farti sentire il loro alito sulla schiena…). E incrociarli continuamente, giganteschi, senza soluzione di continuità, a sinistra nelle strade a doppio senso o sapientemente incolonnati a due a tre e anche a quattro corsie quando invadono allegramente la tua via o intere autostrade. E’ bello avvertire il loro caratteristico profumo, quando sollevano dai loro grossi tubi di scarico densi vapori speziati nell’aria, o quando dallo stridore dei loro freni avverti sprigionarsi nell’aria nuvole di pure polveri narcotizzanti.

Il camion fa allegria, solleva speranza nel futuro, rinvigorisce la sensazione di trovarsi dalla parte giusta del mondo, quella dove si ha tutto, e molto più di tutto naturalmente, cosa di cui ci si avvede solo quando si cerca di decifrare i nomi in codice di prodotti misteriosissimi che viaggiano sulle loro immarcescibili gomme.

In fin dei conti, comunque, tu sai di essere in Brianza quando i camion sono decisamente più numerosi degli stessi abitanti del luogo.
Ma non basta. La Brianza non ha potuto fare a meno, in questi ultimi decenni, di allestire gli spazi indispensabili affinché i camion avessero un luogo ove adempiere il significato profondo dei loro magici viaggi. Una delle strutture più diffuse nella zona, uno dei campionari di soluzioni edilizie e architettoniche più vertiginose e creative, è, senza timore di sbagliare, il tempio del camion, il capannone industriale!

Ommioddio, la Brianza è meravigliosamente coltivata a capannoni, di tutti i generi, tutti i colori, tutte le grandezze, tutti i materiali, senza soluzione di continuità. Gli uni gemmano degli altri, gioiosamente, riproducendosi come le uova delle rane, a grappoli, a mucchi, a mosaico. I capannoni industriali sono il prodotto di cui la Brianza può andare davvero orgogliosa. In sé, nel suo seno, li ha albergati tutti: tutta la tipologia intendo dire. L’occhio non si stanca mai qui: sempre nuove figurazioni appaiono, sempre nuove soluzioni che finalmente fanno sparire ogni traccia di quelle noiose manifestazioni del territorio impossibili da curare e dal tutto improduttive che erano campi e brughiera e ogni altra maligna manifestazione spontanea della natura.

Giammai! E come avanzano! Non si può scordarsi per qualche giorno di transitare per qualche lugubre anfratto di natura ancora tristemente ancorata alle sue forme naturali senza che, in un batter d’occhio, non la si ritrovi sostituita da meravigliosi nuovi capannoni industriali, autentico orgoglio di una regione che lavora, che produce e che ha un tale amore per la propria terra da averla trasformata in un unico grande (forse visibile anche dal satellite) immenso agglomerato di palpitanti, operosi, incomparabili capannoni industriali.

Vivaddio, io, modesto e a mio modo operoso abitante di questa terra, son ben felice di albergare accanto a questa maestosa opera della creatività umana, benché talora, nel chiuso della mia più inconfessabile interiorità, non possa fare a meno di immaginare che un improvviso evento sismico, un maremoto, un incendio tanto colossale quanto purificatore, faccia piazza pulita di tutta questa bolgia di gomma, ferro e calcestruzzo e mi riconsegni la vecchia e sudicia natura, liberandomi al contempo anche da una catasta di inutili oggetti che, con loro, con la loro esuberanza e argentina ingenuità, i camion e i capannoni industriali, riversano continuamente nelle case, nei luoghi, nel mondo.

sabato 22 marzo 2014

"Appunti di un naufrago": il fascin-(sm)-o indefettibile dell'esame



Per molti docenti l’esame è un evento di culto, specie in epoca di valutazionismo “totale”. E’ qualcosa di molto serio, addirittura di sacro, da tenere al riparo da ogni disincanto. Essi, ritenendo fondamentale e imprescindibile il contributo che danno alla cultura, l’efficacia del proprio insegnamento e realisticamente introiettabile la quantità di informazioni programmata per lo studio e incorporata in un certo numero di libri solitamente di ostica lettura, si avviano alle prove con portamento altero e supponente (come sempre per altro).

Agli esami si fanno un vanto di sottoporre a un serrato interrogatorio (porre sotto esame e interrogare sono procedure di polizia), i loro studenti. Alla fine di questi interrogatori, in cui, occorre dirlo, sempre più spesso la sfacciata propensione al dialogo è squisitamente esibita, così come l’attitudine falsamente empatica, molti colleghi fanno fioccare i numeri con ammirevole perizia e impareggiabile cinismo.

Sono quasi del tutto scomparsi (anche se non proprio completamente) i professori che facevano volare i libretti, sbeffeggiavano gli allievi poco preparati e a ogni piccolo errore di grammatica o che, all’ascolto di qualche pronuncia straniera non proprio pienamente intonata, prorompevano in insulti e correzioni anche di natura ortopedica. Ne esistono però ancora molti che sanno esprimersi con gagliardia su una o più di queste nobili prestazioni.

I professori si sentono molto importanti. Nonostante tutto congiuri con molta evidenza a ridicolizzarne il ruolo, essi gonfiano ancora i petti e le piume, specie quando si tratta di umiliare, con ironìa naturalmente e una crudeltà raffinata e sottile, qualche allievo perché non dimostra ancora piena “competenza” nei prodigiosi misteri della “sua” materia.

Forse che davvero i nostri corsi, perlopiù effettuati in aule dove pascolano dai 100 ai 300 studenti, possono anche solo aspirare a fecondare efficacemente qualcuna di quelle giovani menti? Specie quando la spocchia ancora altamente diffusa cosparge i dettati delle suddette lezioni di raffiche di citazioni e di parolette altamente specie-specifiche?

Certo, oggi grazie a power point e ai sussidi video può accadere incidentalmente che qualcosa si incida su attenzioni assai tribolate da mille legittimi disturbi. E tuttavia sarebbe davvero ingenuo ritenere che quelle cosiddette lezioni possano davvero realizzare risultati di apprendimento. Per non parlare dei testi, massicci, noiosi e feroci per vocazione, inappetibili, e in numeri tali che chiunque cercherebbe di studiare mediante surrogati e fotocopie per quanto abborracciate.

Gli studenti cercano come possono di sgravare la pesantezza di questo trattamento così ben calibrato a creare ineffabili contesti di apprendimento. Alla fine l’unica soluzione è la scorciatoia, l’azzardo, l’astuzia luciferina.
E come dargli torto?
D’altra parte, per converso, gli studenti, in tal modo, hanno imparato a vivere i loro percorsi di studio esclusivamente come preparazioni ad esami. L’esame è il loro totem e l’unica esperienza che dia senso al loro esistere per alcuni anni. Anche di questo, un dio, il dio di queste istituzioni impossibili, dovrà un giorno rendere conto.

Personalmente, da sempre, cerco di trasformare gli esami in qualcosa d’altro. L’irruzione di queste procedure di polizia mi ha sempre disturbato, fin dalla scuola. Sempre ho ritenuto che se qualcosa di vivo è nato da un corso, quel qualcosa farà il suo effetto senza bisogno di esami. Se non è nato, o è nato morto, come accade per lo più, l’esame lo renderà ancor più esanime.

Che l’esame sia dunque una “restituzione”. Se il mio insegnamento è un dono, come lo ritengo (alla faccia di chi ci vuole dei seri professionisti dell’uso del sapere a fini giudiziari), allora il reciproco, se ci deve essere, che sia un dono: una restituzione. Ogni studente scelga una modalità espressiva che gli è congeniale per produrre una sua rielaborazione del percorso fatto e la doni in sede d’ “esame”, con le immagini, le parole, i suoni, i gesti. Poi eventualmente, a fini di perlustrazione del background, ci si potrà sbizzarrire ad approfondire.

L’esame perfetto sarà quello dove la restituzione sarà talmente originale, soggettivata eppure capace di rendere conto dell’esperienza fatta, da non richiedere alcun commento, alcun approfondimento, alcuna ulteriore pratica ispettiva.

Ma comunque sia nessun esame potrà nascondere la sua infamia profonda, il suo significato bieco, il suo essere strumento di una pratica ricattatoria finalizzata a sostenere un sistema incapace di giustificarsi e di sopravvivere altrimenti.

P.S.: Alcuni miei colleghi, quando vedono sul libretto (oggi non più, siamo stati digitalizzati, per me è un bene) i voti dei miei esami, spesso alti (anche perché uno studente che restituisce fa spesso miglior figura di uno che è messo sotto torchio), ridacchiano. Ah, questo voto l’ha preso con M, e si guardano tra loro con sguardi di complice ironìa. Finchè si potrà, perché di sicuro tra poco, con i nuovi sistemi di valutazione della didattica, sarò costretto a “erogare” prove oggettive e misurabili.
Quel giorno sarà anche il mio ultimo giorno però, per potermi guardare ancora in faccia.

mercoledì 19 marzo 2014

"Appunti di un naufrago" : i punti



Quindi mi piace mangiare da solo. Mi acquatto in un tavolino basso, un po’ periferico e, mentre mangio, con calma, senza fretta, esercito insensibilmente tutta la mia misantropìa. Guardo i cascami di mondo che mi rotolano vicino, sempre più deludenti, di cui forse anch’io, agli occhi altrui, costituisco una traccia, e borbotto pigramente tra me il mio sdegno.

Ragazzi già vecchi che festeggiano una laurea. Sono tutti fidanzati questi ragazzi, già hanno messo al riparo i loro desideri in una crisalide di cemento. Oppure coltivano freneticamente simulazioni di rapporti ingobbiti sopra i loro gigacellulari. Hanno finalmente i capelli corti, i ragazzi, e sono pasqualmente agghindate, di nuovo, le ragazze, con tacchi che palesemente le fanno barcollare, loro sempre calzate in nike e hogan. Di nuovo come negli anni ’50. Altro che godimento acefalo! Pronti per essere triturati dai nuovi sistemi flessibili del lavoro, agognanti una villetta famigliare, una macchinetta, un lavoro, un figlio, un nulla.

Guardo qualche vecchio residuo delle proteste di altri giorni, grigissimi, poverissimi, torturati dalla privazione. Qui ne vengono due a pranzo, sul tardi. Sono come fantasmi. Mi suscitano tenerezza e disperazione, lui e lei. Lui vecchio, con i capelli lunghi, biancastri, ovviamente vestito dentro qualcosa che sta tra la tuta e la tela di sacco. Lei un po’ più giovane, altrettanto grigia, altrettanto nella tela di sacco. Forse neocinici, forse vagabondi teatrali.

Poi ci sono i colleghi. Fanno puzza. Nervosi, si guardano in giro in cerca di qualcuno che li riconosca. A piccoli gruppi. Parlano di concorsi. Mangiano veloci, come roditori. Poco e veloce.

Oggi ci valutano a punti. Ho appena scoperto di essere stato estromesso da un collegio del mio dipartimento universitario. Non faccio abbastanza punti. Va da sé che collezionare punti non è proprio uno dei miei obiettivi prioritari, specie quando si tratta di scrivere per riviste quotate alla borsa dell’epistemologia in voga o di farsi notare a convegni purchè siano internazionali. O di pubblicare ma solo e comunque volumi massicci e farciti di inutili citazioni.

Non è il mio stile, io scrivo poco e concentrato, in volumi piccoli, che totalizzano 0 punti, anche se presumono di aver cose da dire. Nessuno di chi li giudica, misuratori di mediane, è neppure vagamente in grado di valutarne il contenuto o le sfumature dello stile, ma loro attribuiscono punti, come alzare palette, secondo il numero di pagine, le citazioni giuste, le case editrici riconosciute.

Non ce la posso fare in un mondo che viaggia a punti, a meno che non siano i punti di un gioco, dove alla fine però il punteggio è solo il trionfo virtuale, festivo, gratuito.

Qui si decretano i destini, con i punti. Anche i ragazzi, qui, al tavolo vicino, sorridenti e pieni di iniziativa, sono pronti a fare a punti, a internazionalizzarsi. Viaggiare fa bene…

Mangio, discreto, bevo anche alcolici, nessuno beve alcolici naturalmente a pranzo, non è un comportamento approvato per ottenere punti.

Il prossimo convegno quanti punti dà? Quanto devo pagare per partecipare? E quante parole deve contenere il mio abstract per essere accettato?
Non c’è più niente da ridere. E’ il sapere del fare. E’ il mondo del fare. Fare per avere punti.
Dia retta, faccia punti, poi si vedrà. Un domani non potranno che rivelarsi utili!

Io però, che ho avuto la fortuna di diventare professore prima che si abbattesse questa insania endemica, mangio piano, guardo, mi amareggio, compenso l’amarezza con una fetta di torta, che qui non sono neppure troppo chimiche. E sorseggio un lungo lungo caffè.

E penso a come scappare. Cerco una porta, che non vedo. Ma sono sicuro che c’è. Devo solo diventare più sensibile. Da qualche parte, magari ben nascosta, una porta, per uscire da questo letamaio, ci deve essere.

Buon appetito.

giovedì 6 febbraio 2014

La soluzione finale dell'arte



Ciò che è accaduto in questi giorni come ultimo atto del governo precedente (e dei molti che l’hanno preceduto) in merito alla storia dell’arte non ci deve stupire. E’ scandaloso, rivoltante, insostenibile ma non stupisce.

L’accanimento con cui le nostre istituzioni formative da sempre perseguitano i linguaggi simbolici (di cui l’arte e in particolare l’arte plastica non rappresentano che un caso, per quanto evidentemente paradossale e ingiustificabile) è pari solo alla demenza con cui affrontano invece i contenuti considerati indispensabili (tanto da renderli comunque indigesti ai suoi destinatari e dunque inefficaci).

Ma il caso dei linguaggi simbolici (arte, musica, cinema, poesia ecc.), che pure sarebbero immensamente in sintonìa sia con le attese che con le capacità di chi la scuola frequenta (i bambini e i ragazzi appunto), è assolutamente emblematico.

L’arte non è mai davvero entrata nelle nostre scuole se non in forme risibili e caricaturali, né lo hanno fatto la musica o la poesia o il cinema o la danza (se non in istituti rigidamente specializzati e dunque monchi comunque)...

Perché? Semplicemente perché mobiliterebbero aree esperienziali dell’individuo che da sempre sono state rimosse dall’intenzionalità formativa al potere (l’immaginazione in primis, l’intuizione, l’emozione, la sensibilità, il corpo ecc.). Le scuole da sempre hanno come unico bersaglio il cervello e solo di cervelli vogliono occuparsi (tutto in esse, dai luoghi alle posture all’organizzazione ai mezzi, parla della rimozione sistematica dei corpi, delle emozioni e dell’immaginazione). Non solo, l’idea di conoscenza che si veicola in quei luoghi di pena rispecchia un’epistemologia rigida, austera e irrimediabilmente antiquata. Solo contenuti altamente razionalizzati, premetabolizzati, concettualizzati e classificati. Mai un impatto che non sai mediato da quegli strumenti di riduzione sistematica che sono antologie e storie e manuali.

Del resto la stessa storia dell’arte ha potuto sopravvivere miseramente solo per quello: perché in essa l’arte è ridotta a informazione, a catalogo storicizzato, a rubrica deprivata d’ogni potere di fascinazione, di emozione, di partecipazione. Mai che l’arte (o la musica, o la stessa poesia), siano state il soggetto di un incontro plenario, senza che fossero seppellite sotto verbose introduzioni, inquadrate dentro griglie e periodizzazioni, sottoposte a giudizi, commenti, gerarchizzazioni.

Quando davvero l’arte ha potuto essere sperimentata nella sua immediata potenza espressiva, meditata e esplorata a fondo nell’inesauribilità dei suoi mondi immaginali?

Oggi ci lamentiamo della sua scomparsa dai palinsesti anoressoidi dei programmi scolastici. Ma quando ci si è lamentati del modo irrimediabilmente povero e paradossale con cui è stata trasmessa, in un modo che di certo non ha contribuito, come si vorrebbe talora pomposamente, a fare dei suoi studenti dei paladini della sua custodia e protezione, men che meno a farne un ingrediente vitale della nostra esperienza oltre che una via conoscitiva assolutamente indispensabile per coltivare uno sguardo sul mondo che non sia solo sfruttatore, profittatore e catalogatore?

Nel tempo peggiore di tutti, in cui nulla si salva che non sia strettamente indirizzato a rafforzare le competenze competitive (mi si perdoni la tautologia ma è “realistica”), quelle performative e soprattutto quelle spendibili e vendibili sul mercato, a poco vale evidentemente appellarsi alla sensibilità di legislatori che non hanno alcuno scrupolo a seppellire gli ultimi fuochi vitali della cultura.

Solo la nostra vigilanza e la nostra protesta può forse ancora far avvertire il delitto che si perpetra oggi come da molto però ai danni di ciò che di meglio l’uomo ha creato in questo mondo: le opere della sua immaginazione creatrice. In esse è riposto l’elisir per comprendere la terra e la sua interiorità senza stuprarla con la nostra volontà di dominio. I poeti, gli artisti, i compositori, i coreografi, i registi, quelli capaci di intendere a fondo l’intimità delle cose, ci consentono di partecipare e non di sfruttare il volto del mondo. Il loro appello, se fosse inteso, ci volgerebbe a un atteggiamento più devoto, più meditante, più integro, perché i poeti e gli artisti adempiono un compito unico e insostituibile: restituire le cose a sé stesse, quello che Rainer Maria Rilke definiva affidare il visibile all’invisibile.

E oggi, nel tempo della massima visibilità, anzi dell’oscenità del visibile, il bisogno primario di tutti noi, e dei nostri figli anzitutto, è proprio quello, come mi sforzo di sostenere da molti anni, di coltivare l’ascolto ricettivo delle opere dei poeti, delle creazioni dell’immaginazione simbolica, uniche forme di creazione ove risuoni non il prometeismo dell’uomo del fare ma una comprensione stupita, incerta e pronta a riconoscere ad ogni infinitesima parte del tutto, il diritto ad essere e ad essere secondo la sua intima e irriducibile singolarità.