la gaia educazione

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sabato 22 marzo 2014

"Appunti di un naufrago": il fascin-(sm)-o indefettibile dell'esame



Per molti docenti l’esame è un evento di culto, specie in epoca di valutazionismo “totale”. E’ qualcosa di molto serio, addirittura di sacro, da tenere al riparo da ogni disincanto. Essi, ritenendo fondamentale e imprescindibile il contributo che danno alla cultura, l’efficacia del proprio insegnamento e realisticamente introiettabile la quantità di informazioni programmata per lo studio e incorporata in un certo numero di libri solitamente di ostica lettura, si avviano alle prove con portamento altero e supponente (come sempre per altro).

Agli esami si fanno un vanto di sottoporre a un serrato interrogatorio (porre sotto esame e interrogare sono procedure di polizia), i loro studenti. Alla fine di questi interrogatori, in cui, occorre dirlo, sempre più spesso la sfacciata propensione al dialogo è squisitamente esibita, così come l’attitudine falsamente empatica, molti colleghi fanno fioccare i numeri con ammirevole perizia e impareggiabile cinismo.

Sono quasi del tutto scomparsi (anche se non proprio completamente) i professori che facevano volare i libretti, sbeffeggiavano gli allievi poco preparati e a ogni piccolo errore di grammatica o che, all’ascolto di qualche pronuncia straniera non proprio pienamente intonata, prorompevano in insulti e correzioni anche di natura ortopedica. Ne esistono però ancora molti che sanno esprimersi con gagliardia su una o più di queste nobili prestazioni.

I professori si sentono molto importanti. Nonostante tutto congiuri con molta evidenza a ridicolizzarne il ruolo, essi gonfiano ancora i petti e le piume, specie quando si tratta di umiliare, con ironìa naturalmente e una crudeltà raffinata e sottile, qualche allievo perché non dimostra ancora piena “competenza” nei prodigiosi misteri della “sua” materia.

Forse che davvero i nostri corsi, perlopiù effettuati in aule dove pascolano dai 100 ai 300 studenti, possono anche solo aspirare a fecondare efficacemente qualcuna di quelle giovani menti? Specie quando la spocchia ancora altamente diffusa cosparge i dettati delle suddette lezioni di raffiche di citazioni e di parolette altamente specie-specifiche?

Certo, oggi grazie a power point e ai sussidi video può accadere incidentalmente che qualcosa si incida su attenzioni assai tribolate da mille legittimi disturbi. E tuttavia sarebbe davvero ingenuo ritenere che quelle cosiddette lezioni possano davvero realizzare risultati di apprendimento. Per non parlare dei testi, massicci, noiosi e feroci per vocazione, inappetibili, e in numeri tali che chiunque cercherebbe di studiare mediante surrogati e fotocopie per quanto abborracciate.

Gli studenti cercano come possono di sgravare la pesantezza di questo trattamento così ben calibrato a creare ineffabili contesti di apprendimento. Alla fine l’unica soluzione è la scorciatoia, l’azzardo, l’astuzia luciferina.
E come dargli torto?
D’altra parte, per converso, gli studenti, in tal modo, hanno imparato a vivere i loro percorsi di studio esclusivamente come preparazioni ad esami. L’esame è il loro totem e l’unica esperienza che dia senso al loro esistere per alcuni anni. Anche di questo, un dio, il dio di queste istituzioni impossibili, dovrà un giorno rendere conto.

Personalmente, da sempre, cerco di trasformare gli esami in qualcosa d’altro. L’irruzione di queste procedure di polizia mi ha sempre disturbato, fin dalla scuola. Sempre ho ritenuto che se qualcosa di vivo è nato da un corso, quel qualcosa farà il suo effetto senza bisogno di esami. Se non è nato, o è nato morto, come accade per lo più, l’esame lo renderà ancor più esanime.

Che l’esame sia dunque una “restituzione”. Se il mio insegnamento è un dono, come lo ritengo (alla faccia di chi ci vuole dei seri professionisti dell’uso del sapere a fini giudiziari), allora il reciproco, se ci deve essere, che sia un dono: una restituzione. Ogni studente scelga una modalità espressiva che gli è congeniale per produrre una sua rielaborazione del percorso fatto e la doni in sede d’ “esame”, con le immagini, le parole, i suoni, i gesti. Poi eventualmente, a fini di perlustrazione del background, ci si potrà sbizzarrire ad approfondire.

L’esame perfetto sarà quello dove la restituzione sarà talmente originale, soggettivata eppure capace di rendere conto dell’esperienza fatta, da non richiedere alcun commento, alcun approfondimento, alcuna ulteriore pratica ispettiva.

Ma comunque sia nessun esame potrà nascondere la sua infamia profonda, il suo significato bieco, il suo essere strumento di una pratica ricattatoria finalizzata a sostenere un sistema incapace di giustificarsi e di sopravvivere altrimenti.

P.S.: Alcuni miei colleghi, quando vedono sul libretto (oggi non più, siamo stati digitalizzati, per me è un bene) i voti dei miei esami, spesso alti (anche perché uno studente che restituisce fa spesso miglior figura di uno che è messo sotto torchio), ridacchiano. Ah, questo voto l’ha preso con M, e si guardano tra loro con sguardi di complice ironìa. Finchè si potrà, perché di sicuro tra poco, con i nuovi sistemi di valutazione della didattica, sarò costretto a “erogare” prove oggettive e misurabili.
Quel giorno sarà anche il mio ultimo giorno però, per potermi guardare ancora in faccia.

mercoledì 19 marzo 2014

"Appunti di un naufrago" : i punti



Quindi mi piace mangiare da solo. Mi acquatto in un tavolino basso, un po’ periferico e, mentre mangio, con calma, senza fretta, esercito insensibilmente tutta la mia misantropìa. Guardo i cascami di mondo che mi rotolano vicino, sempre più deludenti, di cui forse anch’io, agli occhi altrui, costituisco una traccia, e borbotto pigramente tra me il mio sdegno.

Ragazzi già vecchi che festeggiano una laurea. Sono tutti fidanzati questi ragazzi, già hanno messo al riparo i loro desideri in una crisalide di cemento. Oppure coltivano freneticamente simulazioni di rapporti ingobbiti sopra i loro gigacellulari. Hanno finalmente i capelli corti, i ragazzi, e sono pasqualmente agghindate, di nuovo, le ragazze, con tacchi che palesemente le fanno barcollare, loro sempre calzate in nike e hogan. Di nuovo come negli anni ’50. Altro che godimento acefalo! Pronti per essere triturati dai nuovi sistemi flessibili del lavoro, agognanti una villetta famigliare, una macchinetta, un lavoro, un figlio, un nulla.

Guardo qualche vecchio residuo delle proteste di altri giorni, grigissimi, poverissimi, torturati dalla privazione. Qui ne vengono due a pranzo, sul tardi. Sono come fantasmi. Mi suscitano tenerezza e disperazione, lui e lei. Lui vecchio, con i capelli lunghi, biancastri, ovviamente vestito dentro qualcosa che sta tra la tuta e la tela di sacco. Lei un po’ più giovane, altrettanto grigia, altrettanto nella tela di sacco. Forse neocinici, forse vagabondi teatrali.

Poi ci sono i colleghi. Fanno puzza. Nervosi, si guardano in giro in cerca di qualcuno che li riconosca. A piccoli gruppi. Parlano di concorsi. Mangiano veloci, come roditori. Poco e veloce.

Oggi ci valutano a punti. Ho appena scoperto di essere stato estromesso da un collegio del mio dipartimento universitario. Non faccio abbastanza punti. Va da sé che collezionare punti non è proprio uno dei miei obiettivi prioritari, specie quando si tratta di scrivere per riviste quotate alla borsa dell’epistemologia in voga o di farsi notare a convegni purchè siano internazionali. O di pubblicare ma solo e comunque volumi massicci e farciti di inutili citazioni.

Non è il mio stile, io scrivo poco e concentrato, in volumi piccoli, che totalizzano 0 punti, anche se presumono di aver cose da dire. Nessuno di chi li giudica, misuratori di mediane, è neppure vagamente in grado di valutarne il contenuto o le sfumature dello stile, ma loro attribuiscono punti, come alzare palette, secondo il numero di pagine, le citazioni giuste, le case editrici riconosciute.

Non ce la posso fare in un mondo che viaggia a punti, a meno che non siano i punti di un gioco, dove alla fine però il punteggio è solo il trionfo virtuale, festivo, gratuito.

Qui si decretano i destini, con i punti. Anche i ragazzi, qui, al tavolo vicino, sorridenti e pieni di iniziativa, sono pronti a fare a punti, a internazionalizzarsi. Viaggiare fa bene…

Mangio, discreto, bevo anche alcolici, nessuno beve alcolici naturalmente a pranzo, non è un comportamento approvato per ottenere punti.

Il prossimo convegno quanti punti dà? Quanto devo pagare per partecipare? E quante parole deve contenere il mio abstract per essere accettato?
Non c’è più niente da ridere. E’ il sapere del fare. E’ il mondo del fare. Fare per avere punti.
Dia retta, faccia punti, poi si vedrà. Un domani non potranno che rivelarsi utili!

Io però, che ho avuto la fortuna di diventare professore prima che si abbattesse questa insania endemica, mangio piano, guardo, mi amareggio, compenso l’amarezza con una fetta di torta, che qui non sono neppure troppo chimiche. E sorseggio un lungo lungo caffè.

E penso a come scappare. Cerco una porta, che non vedo. Ma sono sicuro che c’è. Devo solo diventare più sensibile. Da qualche parte, magari ben nascosta, una porta, per uscire da questo letamaio, ci deve essere.

Buon appetito.