la gaia educazione

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martedì 10 giugno 2014

L'epoca dei numeri tristi (e infami)




L’orrore avanza, implacabile. Nell’epoca in cui, con pieno plauso dei nuovi yuppies accademici tutti prestazione e internazionalità, si valuta sempre di più il numero delle pubblicazioni e non quello che c’è dentro; la lingua in cui sono scritte (purché sia l’inglese, unica lingua che fa punti) e non certo il tema; la rivista su cui appaiono, che deve essere mainstream anche se palesemente conformista e ripetitiva; ebbene in quest’epoca, quella in cui la valutazione di tutto diventa così reticolare e capillare che uno si chiede se verrà valutato anche sul come riempie la tazza del cesso, e se questo verrà reso pubblico (aggiorno gli ultimi disinformati che da quest’anno anche le nostre università, come le prestigiosissime e intramontabili anglosassoni, esporranno le valutazioni assegnate dagli studenti ai docenti in un autentico tripudio di democrazia valutativa: non perdetevele! Come dire, invece di rinnovare e magari eliminare le valutazioni che impallinano da sempre gli studenti sostituendole con qualcosa di più sensato, la cosa migliore è mettere sotto tiro qualunque cosa si muova. So che dire questo mi fa cattiva pubblicità davanti al nutrito fronte valutazionista, uno dei pochi fronti del tutto transpolitico e interclassista ma pazienza), ebbene, dicevo, la quantità sempre più trionfa.

Ieri mi capita sott’occhio la pubblicità di un convegno pedagogico, su un argomento sempre "hot", l’adolescenza. La pagina iniziale di informazione del convegno è una vera e propria summa dei valori del nostro tempo: il calcolo e il nulla. Accanto alle foto di tutti i relatori, che ruotano avanti e indietro grazie a un click (non vi dico quanto invoglia andare a un convegno dopo aver visto le brutte facce dei suoi relatori ma va da sé, è molto trendy, molto americano), accanto, subito vicino, campeggia a lettere cubitali la descrizione del convegno, il suo sex-appeal: “due plenarie, 14 workshop, oltre 30 relatori”, alè, chi più ne ha più ne metta. “Oltre 30 relatori” è fantastico, è stratosferico, è troppo fico! Oggi i convegni vanno a numeri di relatori. Capisco che la quota del convegno, che non enuncio per carità di patria, visto che è un convegno italiano, sia parecchio alta e vada giustificata. E allora vai con un numero competitivo di workshop e un numero super di relatori: signori e signori, siamo oltre i 30!
Poi nient’altro, non il programma, (criptato sotto l’elenco dei relatori e dei workshop), solo una lista di argomenti piuttosto appealing: cyberbullismo, sessualità, devianza, autolesionismo ecc. ecc. (il solito ritratto agghiacciante dei poveri ado, qui definiti “supereroi fragili”). C'è anche un video(ormai immancabile nel marketing convegnistico), con uno scoppiettante intervistatore e l'introduzione del coordinatore scientifico.

Inorridisco.

Capisco di essere sempre più fuori tempo e non mi stupisco che l’autorevole critico letterario di “Italia oggi”, giornale peraltro autorevolissimo, abbia definito il mio ultimo libro “vintage e chic”. Va bene così. Sono vintage e chic, o forse voleva dire kitsch. Chissà mai.
Meglio vintage di questa merda però.

P.S. : sì, me lo hanno detto che un buon bloggista non dovrebbe fare troppo l’arrabbiato, non dovrebbe usare un linguaggio scurrile, dovrebbe essere positivo (per avere seguito, per essere “followed”). E va bene, non sarò followed. Però il mio risentimento, con buona pace del caro Nietzsche, ogni tanto bisogno che lo scarichi. E, come diceva il vecchio menestrello bolognese, uno super vintage, anzi oramai da fiera dell’antiquariato, a culo tutto il resto!

sabato 12 ottobre 2013

Basta con il trito rito della haute culture!



A C.T., intellettuale di strada incontrato nella mia lontana adolescenza

Come è estenuante il balletto della cultura, sempre così prevedibile, così aristocratico, così appartato! La pletora di conferenze, convegni, seminari, workshop, come si chiamano ora, è diventata incontenibile e, al tempo stesso, nel suo moto d’inflazione rovinosa, più che mai separata, vuota e malsana.

Un piccolo universo di esseri umani compiaciuti (e certo lo so, anch’io lo sono e lo sono stato ahimè) e persuasi di dominare il caos, che si raduna in luoghi invisibili a perpetuare rituali a dir poco logori e inservibili. Persone che gareggiano, lontani da tutto, a misurare chi è in grado di produrre il maggior numero di riferimenti difficili oppure semplicemente che si sfidano a farcire la propria prosa delle connessioni più vertiginose e improbabili. Occasioni dalle quali, il malcapitato che non appartenga al ristrettissimo circolo degli iniziati, può solo recedere confuso e mortificato.

Tutto questo non è davvero nuovo ma la misura della sua diffusione, anche esibita dalle molte vesti che essa assume nella rete, la rende oscenamente invasiva (quanto deludente).

Quando finiremo di abusare della conoscenza per farne un uso esclusivamente onanistico? Quando troveremo (di nuovo, perché talora qualcuno ci ha provato) il coraggio per promuovere solo opere davvero esplosive e degne di impatto verso un pubblico “in opera” e non “in vitro”, che sia altro dagli specialisti e rivolto a loro quando abbiano assunto la forma idonea a incontrarlo, sollecitarlo, inquietarlo?

Sia chiaro, le intenzioni buone, l’operosità emerita, la qualità eccelsa delle materie e delle elocuzioni, restano talora fatti evidenti, pur nel loro nascondimento.

E tuttavia trovo non sia più sopportabile il birignao degli intellettuali che ironizzano e prendono le distanze da tutto ciò che non è il loro peculiare e proprio-ombelicale punto di vista sul mondo. Non è più sopportabile la spocchia, lo snobismo, il cacofonismo delle loro loquele aristocratiche e impraticabili. I derridiani, i lacaniani, i deleuziani, i post e gli alter, gli psico e gli antro, i neo e i wu e i tiq e i qun.

E’ da quando mi ricordo che queste congreghe, non più popolari delle logge massoniche, celebrano le loro messe, senza alcuna convivialità per altro, al ritmo funereo della glossa e dell’ipercitazione. Capisco che la flemma pachidermica e l’arguzia poststrutturalista necessiti di spazi stretti e di pubblici eletti, nonché di una buona dose di autopunizione. E tuttavia mi chiedo se non si avverta l’esigenza di uscire all’aperto, di mettere corpo nei discorsi, di depaludare le prose e di sporcarsi in operazioni forti, finalmente visibili e sensibili. E non penso certo ai festival, marketing pur sempre recintati, buoni per turisti del sapere e lettori debosciati. Se non sia di nuovo il momento di fare cultura con un martello migliore, più rumoroso, meno autoriferito.

Vorrei filosofi neokinici che si ostentino alla folla, vorrei dei Savonarola, non certo i miti esercitatori delle miti ascetica stoica o edonistica epicurea. Vorrei sentir tuonare nei treni e nelle metropolitane, vorrei carri di affabulatori feroci che impediscano il traffico e sfidino il flusso frenetico delle merci. Non miserabili raduni di commilitoni sparuti nei retrobottega di librerie irreperibili anche sulle mappe più fini.

Vorrei immolazioni e orazioni, pubblica denuncia non via internet ma nelle strade, caravanserragli di un sapere detto e fatto su misura, nella forma dei luoghi, siano esse piazze, cortili, boschi o spiagge. Il filosofo che soppianta il dj in discoteca, sommergendo gli astanti con il verbo infiammato di Nietzsche o le poesie di Celan (magari con una musica autenticamente hard-heavy-metal). Vorrei sentire gridare le poesie di Pasolini o le insolenze di Artaud nei mezzanini della metropolitana, davanti alle caserme di polizia, ai caselli della autostrade, nei piazzali della grande logistica.

Vorrei vedere i filosofini, i critici letterari, gli psicantropi, armarsi di pennelli e di vernici e riprovare a scrivere sui muri le parole che scambiano tra loro al mercatino della vanità.

Vorrei sentire in permanenza voci forti e irriducibili scatenare la prosa antica e quella del grande teatro dell’assurdo davanti ai palazzi del potere, nelle piazze gremite, nei concerti di musica rock (qualche anno or sono le le lezioni in piazza ne furono un timido avamposto).

Se non altro, renderanno più forte la loro voce, più affilate e precise le loro parole, più soda e scura la propria carne, esposti alle intemperie e agli insulti ma anche alle ovazioni e all’abbraccio di qualcuno improvvisamente rinsavito, rinato, guarito!

E a chi crede alla scorciatoia dei magna media, delle televisioni e dei giornali, sappia che di lì il suo sapere ritorna letame ma letame sfatto, avvelenato e defunto. Di lì, dallo spettacolo massacrato dalla pubblicità, esce solo la morte, la Morte anzi, con la m maisucola, dalla quale non si torna indietro.

Dei seminari, delle conferenze, dei convegni dai quali mai è scaturito nulla, non si può più neanche sentire parlare. Occorre che chi sa, se sa davvero (e non fingo di non sapere che il sapere, per farsi, deve pure avere fermentato in qualche tiepido alambicco), faccia sapere, brandisca il suo sapere come arma, in giro per il mondo, all’aperto, non più il godemiché su misura per le agonìe dei “giusti” in qualche club privé.