la gaia educazione

la gaia educazione

domenica 15 gennaio 2017

Il desiderio di Alcibiade (2006)












“Ho bisogno d’un amante che, ogni qual volta si levi,
produca finimondi di fuochi da ogni parte del mondo!

Voglio un cuore come inferno che soffochi il cuore dell’inferno
Sconvolga duecento mari e non rifugga dall’onde!

Un Amante che avvolga i cieli come lini attorno alla mano
E appenda, come lampadario, il Cero dell’Eternità,

Entri in lotta come un leone, valente come Leviathan,
non lasci nulla che se stesso, e con se stesso anche combatta,

e, strappati con la sua luce i settecento veli del cuore,
dal suo trono eccelso scenda il grido di richiamo sul
mondo
e, quando , dal settimo mare si volgerà ai monti Qâf misteriosi
da quell’oceano lontano spanda perle in seno alla polvere!”

(Gialâl ad-Dîn Rûmî)



Nostalgia misterica

In una cultura pedagogica così priva di fascino e di magìa, così desertificata e spogliata da ogni traccia di ritualità, disboscata da ogni tensione iniziatica o da una anche soltanto tenue atmosfera di mistero, quali mai potranno essere i caratteri precipui della cosiddetta “relazione educativa” (espressione abbastanza schematica e astratta da essere buona per ogni stagione e ogni “impiego” )? Quale densità, profondità, caratura potrà mai caratterizzarla e qualificarla? Quali saranno le forme della sua manifestazione se non quelle così malinconicamente esibite nell’ordine geometrico e raggelato delle “buone maniere”, dei protocolli surgelati dalla retorica didattista e che appaiono per lo più il riaffioramento imbellettato di psicologismi di un galateo solo un po’ più manipolatorio e zuccherato con qualche dose di empatia o di maternage a buon mercato?

L’ortopedìa istituzionale del gesto educante e del comportamento discente così profondamente interiorizzati ed esibiti nel grigiore dei termini, dei discorsi, degli abiti, dei gesti, delle forme diffusi nel mondo educativo odierno, ben esprime la povertà infinita e il disseccamento ascetico cui è giunto il contatto ustorio più antico del mondo dopo quello paterno e materno.

Quale nostalgia per lo spazio misterico e cerimoniale di un’iniziazione, quale desiderio di spoliazione e di investimento, di preparazione e somministrazione di gesti calibrati e necessari, di pratiche, di formulari capaci di ispessire e approfondire incontri impegnativi e complessi ormai avviliti, detersi e bonificati da ogni attesa e timore!

La relazione educativa è perlopiù, salvo qualche rara eccezione rintracciabile comunque in ambiti extraistituzionali, piatta come l’elettroencefalogramma di una salma sul tavolo dell’anatomista, esternata in quelle sale operatorie, a giudicare dall’aspetto, che sono le aule delle nostre scuole e Università. Scialbo transito incapace di generare e di segnare in alcun modo, dentro scene prosciugate da ogni velleità di bellezza, dove i “funzionari” di un processo sopportato e patito più che desiderato e incarnato, impiegati privi di carisma e all’oscuro di ogni consapevolezza liturgica, appaiono come comparse evanescenti degne soltanto del tempo misero e disorientato del quale sono espressione.

Non ci sono corpi né anime a dialogare dentro l’aere mummificato delle aule e dei laboratori istituzionali e ben presto, con condiviso consenso e plauso, anche questi ultimi saranno risucchiati nell’iperspazio della “Rete” e forse chissà, proprio allora riemergerà, come già accade, una forma forse un po’ traviata di esoterismo da fibra ottica, tuttavia sapientemente agghindato di maschere, linguaggi cifrati, nuove forme di segretezza (pseudonimi, password, segnature) e di affiliazione.

Il processo di imbalsamazione della relazione educativa inaugurato da Rousseau, come aveva ben messo in rilievo Schérer (1976) a suo tempo, e perfezionato dalla moderna psicologia dell’apprendimento, è arrivato al suo capolinea e finalmente oggi la relazione educativa ha perduto, almeno alla superficie, ogni lato oscuro, ogni peculiarità, ogni enigma degno di essere interrogato, ogni sottofondo. Tutto è stato rivoltato e esposto e castrato con il risultato che la relazione educativa è pronta per essere trasferita in blocco in una programmazione ingegneristica perfettamente lineare e forse neppure a doppia entrata. All’insegna dell’utile e della razionalizzazione, la relazione educativa si avvia ad essere definitivamente sistematizzata e cablata affinché possa essere “fruita” direttamente a casa o ovunque tramite videoconferenza, videoteloefonino, o videochip installato nel cranio.


Carne e sangue

Dire che la relazione educativa ha bisogno di essere rivitalizzata appare ormai un vezzo triste e un po’ snob da autentici Tartarini di Tarascona; eppure, per chi come me è tenacemente avvinghiato ad un’idea che forse neppure mai si è realizzata, una sorta di “utopia” educativa dunque, se proprio se ne deve parlare, non può che toccare la funzione, ingrata a vero dire, di riproporre la necessità di pompare sangue, umori, anima, pathos e significato dentro il corpo esanime di questa “cosa”.

Il tempo sacrificale della perdita e dei segni marcati sulla carne, ma anche quello dell’amore di bellezza che sospingeva Alcibiade, nel Simposio, a lodare le belle immagini (agalma) impresse nell’animo di Socrate ( lodi che giustamente, con la consueta malizia, Lacan intuisce che erano probabilmente rivolte al bell’Agatone (Lacan, 1991)), o ancora l’introduzione rituale, scandita in gradi, dell’adepto ai misteri alchemici della Grande Opera, tutto questo e molto altro sopravvive solo nell’inconscio più buio delle istituzioni, negli scantinati da dove ogni tanto erompe rabbiosamente e riemerge in forme deviate, pervertite, capovolte (ma anche sintomatiche, più di quanto una lettura superficiale potrebbe indurre a credere…).

Ma questa “latenza” o comunque la significatività profonda di tali pratiche, che poi si traducono nel bisogno di setta, di sigla, di tracce sul corpo e di accesso ai misteri delle sostanze ma nella totale ignoranza del loro senso e delle loro forme, questa “attesa” fondamentale, non può essere completamente soffocata o semplicemente ottimizzata (!).

La relazione educativa è qualcosa di altamente “transizionale”, rituale, e non si celebra senza che qualcosa di rovente e di ineludibile si affacci, pena la sua insensatezza. Essa non si dà autenticamente in mancanza di un’azione in cui un sigillo, un crisma, una marcatura profonda vengano impressi sulla carne viva.

Occorre, a mio giudizio, “riesumare”, anche se in forme nuove, gli elementi “mitici” del fare educazione, nel loro senso più autentico, non certo in una letteralità naturalistica da ricostruzione archeologica, ma secondo vere traiettorie di analogia, di corrispondenza, di somiglianza.

James Hillman ha di recente (Hillman, 1997) correttamente richiamato alla necessità di una figura di “mèntore” nell’educazione del giovane, di qualcuno capace cioè, in virtù del possesso di una affinata sensibilità immaginativa, di riconoscere il “dàimon”, la vocazione irriducibile, la “ciascunità” che si manifesta nella fisionomia (ma sarebbe meglio dire “fisiognomia” o forse addirittura “corpo flebotomico” come quello su cui operava la vecchia medicina astrologica, perché di questo si tratta), fisica e comportamentale di ogni giovane. Il quale ha bisogno di essere “percepito” da uno sguardo che sappia esplorarne, proprio nel dettaglio complicatissimo del suo manifestarsi, le attese e le possibilità, come se fosse una materia da cui l’artista sensibile dovesse trarre la forma latente e virtuale, quella sola che anela a emergere.

Eppure questa qualità mentoriale, che è certamente sana e giusta, rischia di rivelarsi un’altra possibile preda della capitalizzazione dei talenti che sta tanto a cuore del nostro sistema formativo imballato, se si trasforma in un altro kit da talent scout di buona volontà, e in particolare se non si accompagna con un veritiero Eros educativo. Infatti, e mi permetto di citare un mio pezzo di un paio d’anni fa, “nessuno è mèntore per professione, mèntore è uno stato dell’esistere, o forse dell’essere. Accade di trovarsi mèntori o di trovarsi adepti di mèntori, per breve tempo e per sorte, per un elezione che è tramata da sottili percorsi degli affetti e dei sensi, delle simpatie che attraggono gli elementi, specialmente quelle dei fluidi e delle materie, di una mancanza che si incastra con una effusione, o di due nostalgie che si illuminano attraverso la medesima sorgente”(Mottana, 2005, 217).

E’ infatti l’Eros in definitiva l’unico autentico agente di trasmutazione della relazione educativa da pratica di commercio informativo in quel contatto ustorio e sulfureo di cui si parlava, in una unione di presenze viventi (che sono i corpi, i cuori, le carni e i saperi o sapori profondi dei protagonisti di tale non semplice vicenda).

L’incontro antichissimo di erastes ed eromenos, così come veniva rappresentato dagli antichi nostri progenitori, ricco di componenti seduttive e anche carnali (Buffière, 1980), giace rimosso sotto i plurimi strati della cultura del controllo e della educastrazione. Ma vi giace comunque, e quanto più giace laggiù, obliato e irriflesso, tanto più, quando si manifesta, lo fa con le tinte cupe e violente dell’abuso e del vuoto di senso.

In verità ancora oggi l’eromenos aspetta il suo erastes, il pàis attende il suo mèntor, (e davvero questo è sensibile, evidente), come il solco terrestre attende il seminatore. Allo stesso modo il gesto educativo abortisce, non genera nulla se non accondiscendendo ad un’attesa magnetica e irriducibile, all’irradiamento ineludibile del suo stesso desiderio.

Eros fuggitivo

Ma come attingere tale Eros, come propiziarlo, come invocarne la venuta, visto che pur sempre di un’ispirazione numinosa si tratta?

Non certo caricandosi di buone intenzioni, né con i buoni sentimenti. Eros è qualcosa che impregna l’atmosfera e che si avverte come un profumo, conturbante e irriducibile, e che può essere evocato anzitutto costruendo lo spazio e il tempo adatto al suo manifestarsi. Occorre modellare lo spazio, rifarlo metaforicamente, circoscrivendolo con confini simbolici e al tempo stesso percepibili, distinguendo tempi, modi, gesti ( a ciascuno la ricerca di una simbolica capace di propiziare l’arrivo di Eros).

Si tratta di trovare, ma sono lì da sempre in verità, le procedure, le forme cerimoniali, la liturgia adatta a sprigionare il senso e i sensi dell’atto educativo nella sua integrità. Amministrando tutto ciò che è a nostra disposizione, dalla parole alla materia, dagli abiti agli oggetti, dai testi alle immagini ai suoni, affinché siano carichi di vita, ricchi di bellezza, pregni di significato intuibile, percepibile, ad irrigare e fecondare gli ambienti svuotati e disanimati in cui normalmente si svolge l’agire educativo. Evitando scrupolosamente tutto ciò che entropizza la relazione, come la maggior parte dei libri, dei linguaggi, dei sussidi didattici spenti e mortificatori, capaci solo di invertire le potenzialità di appassionamento e di realizzare alchimie abortite, come quelle che affliggono la gran parte delle proposte d’apprendimento della scuola (in cui ciò che si studia diventa, ipso facto, inservibile e come disinnescato nel suo potenziale inesauribile di arricchimento e fecondazione).

E’ questa la cura essenziale, che riguarda il luogo, il tempo, la geografia simbolica (geosofìa) della “terra promessa” dell’educazione. Ad essa naturalmente deve far riscontro lo spossessamento, il dissolvimento dagli infiniti stereotipi che chi insegna ed educa ha introiettato come veleno, dalle formazioni disciplinari che hanno specie negli ultimi anni imperversato nella formazione e nella sua “cultura”.

Spogliarsi dalle inibizioni, dalle categorizzazioni falsificatrici, dalle ingessature psicologistiche e maternalistiche, ma anche da quelle paternalistiche, dalla induzione alla patologizzazione e alla paranoia generalizzata, per lasciar germogliare il desiderio di educare e condividere questa esperienza unica e ipercomplessa, ma ance infinitamente appassionante che è. Occorre disinibirsi e osare, con molta più fantasìa e anche una certa propensione alla trasgressione.

L’esercizio dell’Eros, ma dire esercizio è scorretto, l’ispirazione di Eros, meglio, che si traduce in dono, generosità, effusione, sperpero di sé, richiede un autentico coraggio operativo e il contatto con la propria dimensione desiderante.

Amare Alcibiade

Esso può darsi solo, per esempio, se si ama veramente coloro con i quali si condivide questa esperienza. Non si può insegnare a chi non si ama (spesso oltretutto ciò che non si ama), a chi non sentiamo prossimo, a chi non è avvertito come partner interiore.

L’insegnante, ci ha insegnato la psicoanalisi, ripara le sue ferite relazionali, le sue frustrazioni, i suoi bisogni generativi, insegnando, ma soprattutto vi costella i suoi desideri e le sue presenze interne. Senza possedere ancora viva l’infanzia dentro di sé non si può insegnare ai bambini, senza l’adolescenza agli adolescenti, senza la minorazione vissuta e patita agli handicappati. E forse sarebbe più radicale e vero dire che non si può insegnare a chi è più giovane di noi senza avvertire in noi la presenza ispiratrice dei valori profondi e dei sentimenti irriducibili dell’infanzia, dell’adolescenza e senza sentire la potenza inscritta in uno sguardo “minore” e perfino “minorato” (sempre meglio in ogni caso che maggiorato, adulterato e adulteratore).

E qui si tratta però di un amore non superficiale, non dell’amor del prossimo che appiattisce tutto e tutti in un vago sentimento astratto di benevolenza e di insipida propensione alla relazione. Non basta assumere ogni mattina, insieme al caffè, un poco del catechismo della cura degli altri. Occorre più urgenza, riconoscere la bellezza, sentire i corpi, l’energia spirituale, l’anima, desiderare con ardore.
Almeno uno dei nostri allievi, che sia il nostro Alcibiade, il nostro Agatone! Almeno per lui essere belli e indossare la bellezza, quella del nostro compito e delle materie che manipoliamo e che desideriamo siano veramente apprezzate, sottraendole anche all’infausta congiura che le ha spezzate, frantumate, ibernate e restituite in vesti stanche, neutralizzate, poco accattivanti,come nei “manuali”, nelle antologie, in tutte le forme di sistematizzazione e di formalizzazione schematistica che azzerano ogni vocazione, ogni principio di senso, ogni distinzione, forma, originalità ( e bellezza, naturalmente).

Pensando ad Alcibiade preparare con cura il nostro aspetto, desiderare di esserci, avere premura persino, diventare insofferenti agli ostacoli, ai ritardi, dimenticare la noia, la desolazione, la bruttezza che spesso ci circonda. Allora forse il cuore del vostro allievo, ma anche quello degli altri, si accenderà per simpatìa a contatto con il nostro fuoco, in un processo chimico suscitato dall’affinità, dalla corrispondenza, dal magnetismo sprigionato dall’Eros.

Alchimia cordis

Insegnare è fare dono infinito di sé e solo il desiderio forte e appassionato può commuovere i banchi inchiodati, le strutture frigide, gli ambienti claustrali delle nostre istituzioni, così come gli animi pallidi e sfiduciati di chi vi abita spesso un tempo di cui si attende mestamente solo la fine.

Insegnare è provare desiderio in carne e sangue, anima e corpo. Non illudiamoci di poter intraprendere l’atto d’iniziazione al sapere, ad ogni forma del sapere, che è sempre rinvio ad un unico grande sapere, il sapere che proviene dall’esperienza del mondo in tutti i suoi aspetti -e che dunque è in sé qualcosa di ben diverso dalle miserande concrezioni che assume nell’accademismo e nei suoi feticismi “libreschi”-, con il balsamo esangue di un po’ d’empatìa, con le regoline della buona comunicazione o con le pie intenzioni dei vari breviari sulla relazione efficace.

L’agente chimico, sulfureo e mercuriale insieme, che può innescare una vera trasformazione, dunque una relazione educativa non fasulla ma davvero iniziatica, giace nei tessuti profondi della nostra carne ed esso è il desiderio, la vecchia libido del dottor Freud , l’Eros. In assenza di questo, così come per lo stesso padre della psicoanalisi, subentra il ritiro, il principio mortifero e pestilenziale della noia, della rinuncia, della routine.

Per propiziare la sua emergenza occorre pazienza ma anche entusiasmo, individuazione dei linguaggi più adatti, specie quelli immaginativi, da sempre ripudiati dalle istituzioni educative ma che restano quelli capaci di mediare meglio l’irriducibilità imperscrutabile del mistero del sapere con la sfolgorante veste che esso può assumere nelle sue infinite forme, e quelli corporei, idonei per impegnare l’integrità dell’essere nella riscoperta e rinnovata espressione dei suoi elementi fondamentali.

L’Eros si accende nei luoghi in cui il fuoco “mitico” del significato ritrova i suoi veicoli, ed essi sono la bellezza, il rito, il mistero, l’immaginazione poetica, il canto, la vibrazione simpatetica del tutto che possono rendere di nuovo lo spazio dell’educazione e delle relazioni che si consumano al suo interno un microcosmo denso, sanguigno, palpitante, perfetta riproduzione analogica del suo motore primo, essenziale, inaggirabile, il muscolo di vita chiamato cuore, autentica materialità formativa in azione.