Idee inattese e istruzioni necessarie per rovesciare credenze ossificate, ideologie aberranti e poteri inamovibili e ritrovare l'appetito bruciante, sessuato e nervoso di capire, di fare e di pronunciare il violento sì alla vita che le nostre diseducazioni ci hanno intimato di tacere
la gaia educazione

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sabato 17 giugno 2017
Cronache dei nostri giorni: una ragazzina si taglia
Cronache dei nostri giorni: una ragazzina, chiamiamola Luna, posta su Instagram un video dove balla seminuda. Luna ha dodici anni.
I suoi compagni di scuola la vedono e cominciano a lapidarla di insulti tra cui quello di puttana è fra i più gettonati.
Luna si riempie di tagli un braccio e lo posta con il commento: -E’ questo che volevate?-
Cronache dal deserto del reale contemporaneo. Nulla di nuovo si intende. Ci abbiamo fatto l’abitudine. Squadre di psicologi di tutte le razze, dagli psicoanalisti ai mental coach a indicare l’origine del male. Eccesso di aspettative, brusche ritirate affettive genitoriali dopo averli idolatrati in infanzia, vulnerabilità narcisistica, la civiltà della popolarità e della visibilità, la gara per primeggiare nello show totale diffusa da talent e altre fonti imbecilli.
Tutto vero. L’autolesionismo piaga di un’età difficile, che odia tutti e soprattutto la propria limitatezza rispetto a ideali che la dominano e la umiliano. Genitori assenti, padri evaporati, famiglie che non ascoltano. Ecc. ecc.
Ma chi è Luna? A ritrarla forse occorrerebbe la penna di un grande romanziere, qualcuno che sappia entrare nel dolore e in quella sensazione di totale disperazione che prende chi si sente incompreso, abbandonato, umiliato. Forse ci vorrebbe un Foster Wallace per penetrare, anche con il lessico e la sensibilità scorticata di un sofferente, dentro quel corpo scosso, quella mente sconvolta.
Patire il male, infliggersi il male. Prove di suicido. Ammazzare il male con il male. Cura omeopatica.
Gli adolescenti godono di cattiva fama da quando sono stati inventati. Hanno tutte le patologie immaginabili. Stanno lì, nella terra di nessuno, in attesa di portare a termine le tribolazioni di chi è nomade e profugo. Gli adolescenti sono in transito, come una tribù del deserto. Portano sulle spalle le macerie di un’età (idealmente) felice (o felice sicuramente come sostengono certi psicoanalisti che vedono ovunque “famiglie affettive”) e cercano a tastoni i lembi per cucire la veste che li possa proteggere da un’età di rendiconti e di minacciose verifiche che sta arrivando (come in un bel quadro di Dino Valls).
Poveri infelici adolescenti.
Ma è davvero così, o meglio, dovrebbe essere davvero così? O forse c’è un’incredibile falla nel sistema di elaborazione dell’esperienza di questa categoria di esseri umani così sensibile, delicata, acuta, nella vertigine di anni che potrebbero essere smisuratamente intensi e magnifici?
Come potresti essere Luna, misteriosa Luna? Verrebbe da dire leopardianamente.
Chi ha piazzato questi esseri metamorfici, meteorici, mercuriali, aperti a tutti e che tutto sono in grado di gustare, di sperimentare, di godere, nelle celle buie di un percorso ad ostacoli, nel labirinto di un’iniziazione così fitta di prove, di controlli e di sanzioni che neanche per vincere la cintura dei pesi massimi?
Gli adolescenti, Luna, sono come te. Desideranti, belli, freschi, talora ingenui e anche arroganti, la roca arroganza di chi sta mutando pelle e vorrebbe saper subito interpretare il ruolo di protagonista. Ma hanno anche tutte le tue paure, di non essere capita, apprezzata, desiderata, amata. Vedono spesso più i propri difetti che le proprie qualità, sono impauriti da figure adulte che li trattano come mancanti, mutilati, in rodaggio, quando va bene. O semplicemente come reclute da prendere a ceffoni perché così va la vita, nella caserma del mondo.
Ma tu che volevi Luna, inquieta Luna?
Cercavi di essere vista, lodata, abbracciata da una folla di fan. Desiderio normale, innocente, chi non lo vorrebbe? Hai cercato di ottenere quello sguardo con quello che gira, con le droghe che girano, con i veicoli dalle mille trappole che questo mondo ti ha messo a disposizione. E cosa ne hai ritirato? Biasimo, vessazioni, flagellazione. Chi non cadrebbe di fronte a questa mancanza di ospitalità, di comprensione, di delicatezza?
E allora prendiamocela con quegli altri, i compagni, bruti, bulli, debosciati. Come se loro invece vivessero in un mondo capace di accoglierli, di ospitarli, di accudirne le debolezze, le sensibilità estreme, le pelli troppo sottili anche solo per essere avvicinate.
Vittime entrambe della bruttura dei genitori, certo, della loro distrazione, del loro ombelico, dell’attenzione frettolosa e impaziente.
Certo, sono loro i colpevoli, secondo gli psicologi. Gli psicologi vedono solo le relazioni primarie. Non sembrano vedere che tutti quanti vanno in scena in un dramma i cui copioni sono scritti dalle strutture sociali, da quelle del lavoro, da quelle del denaro, da quelle stomachevoli e senza pietà dei profitti di pochi a danno di tutti gli altri.
No, gli psicologi affondano le loro zanne piene di buone intenzioni nei corpi delle vittime per rinviarli a sé stessi, ai loro limiti e alle loro mancanze. Bravi psicologi, sempre alleati con il potere.
Ma questi adolescenti, queste famiglie non sono il prodotto di sé stesse, ma di un sistema di pressioni, un reticolo di vincoli spazio-temporali, di ingiunzioni produttive, di ingabbiamenti fisici, emotivi, cognitivi che viene ben prima che una famiglia si costituisca e si costituisca secondo il regime di produzione che le genera a sua immagine e somiglianza.
Poi certo, qualcuno sbaglia di più. E allora pronti a condannare e crocifiggere la mamma che cede all’impulso primitivo, all’uomo che uccide tutti compreso sé stesso, all’adolescente bambina che si prostituisce o a quello che dorme sul banco o si devasta di droga tra gli specchi di una discoteca. Stuoli di specialisti che si mobilitano. Psicologi, criminologi, giornalisti, antropologi, ognuno secondo la fetta di spazio conoscitivo che il filo spinato delle discipline (esse stesse figlie della forma separatrice e gerarchica di questo potere) gli consente, per giungere a non capire nulla del fenomeno, imprigionati come sono dentro a griglie interpretative tanto specialistiche quanto inutilizzabili.
Guardate Luna, guardate la sua dolcezza stremata, disperata, guardate questi tagli e tacete una buona volta, venditori di gadget buoni per la fiera del paese.
Occorre cogliere il luogo, lo status in cui versano famiglie e bambini e genitori e singoli. Tutti affratellati dall’essere ingranaggi di una stessa macchina che non ha alcun interesse a cogliere la singolarità di ogni vita. A “vedere” ogni vita che viene e diviene, e dovrebbe venire e divenire secondo la sua specifica cifra costitutiva, la sua stortura anche, la sua camminata indolente, la sua pettinatura disordinata.
James Hillman mi ha insegnato che l’adolescente ha bisogno di essere “visto” ma non dallo sguardo classificatorio, diagnostico, prognostico dello psicoterapeuta, ma da quella intelligenza immaginativa che sa cogliere, in virtù di una protratta attenzione, di un’autentica ospitalità, la sua voce, il suo tratto, la sua domanda, il suo desiderio. Solo allora si apre una porta.
Ma il nostro sistema di potere non vuole che ad occuparsi dei ragazzi e dei bambini ci siano persone di anima, di “capacità negativa” (come diceva Keats), di fiducia profonda nelle possibilità di ciascuno, di apertura a quella che Hillman chiama “eachness”, ciascunità, il diritto di ognuno a divenire quello che è.
Noi abbiamo fatto in modo che tutti fossero ingabbiati nelle stesse attese, negli stessi gironi di apprendimento dell’inferno che tutti ci aspetta, non voluto da nessuno eppure accettato da tutti, o quasi.
Di sicuro voluto da chi pensa che gli uomini siano votati al sacrificio, alla disperazione e alla vita da sudditi, in onore di non si sa bene quale funzione superiore, economia, religione, scienza, qualsiasi ridicola bandiera torbidamente umana.
Per questo ti chiedo scusa Luna, per la follia che domina il nostro mondo, le sue strutture coriacee, a partire da quella scuola dove probabilmente nessuno è riuscito a vederti. Né i tuoi compagni, che non potevano, accecati come te da chi non vuole che la tua vita sia degna di essere vissuta, né i tuoi genitori, forse anch’essi troppo deboli e intontiti dal fracasso di questa macchina spietata che è diventato il mondo, né i tuoi insegnanti, troppo spesso solo pronti a galleggiare sopra il male che perpetuano.
Ti chiedo scusa anch’io, per non averti saputa vedere, per tutti quelli che non ti sanno vedere, con quello che credo sia giusto chiamare l’ “occhio del cuore”, in onore non solo a Saint-Exupery ma anche a quello sguardo che sa accogliere il non visto, il non visibile in una forma interna, immaginale, alla fine di quell’attesa che è parte della visione autentica chiamata nella mistica sufi “doccia di stelle” .
La religione del nostro tempo ci ha mutilato di quella vista.
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domenica 15 gennaio 2017
Il desiderio di Alcibiade (2006)
“Ho bisogno d’un amante che, ogni qual volta si levi,
produca finimondi di fuochi da ogni parte del mondo!
Voglio un cuore come inferno che soffochi il cuore dell’inferno
Sconvolga duecento mari e non rifugga dall’onde!
Un Amante che avvolga i cieli come lini attorno alla mano
E appenda, come lampadario, il Cero dell’Eternità,
Entri in lotta come un leone, valente come Leviathan,
non lasci nulla che se stesso, e con se stesso anche combatta,
e, strappati con la sua luce i settecento veli del cuore,
dal suo trono eccelso scenda il grido di richiamo sul
mondo
e, quando , dal settimo mare si volgerà ai monti Qâf misteriosi
da quell’oceano lontano spanda perle in seno alla polvere!”
(Gialâl ad-Dîn Rûmî)
Nostalgia misterica
In una cultura pedagogica così priva di fascino e di magìa, così desertificata e spogliata da ogni traccia di ritualità, disboscata da ogni tensione iniziatica o da una anche soltanto tenue atmosfera di mistero, quali mai potranno essere i caratteri precipui della cosiddetta “relazione educativa” (espressione abbastanza schematica e astratta da essere buona per ogni stagione e ogni “impiego” )? Quale densità, profondità, caratura potrà mai caratterizzarla e qualificarla? Quali saranno le forme della sua manifestazione se non quelle così malinconicamente esibite nell’ordine geometrico e raggelato delle “buone maniere”, dei protocolli surgelati dalla retorica didattista e che appaiono per lo più il riaffioramento imbellettato di psicologismi di un galateo solo un po’ più manipolatorio e zuccherato con qualche dose di empatia o di maternage a buon mercato?
L’ortopedìa istituzionale del gesto educante e del comportamento discente così profondamente interiorizzati ed esibiti nel grigiore dei termini, dei discorsi, degli abiti, dei gesti, delle forme diffusi nel mondo educativo odierno, ben esprime la povertà infinita e il disseccamento ascetico cui è giunto il contatto ustorio più antico del mondo dopo quello paterno e materno.
Quale nostalgia per lo spazio misterico e cerimoniale di un’iniziazione, quale desiderio di spoliazione e di investimento, di preparazione e somministrazione di gesti calibrati e necessari, di pratiche, di formulari capaci di ispessire e approfondire incontri impegnativi e complessi ormai avviliti, detersi e bonificati da ogni attesa e timore!
La relazione educativa è perlopiù, salvo qualche rara eccezione rintracciabile comunque in ambiti extraistituzionali, piatta come l’elettroencefalogramma di una salma sul tavolo dell’anatomista, esternata in quelle sale operatorie, a giudicare dall’aspetto, che sono le aule delle nostre scuole e Università. Scialbo transito incapace di generare e di segnare in alcun modo, dentro scene prosciugate da ogni velleità di bellezza, dove i “funzionari” di un processo sopportato e patito più che desiderato e incarnato, impiegati privi di carisma e all’oscuro di ogni consapevolezza liturgica, appaiono come comparse evanescenti degne soltanto del tempo misero e disorientato del quale sono espressione.
Non ci sono corpi né anime a dialogare dentro l’aere mummificato delle aule e dei laboratori istituzionali e ben presto, con condiviso consenso e plauso, anche questi ultimi saranno risucchiati nell’iperspazio della “Rete” e forse chissà, proprio allora riemergerà, come già accade, una forma forse un po’ traviata di esoterismo da fibra ottica, tuttavia sapientemente agghindato di maschere, linguaggi cifrati, nuove forme di segretezza (pseudonimi, password, segnature) e di affiliazione.
Il processo di imbalsamazione della relazione educativa inaugurato da Rousseau, come aveva ben messo in rilievo Schérer (1976) a suo tempo, e perfezionato dalla moderna psicologia dell’apprendimento, è arrivato al suo capolinea e finalmente oggi la relazione educativa ha perduto, almeno alla superficie, ogni lato oscuro, ogni peculiarità, ogni enigma degno di essere interrogato, ogni sottofondo. Tutto è stato rivoltato e esposto e castrato con il risultato che la relazione educativa è pronta per essere trasferita in blocco in una programmazione ingegneristica perfettamente lineare e forse neppure a doppia entrata. All’insegna dell’utile e della razionalizzazione, la relazione educativa si avvia ad essere definitivamente sistematizzata e cablata affinché possa essere “fruita” direttamente a casa o ovunque tramite videoconferenza, videoteloefonino, o videochip installato nel cranio.
Carne e sangue
Dire che la relazione educativa ha bisogno di essere rivitalizzata appare ormai un vezzo triste e un po’ snob da autentici Tartarini di Tarascona; eppure, per chi come me è tenacemente avvinghiato ad un’idea che forse neppure mai si è realizzata, una sorta di “utopia” educativa dunque, se proprio se ne deve parlare, non può che toccare la funzione, ingrata a vero dire, di riproporre la necessità di pompare sangue, umori, anima, pathos e significato dentro il corpo esanime di questa “cosa”.
Il tempo sacrificale della perdita e dei segni marcati sulla carne, ma anche quello dell’amore di bellezza che sospingeva Alcibiade, nel Simposio, a lodare le belle immagini (agalma) impresse nell’animo di Socrate ( lodi che giustamente, con la consueta malizia, Lacan intuisce che erano probabilmente rivolte al bell’Agatone (Lacan, 1991)), o ancora l’introduzione rituale, scandita in gradi, dell’adepto ai misteri alchemici della Grande Opera, tutto questo e molto altro sopravvive solo nell’inconscio più buio delle istituzioni, negli scantinati da dove ogni tanto erompe rabbiosamente e riemerge in forme deviate, pervertite, capovolte (ma anche sintomatiche, più di quanto una lettura superficiale potrebbe indurre a credere…).
Ma questa “latenza” o comunque la significatività profonda di tali pratiche, che poi si traducono nel bisogno di setta, di sigla, di tracce sul corpo e di accesso ai misteri delle sostanze ma nella totale ignoranza del loro senso e delle loro forme, questa “attesa” fondamentale, non può essere completamente soffocata o semplicemente ottimizzata (!).
La relazione educativa è qualcosa di altamente “transizionale”, rituale, e non si celebra senza che qualcosa di rovente e di ineludibile si affacci, pena la sua insensatezza. Essa non si dà autenticamente in mancanza di un’azione in cui un sigillo, un crisma, una marcatura profonda vengano impressi sulla carne viva.
Occorre, a mio giudizio, “riesumare”, anche se in forme nuove, gli elementi “mitici” del fare educazione, nel loro senso più autentico, non certo in una letteralità naturalistica da ricostruzione archeologica, ma secondo vere traiettorie di analogia, di corrispondenza, di somiglianza.
James Hillman ha di recente (Hillman, 1997) correttamente richiamato alla necessità di una figura di “mèntore” nell’educazione del giovane, di qualcuno capace cioè, in virtù del possesso di una affinata sensibilità immaginativa, di riconoscere il “dàimon”, la vocazione irriducibile, la “ciascunità” che si manifesta nella fisionomia (ma sarebbe meglio dire “fisiognomia” o forse addirittura “corpo flebotomico” come quello su cui operava la vecchia medicina astrologica, perché di questo si tratta), fisica e comportamentale di ogni giovane. Il quale ha bisogno di essere “percepito” da uno sguardo che sappia esplorarne, proprio nel dettaglio complicatissimo del suo manifestarsi, le attese e le possibilità, come se fosse una materia da cui l’artista sensibile dovesse trarre la forma latente e virtuale, quella sola che anela a emergere.
Eppure questa qualità mentoriale, che è certamente sana e giusta, rischia di rivelarsi un’altra possibile preda della capitalizzazione dei talenti che sta tanto a cuore del nostro sistema formativo imballato, se si trasforma in un altro kit da talent scout di buona volontà, e in particolare se non si accompagna con un veritiero Eros educativo. Infatti, e mi permetto di citare un mio pezzo di un paio d’anni fa, “nessuno è mèntore per professione, mèntore è uno stato dell’esistere, o forse dell’essere. Accade di trovarsi mèntori o di trovarsi adepti di mèntori, per breve tempo e per sorte, per un elezione che è tramata da sottili percorsi degli affetti e dei sensi, delle simpatie che attraggono gli elementi, specialmente quelle dei fluidi e delle materie, di una mancanza che si incastra con una effusione, o di due nostalgie che si illuminano attraverso la medesima sorgente”(Mottana, 2005, 217).
E’ infatti l’Eros in definitiva l’unico autentico agente di trasmutazione della relazione educativa da pratica di commercio informativo in quel contatto ustorio e sulfureo di cui si parlava, in una unione di presenze viventi (che sono i corpi, i cuori, le carni e i saperi o sapori profondi dei protagonisti di tale non semplice vicenda).
L’incontro antichissimo di erastes ed eromenos, così come veniva rappresentato dagli antichi nostri progenitori, ricco di componenti seduttive e anche carnali (Buffière, 1980), giace rimosso sotto i plurimi strati della cultura del controllo e della educastrazione. Ma vi giace comunque, e quanto più giace laggiù, obliato e irriflesso, tanto più, quando si manifesta, lo fa con le tinte cupe e violente dell’abuso e del vuoto di senso.
In verità ancora oggi l’eromenos aspetta il suo erastes, il pàis attende il suo mèntor, (e davvero questo è sensibile, evidente), come il solco terrestre attende il seminatore. Allo stesso modo il gesto educativo abortisce, non genera nulla se non accondiscendendo ad un’attesa magnetica e irriducibile, all’irradiamento ineludibile del suo stesso desiderio.
Eros fuggitivo
Ma come attingere tale Eros, come propiziarlo, come invocarne la venuta, visto che pur sempre di un’ispirazione numinosa si tratta?
Non certo caricandosi di buone intenzioni, né con i buoni sentimenti. Eros è qualcosa che impregna l’atmosfera e che si avverte come un profumo, conturbante e irriducibile, e che può essere evocato anzitutto costruendo lo spazio e il tempo adatto al suo manifestarsi. Occorre modellare lo spazio, rifarlo metaforicamente, circoscrivendolo con confini simbolici e al tempo stesso percepibili, distinguendo tempi, modi, gesti ( a ciascuno la ricerca di una simbolica capace di propiziare l’arrivo di Eros).
Si tratta di trovare, ma sono lì da sempre in verità, le procedure, le forme cerimoniali, la liturgia adatta a sprigionare il senso e i sensi dell’atto educativo nella sua integrità. Amministrando tutto ciò che è a nostra disposizione, dalla parole alla materia, dagli abiti agli oggetti, dai testi alle immagini ai suoni, affinché siano carichi di vita, ricchi di bellezza, pregni di significato intuibile, percepibile, ad irrigare e fecondare gli ambienti svuotati e disanimati in cui normalmente si svolge l’agire educativo. Evitando scrupolosamente tutto ciò che entropizza la relazione, come la maggior parte dei libri, dei linguaggi, dei sussidi didattici spenti e mortificatori, capaci solo di invertire le potenzialità di appassionamento e di realizzare alchimie abortite, come quelle che affliggono la gran parte delle proposte d’apprendimento della scuola (in cui ciò che si studia diventa, ipso facto, inservibile e come disinnescato nel suo potenziale inesauribile di arricchimento e fecondazione).
E’ questa la cura essenziale, che riguarda il luogo, il tempo, la geografia simbolica (geosofìa) della “terra promessa” dell’educazione. Ad essa naturalmente deve far riscontro lo spossessamento, il dissolvimento dagli infiniti stereotipi che chi insegna ed educa ha introiettato come veleno, dalle formazioni disciplinari che hanno specie negli ultimi anni imperversato nella formazione e nella sua “cultura”.
Spogliarsi dalle inibizioni, dalle categorizzazioni falsificatrici, dalle ingessature psicologistiche e maternalistiche, ma anche da quelle paternalistiche, dalla induzione alla patologizzazione e alla paranoia generalizzata, per lasciar germogliare il desiderio di educare e condividere questa esperienza unica e ipercomplessa, ma ance infinitamente appassionante che è. Occorre disinibirsi e osare, con molta più fantasìa e anche una certa propensione alla trasgressione.
L’esercizio dell’Eros, ma dire esercizio è scorretto, l’ispirazione di Eros, meglio, che si traduce in dono, generosità, effusione, sperpero di sé, richiede un autentico coraggio operativo e il contatto con la propria dimensione desiderante.
Amare Alcibiade
Esso può darsi solo, per esempio, se si ama veramente coloro con i quali si condivide questa esperienza. Non si può insegnare a chi non si ama (spesso oltretutto ciò che non si ama), a chi non sentiamo prossimo, a chi non è avvertito come partner interiore.
L’insegnante, ci ha insegnato la psicoanalisi, ripara le sue ferite relazionali, le sue frustrazioni, i suoi bisogni generativi, insegnando, ma soprattutto vi costella i suoi desideri e le sue presenze interne. Senza possedere ancora viva l’infanzia dentro di sé non si può insegnare ai bambini, senza l’adolescenza agli adolescenti, senza la minorazione vissuta e patita agli handicappati. E forse sarebbe più radicale e vero dire che non si può insegnare a chi è più giovane di noi senza avvertire in noi la presenza ispiratrice dei valori profondi e dei sentimenti irriducibili dell’infanzia, dell’adolescenza e senza sentire la potenza inscritta in uno sguardo “minore” e perfino “minorato” (sempre meglio in ogni caso che maggiorato, adulterato e adulteratore).
E qui si tratta però di un amore non superficiale, non dell’amor del prossimo che appiattisce tutto e tutti in un vago sentimento astratto di benevolenza e di insipida propensione alla relazione. Non basta assumere ogni mattina, insieme al caffè, un poco del catechismo della cura degli altri. Occorre più urgenza, riconoscere la bellezza, sentire i corpi, l’energia spirituale, l’anima, desiderare con ardore.
Almeno uno dei nostri allievi, che sia il nostro Alcibiade, il nostro Agatone! Almeno per lui essere belli e indossare la bellezza, quella del nostro compito e delle materie che manipoliamo e che desideriamo siano veramente apprezzate, sottraendole anche all’infausta congiura che le ha spezzate, frantumate, ibernate e restituite in vesti stanche, neutralizzate, poco accattivanti,come nei “manuali”, nelle antologie, in tutte le forme di sistematizzazione e di formalizzazione schematistica che azzerano ogni vocazione, ogni principio di senso, ogni distinzione, forma, originalità ( e bellezza, naturalmente).
Pensando ad Alcibiade preparare con cura il nostro aspetto, desiderare di esserci, avere premura persino, diventare insofferenti agli ostacoli, ai ritardi, dimenticare la noia, la desolazione, la bruttezza che spesso ci circonda. Allora forse il cuore del vostro allievo, ma anche quello degli altri, si accenderà per simpatìa a contatto con il nostro fuoco, in un processo chimico suscitato dall’affinità, dalla corrispondenza, dal magnetismo sprigionato dall’Eros.
Alchimia cordis
Insegnare è fare dono infinito di sé e solo il desiderio forte e appassionato può commuovere i banchi inchiodati, le strutture frigide, gli ambienti claustrali delle nostre istituzioni, così come gli animi pallidi e sfiduciati di chi vi abita spesso un tempo di cui si attende mestamente solo la fine.
Insegnare è provare desiderio in carne e sangue, anima e corpo. Non illudiamoci di poter intraprendere l’atto d’iniziazione al sapere, ad ogni forma del sapere, che è sempre rinvio ad un unico grande sapere, il sapere che proviene dall’esperienza del mondo in tutti i suoi aspetti -e che dunque è in sé qualcosa di ben diverso dalle miserande concrezioni che assume nell’accademismo e nei suoi feticismi “libreschi”-, con il balsamo esangue di un po’ d’empatìa, con le regoline della buona comunicazione o con le pie intenzioni dei vari breviari sulla relazione efficace.
L’agente chimico, sulfureo e mercuriale insieme, che può innescare una vera trasformazione, dunque una relazione educativa non fasulla ma davvero iniziatica, giace nei tessuti profondi della nostra carne ed esso è il desiderio, la vecchia libido del dottor Freud , l’Eros. In assenza di questo, così come per lo stesso padre della psicoanalisi, subentra il ritiro, il principio mortifero e pestilenziale della noia, della rinuncia, della routine.
Per propiziare la sua emergenza occorre pazienza ma anche entusiasmo, individuazione dei linguaggi più adatti, specie quelli immaginativi, da sempre ripudiati dalle istituzioni educative ma che restano quelli capaci di mediare meglio l’irriducibilità imperscrutabile del mistero del sapere con la sfolgorante veste che esso può assumere nelle sue infinite forme, e quelli corporei, idonei per impegnare l’integrità dell’essere nella riscoperta e rinnovata espressione dei suoi elementi fondamentali.
L’Eros si accende nei luoghi in cui il fuoco “mitico” del significato ritrova i suoi veicoli, ed essi sono la bellezza, il rito, il mistero, l’immaginazione poetica, il canto, la vibrazione simpatetica del tutto che possono rendere di nuovo lo spazio dell’educazione e delle relazioni che si consumano al suo interno un microcosmo denso, sanguigno, palpitante, perfetta riproduzione analogica del suo motore primo, essenziale, inaggirabile, il muscolo di vita chiamato cuore, autentica materialità formativa in azione.
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René Schérer
sabato 13 aprile 2013
Eros d'infanzia - da "Antipedagogie del piacere" (2008)
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“Che là soltanto dove tu sei, tutto sia sempre d’ infanzia. Allora tu sei tutto, sei inespugnabile”
(Goethe)
[immagine Meyer-Amden: “ragazzo in piedi a gambe incrociate”]
Il “corpo mitico”, diffuso, inaccessibile, posseduto, elfico e demoniaco del bambino, quel “blocco d’infanzia”, così definito da Deleuze e Guattary proprio per rilevarne il radicamento in un universo indistruttibile sottratto al tempo, un po’ forse come la rêverie d’infanzia di Bachelard, ci viene rivelato in un folgorante saggio di René Schérer sulla pittura di Otto Meyer-Amden. I suoi fanciulli, ritratti in un atmosfera velata e come onirica, per esempio nella Lezione di disegno, del 1920, o come dei veri e propri kouros greci, assurgono a immagini archetipiche, a corpi di luce in cui sembra realizzarsi, nella tessitura intermedia dell’immaginale, la quintessenza irriducibile di un’infanzia perduta. Corpi che “non sono rappresentazioni, ma degli interrogativi, delle offerte. Che ci riguardano” (Schérer, 2002, 110).
Nei loro corpi nudi, resi essenziali e come sottratti ad ogni riconoscibilità fenomenica, ma risorti in una nudità perfetta, si rivela l’indicibile dell’infanzia, qualcosa che mostra ciò che dell’infanzia è tacitato dallo sguardo abitudinario, quel quid che suscita “rapimento e turbamento” al loro cospetto. Di cosa si tratta?
Questi giovinetti liberati dalle loro imperfezioni e guidati da un disegno sapiente alla propria “purezza d’origine”, ci restituiscono probabilmente quella che lo stesso Schérer indica appunto come “infanzia mitica”, forse un’infanzia permanente e inattingibile cui sembra del pari talora rinviare Bachelard ma che l’autore francese dell’ Emilio pervertito e di Un’erotica puerile apparenta piuttosto al piccolo Eco (soprannome di Nepomuk) del Dottor Faust di Thomas Mann o al giovane Basini dei turbamenti torlessiani di Musil. In questi autori sembra respirare l’infanzia “permanente” e irraggiungibile, ed anche in altri: Schèrer fa riferimento anche al giovane Tadzio della Morte a Venezia, sia nella versione viscontiana che in quella originale manniana, e al fanciullo che sembra traspirare dallo sguardo di Clawdia Chauchat, la misteriosa ricoverata di cui Hans Castorp si innamora nella Montagna incantata, quel “Pribislav dagli zigomi kirghisi”, dai capelli corti e dagli occhi grigi che ancora lo fa trasalire.
Ma questa infanzia trasmutata, androgina, transeunte e inevitabilmente compromessa con la morte o meglio la mortalità, non è poi così lontana dalle lolite di Balthus, anche se, per Schérer, “il ragazzo resta il paradigma di questa transizione tra l’organico e l’inorganico in cui il corpo appare sfuggire al suo destino. Dove, per eccellenza, l’astrazione si rende visibile; in lui solo l’evidenza dell’organo virile si allea alla grazia che noi prestiamo alla femminilità” (112-113).
Schérer insiste sull’astrazione del suo nudo, della nudità” celebrata da Meyer-Amden. E’ in virtù di una tale astrazione, “estetica”, che i corpi dei giovani pensionati ritratti dall’artista non vengono appiattiti sul cliché che non è che “il puro prodotto sessuale della coppia”: nudo ridotto a segnale e già indirizzato al destino sociale dell’accoppiamento dove il maschio è assegnato alla donna o il ragazzo alla ragazza. Qui il nudo sfugge alla banalizzazione segnica cui lo condurrebbe l’evidenza di una modernità moralizzatrice e preoccupata soprattutto di rivelare la crescita e la potenzialità sociale e sessuale del soggetto già avviato verso un futuro prescritto. In questo caso, secondo Schérer, ci si assicura l’incontro con uno “choc” liberatorio, provocato dalla nudità astratta, capace essa sola di restituire “intensità alle onde che, del nudo, disegnano i contorni e la superficie: “(…) solo un’astrazione è capace di rendere al nudo la sua luce, l’irraggiamento che da lui promana e che, mentre sollecita tutti i sensi del voyeur, lo rende tuttavia inaccessibile” (111). Nel nudo così cristallizzato, viene mantenuta la “distanza nella prossimità”.
Un nudo che celebra una nascita, ma una nascita inattesa, l’emergenza di un sempre inaccessibile. Il corpo vi si trova prossimo, apparentemente, ma allo stesso tempo infinitamente distante, rapito nella sua trascendenza originaria, e oltreoriginaria in senso simbolico. “La sua prossimità commovente è quella di un altrove” (112). Ecco allora come il nudo così carico di vibrazioni astratte sconfina nell’universo metafisico, incarna una infanzia mitica e sovversiva al contempo, che non si inscrive in alcun progetto parentale o pedagogico e che sembra indicare un elemento ermetico ed essenziale dell’esistere stesso. Il corpo viene presentato dal pittore come “offerta”, come “sacrificio rituale” (118).
Ciò che ci viene esibito è il “corpo glorioso” del fanciullo, proprio in quanto offerto, cioè “portato in avanti e affermato” in tal modo accrescendo enormemente la sua potenza d’essere e d’agire. In questa esposizione compiuta e sradicata al contesto servile da cui è strappata, o meglio evidenziata, il fanciullo rivela il suo carattere istantaneo, la sua fugacità in perfetto equilibrio, che contiene in germe, rendendolo ancor più imprendibile, la morte. Ed è proprio questa morte, d’altro canto, a proteggerlo. L’affioramento effimero di questo corpo sottratto al suo destino storico e convenzionale, assurto ad archetipo, ma pur sempre saturo delle sue componenti erotiche, è un corpo eterno, esente da corruzione in quanto proiettato sempre sul punto della sua scomparsa, della sua estinzione. Meyer-Amden strappa quel momento, in virtù di un trattamento sottrattore e prosciugatore, ma non disincarnante, poiché nelle sue opere, semmai, si dà, come per incanto, l’equilibrio di una saldatura, quella tra corpo fisico e corpo celeste, in una del tutto desiderabile coniunctio oppositorum. E d’altra parte, come suggerisce acutamente l’autore del saggio, “il corpo glorioso dell’infante contiene la morte come punto di fuga, come uscita di soccorso, come scappatoia all’insopportabile che lo circonda e lo misconosce” (120).
Ecco allora che nella riflessione che Schérer conduce a partire dalle immagini incorruttibili di Meyer-Amden, assistiamo alla manifestazione di un’infanzia mitica contrapposta all’infanzia vigilata, sezionata, categorizzata, gerarchizzata e strumentalizzata della cultura dello sviluppo e dell’istruzione sacrificata all’inveramento dell’età adulta. L’infanzia mitica, o il mito dell’infanzia, prendono la forma di una “carne estetizzata, spirituale e angelica” (122). E si distanzia radicalmente dalle prescrizioni famigliari, pedagogiche o igieniche che il dispositivo sociale appresta per il suo approdo alla conformità.
Si tratta, per Schérer, ma anche per ogni pedagogia che non sia orientata semplicemente a farsi serva dei processi di conformazione sociale, e che invece rammenti il suo necessario compito di garanzia del simbolismo d’infanzia -di una pedagogia come pedosofìa (Mottana, 2002)-, di presidio affinché non sia facilmente consentita l’estirpazione dell’infanzia verso un divenire altro da sé, ma che miri a promuovere un divenire-infante, sia come, nella suggestione di Deleuze e Guattari, “divenire-donna, divenire-animale, divenire-pianta, divenire-impercettibile” (Deleuze, Guattary, 2006, 433 sgg.), sia nell’azione di preservare la sua alterità di fedele all’ “Aperto”, come voleva Rilke, alla vita delle stelle e delle piante, ad essere custode di una posizione dell’esserci che non sia ancora stata requisita verso la ragione del dominio, ma che invece perdura nel luogo della solidarietà cosmica, della rëverie cosmica, come la chiamava Bachelard (1972, 188 sgg.), nel luogo dell’origine e dell’indeterminato.
In un altro passaggio della sua opera René Schérer definisce l’infante “inaccessibile”, proprio da questo punto di vista: “l’inaccessibilità dell’infante, la sua esistenza straniera allo stato di pianta, minerale o animale, lungi dall’alienarlo in una obiettivazione pietrificante, è la condizione stessa del suo essere libero” (Schérer, 1978, 63). E’ proprio questo il luogo di un’erotica infantile sottratta alla manipolazione “umanista” che tenta di disciplinarla e di inglobarla.
L’infanzia rimirata, con desiderio, attraverso le figure immaginali di Meyer-Amden, di questi corpi collocati tra il visibile l’invisibile, conduce verso uno spazio radicalmente inattuale, quello del mito. Qui il fanciullo, nel liberare il proprio corpo nudo, si fa emblema di un’insormontabile differenza, effimera, non sacrificata sull’altare di alcuna impresa alienante. Il pittore garantisce il suo corpo contro ogni potere, pur mantenendolo pienamente nell’orbita del desiderio. “Poiché questo corpo è pienamente sensuale, una sensualità derivata tuttavia, non orientata verso l’identificazione sessuale quanto condotta verso multiple metamorfosi. Non essendo concentrata su una sessualità possessiva, attraverso tutta la sua superficie visibile, attraverso tutte le se forze invisibili, esso irradia verso l’universo e i suoi regni molteplici” (Schérer, 2002, 127).
In questo senso “l’adoratore mistico, l’amante feticista sono i soli – e non certo gli ‘specialisti dell’infanzia’, i pedagoghi- a riconoscergli e accordargli la pienezza dei suoi poteri” (ibidem). Poteri di irradiamento, appunto, e di metamorfosi, proteica e diffusa, divenire animale e stella e elemento, farsi nube e acqua, e colore, o forse sarebbe meglio dire tintura, immaginando che il lato qualitativo di questo corpo incandescente possa agire come una tintura alchemica, a fini trasmutativi e guaritori. In tal senso il corpo dell’infante è pura forma, informale, materia pronta a esplodere in tutte le sue infinite potenzialità, indesignabili e imprevedibili, se lasciate alla propria vocazione, alla propria possessione, alla propria daimonìa, come dice Hillman.
Il corpo dell’infante in realtà non ha sottofondi, non ha scantinati. Così ce lo mostra Meyer-Amden: estrovertito, felicemente appagato del proprio esserci del tutto esteriorizzato e gioiosamente impudico. E’ questo il corpo dell’infanzia sottratto a tutte le ipoteche pedagogiche che lo hanno letto, anche psicanaliticamente, come crocevia di desideri inconfessabili. Il corpo dell’infanzia, nella sua alterità interrogante, è invece del tutto “irresponsabile” e pieno, distante anni luce da ogni raffigurazione personalista che di esso si possa dare. E’ solo affidato, anzi devoto, all’ “innocenza” perfetta del suo divenire, come disse Nietzsche. Si tratta dell’infanzia restituita ai suoi recessi demoniaci ed “elfici”, alla sua costitutiva differenza, che riluce tanto nelle immagini di Meyer-Amden quanto nei quadri di Balthus o nella disponibilità senza riserve, nella felicità smisurata e trionfante, così desiderabile proprio perché in appropriabile della piccola Dole de Il mio primo miracolo di Anne Wild e di tanti altri infanti che i mondi immaginali hanno preservato dal disciplinamento tenendoli al sicuro nel riparo intermedio dell’immaginale.
Ma qual è il nucleo del perturbante d’infanzia, o meglio, qual è la cifra del suo specifico erotismo? Nessuno meglio di René Schérer può esprimerla, essendone un cultore e un esegeta ineguagliabile: contrariamente a tutto ciò che la proiezione psicoanalitica (non analizzata?) vi accumula di morboso e di regressivo, l’Eros d’infanzia si rivela anzitutto per la sua invisibilità e sfuggevolezza, come già hanno in parte dimostrato l’archetipizzazione che ne restituiscono Balthus o Meyer-Amden. L’infanzia non è là dove la dipinge la sociologia moderna o peggio la psicologia, più o meno cariche di reperti ricavati dallo scavo dei suoi meandri più oscuri. L’infanzia è estrovertita, non è mai sordida se non nell’occhio di chi ne teme la “dismisura”: “irriducibile, a dispetto di tutto, alla normalizzazione, vi è una dismisura infantile che se la ride della personcina già ‘responsabile’ a cui l’infanzia contemporanea si dovrebbe identificare”(Schérer, 1978, 18). Incatturabile, imprevedibile, l’infanzia, come già un tempo nella lucida visione di Fourier, esibisce il suo Eros non certo nella fissazione a qualche stadio o a qualche pulsione, semmai nella proliferazione disseminatoria, si potrebbe dire, dei desideri. Ma, soprattutto, nello “scatto brusco dell’affermazione dell’istante, componente incatturabile dell’erotica puerile” (21).
L’ordine sovversivo che l’eros d’infanzia pone in essere ogni volta che si accende è anzitutto legato a questa componente di disordine, di parodia, di capovolgimento istantaneo per nulla preoccupato di lasciare tracce, di persistere, di approfittare di un possesso o di produrre una quota di godimento. Dunque, con Baudrillard, più sul versante della seduzione che del godimento, ma pur gaudente nella sua superficialità sfuggente. L’infanzia non disciplinata, non vigilata, non nurserizzata, per riprendere una metafora schéreriana, in fuga dallo sguardo reclusore del pedagogo, dal panottico pedagogico, in fuga da ogni principio di responsabilità e dai dover essere imposti dall’accelerazione del suo compiersi estinguendosi, l’infanzia gode della sua smisurata eccedenza, delle sue “folgorazioni passionali senza importanza”. In questo, secondo l’autore francese, essa si rivela più “simulacrale” che “reale”: è la potenza del falso, nel senso che Deleuze attribuisce a Nietzsche, e di più: “risalendo alla superficie, il simulacro fa cadere sotto la potenza del falso (fantasma) il Medesimo e il Simile, il modello e la copia. Rende impossibile sia l’ordine delle partecipazioni sia la fissità della distribuzione, sia la determinazione della gerarchia. Instaura il mondo delle distribuzioni nomadi e delle anarchie incoronate.” (Deleuze,Guattary 2006, 231).
L’eros infantile scuote ogni fondamento, nella lettura deleuziana che ne offre Schérer e in questa sua erranza di superficie, in questi effetti di scompaginamento e di simulazione sta il segreto di ciò che si appella “puerile”. Essa si muove ben al di fuori della prospettiva voyeristica di certa psicoanalisi. L’eros vagabondo dell’infanzia è ben altra cosa dal reticolato di fasi e fissazioni, di sindromi e di pulsioni che il Logos psicologico cerca di avvolgergli intorno per soffocarne la divergenza affermativa e implacabile. L’eros d’infanzia si esprime nel feticismo, nella funzione “irradiante” e non mascherante (quale verità?) del feticcio, così come nella metaforizzazione o “folklorizzazione” oscena della sessualità, come dice Schérer, che trasmuta gli organi sessuali in pezzi di materia, di natura, in cui “il sessuale propriamente inteso non è più che il punto di fissazione evanescente delle forze animali, vegetali, cosmiche, che si giocano in lui” (Schérer, 1978, 56) : il pene diventa “carota”, “salsiccia”, “fagiolino”. O ancora la fascinazione per il peto, “esplosione energetica”, “soffio e anima”, arriva a dire Schérer. Il gioco di scaricarsi peti nel viso a vicenda che l’autore porta a riprova della centralità erotica di questa gestualità infantile rafforza la teoria di un godimento decentrato rispetto alla teologia psicoanalitica e spostato sul piano di una passione per ciò che appartiene al livello animale, materico, scatologico. L’infanzia libera un erotismo inaccessibile e smisurato proprio perché estraneo ad ogni logica adulta, umanista o psicoanalitica che sia. Ed è questa la condizione della sua eterogeneità e della sua libertà. Altro che latenza e rinvio, come vorrebbe la morale borghese sanzionata dalla scienza, il bambino è davvero il perverso polimorfo di cui parla Freud, ma il suo Eros non è facilmente localizzabile, è pervasivo e intenso, simulacrale e estensivo, feticistico e transessuale, aperto e irriducibile, e, almeno fin tanto che non venga pedagogizzato e sorvegliato, è refrattario ad ogni logica legata al progetto monogamico e istituzionale.
In tal senso Schérer ha ragione di ricondurre a Fourier, che ha negato l’erotismo infantile nelle sue espressioni sessuali specifiche, in favore della libera espansione di altre manifestazioni del desiderio, una considerazione adeguata del nucleo passionale d’infanzia nei caratteri composto, seriale, collettivo. I bambini vivono l’eros in modo diffuso, spalmato sull’insieme di un’agire comunque fortemente erotizzato, sia esso legato alla rivalità, all’intrigo, alla cabala (le passioni cabalistiche, sfarfallanti e composte appunto di cui parla Fourier nel Nuovo Mondo Amoroso) e soprattutto le vivono in modo gruppale, collettivo, seriale, transizionale, al di fuori da ogni logica normata di coppia, di chiusura, di isolamento. L’eros infantile è generoso e moltiplicatore, non separa l’umano dall’animale e dal materiale, è nomadico e plastico, flessibile e metamorfico.
Riferimenti:
Bachelard Gaston (1972)
Poetica della rêverie (1960), tr.it. Dedalo, Bari
Deleuze Gilles Guattary Félix (2006)
Mille piani (1980), tr.it. Castelvecchi, Roma
Mottana Paolo (2002)
L'opera dello sguardo. Braci di pedagogia immaginale, Moretti e Vitali, Bergamo
Schérer René (1978)
Une érotique puérile, Galilée, Paris
Schérer René (2002)
Enfantines, Anthropos, Paris
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