la gaia educazione

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sabato 13 aprile 2013

Eros d'infanzia - da "Antipedagogie del piacere" (2008)



“Che là soltanto dove tu sei, tutto sia sempre d’ infanzia. Allora tu sei tutto, sei inespugnabile”
(Goethe)

[immagine Meyer-Amden: “ragazzo in piedi a gambe incrociate”]

Il “corpo mitico”, diffuso, inaccessibile, posseduto, elfico e demoniaco del bambino, quel “blocco d’infanzia”, così definito da Deleuze e Guattary proprio per rilevarne il radicamento in un universo indistruttibile sottratto al tempo, un po’ forse come la rêverie d’infanzia di Bachelard, ci viene rivelato in un folgorante saggio di René Schérer sulla pittura di Otto Meyer-Amden. I suoi fanciulli, ritratti in un atmosfera velata e come onirica, per esempio nella Lezione di disegno, del 1920, o come dei veri e propri kouros greci, assurgono a immagini archetipiche, a corpi di luce in cui sembra realizzarsi, nella tessitura intermedia dell’immaginale, la quintessenza irriducibile di un’infanzia perduta. Corpi che “non sono rappresentazioni, ma degli interrogativi, delle offerte. Che ci riguardano” (Schérer, 2002, 110).

Nei loro corpi nudi, resi essenziali e come sottratti ad ogni riconoscibilità fenomenica, ma risorti in una nudità perfetta, si rivela l’indicibile dell’infanzia, qualcosa che mostra ciò che dell’infanzia è tacitato dallo sguardo abitudinario, quel quid che suscita “rapimento e turbamento” al loro cospetto. Di cosa si tratta?
Questi giovinetti liberati dalle loro imperfezioni e guidati da un disegno sapiente alla propria “purezza d’origine”, ci restituiscono probabilmente quella che lo stesso Schérer indica appunto come “infanzia mitica”, forse un’infanzia permanente e inattingibile cui sembra del pari talora rinviare Bachelard ma che l’autore francese dell’ Emilio pervertito e di Un’erotica puerile apparenta piuttosto al piccolo Eco (soprannome di Nepomuk) del Dottor Faust di Thomas Mann o al giovane Basini dei turbamenti torlessiani di Musil. In questi autori sembra respirare l’infanzia “permanente” e irraggiungibile, ed anche in altri: Schèrer fa riferimento anche al giovane Tadzio della Morte a Venezia, sia nella versione viscontiana che in quella originale manniana, e al fanciullo che sembra traspirare dallo sguardo di Clawdia Chauchat, la misteriosa ricoverata di cui Hans Castorp si innamora nella Montagna incantata, quel “Pribislav dagli zigomi kirghisi”, dai capelli corti e dagli occhi grigi che ancora lo fa trasalire.


Ma questa infanzia trasmutata, androgina, transeunte e inevitabilmente compromessa con la morte o meglio la mortalità, non è poi così lontana dalle lolite di Balthus, anche se, per Schérer, “il ragazzo resta il paradigma di questa transizione tra l’organico e l’inorganico in cui il corpo appare sfuggire al suo destino. Dove, per eccellenza, l’astrazione si rende visibile; in lui solo l’evidenza dell’organo virile si allea alla grazia che noi prestiamo alla femminilità” (112-113).


Schérer insiste sull’astrazione del suo nudo, della nudità” celebrata da Meyer-Amden. E’ in virtù di una tale astrazione, “estetica”, che i corpi dei giovani pensionati ritratti dall’artista non vengono appiattiti sul cliché che non è che “il puro prodotto sessuale della coppia”: nudo ridotto a segnale e già indirizzato al destino sociale dell’accoppiamento dove il maschio è assegnato alla donna o il ragazzo alla ragazza. Qui il nudo sfugge alla banalizzazione segnica cui lo condurrebbe l’evidenza di una modernità moralizzatrice e preoccupata soprattutto di rivelare la crescita e la potenzialità sociale e sessuale del soggetto già avviato verso un futuro prescritto. In questo caso, secondo Schérer, ci si assicura l’incontro con uno “choc” liberatorio, provocato dalla nudità astratta, capace essa sola di restituire “intensità alle onde che, del nudo, disegnano i contorni e la superficie: “(…) solo un’astrazione è capace di rendere al nudo la sua luce, l’irraggiamento che da lui promana e che, mentre sollecita tutti i sensi del voyeur, lo rende tuttavia inaccessibile” (111). Nel nudo così cristallizzato, viene mantenuta la “distanza nella prossimità”.


Un nudo che celebra una nascita, ma una nascita inattesa, l’emergenza di un sempre inaccessibile. Il corpo vi si trova prossimo, apparentemente, ma allo stesso tempo infinitamente distante, rapito nella sua trascendenza originaria, e oltreoriginaria in senso simbolico. “La sua prossimità commovente è quella di un altrove” (112). Ecco allora come il nudo così carico di vibrazioni astratte sconfina nell’universo metafisico, incarna una infanzia mitica e sovversiva al contempo, che non si inscrive in alcun progetto parentale o pedagogico e che sembra indicare un elemento ermetico ed essenziale dell’esistere stesso. Il corpo viene presentato dal pittore come “offerta”, come “sacrificio rituale” (118).
Ciò che ci viene esibito è il “corpo glorioso” del fanciullo, proprio in quanto offerto, cioè “portato in avanti e affermato” in tal modo accrescendo enormemente la sua potenza d’essere e d’agire. In questa esposizione compiuta e sradicata al contesto servile da cui è strappata, o meglio evidenziata, il fanciullo rivela il suo carattere istantaneo, la sua fugacità in perfetto equilibrio, che contiene in germe, rendendolo ancor più imprendibile, la morte. Ed è proprio questa morte, d’altro canto, a proteggerlo. L’affioramento effimero di questo corpo sottratto al suo destino storico e convenzionale, assurto ad archetipo, ma pur sempre saturo delle sue componenti erotiche, è un corpo eterno, esente da corruzione in quanto proiettato sempre sul punto della sua scomparsa, della sua estinzione. Meyer-Amden strappa quel momento, in virtù di un trattamento sottrattore e prosciugatore, ma non disincarnante, poiché nelle sue opere, semmai, si dà, come per incanto, l’equilibrio di una saldatura, quella tra corpo fisico e corpo celeste, in una del tutto desiderabile coniunctio oppositorum. E d’altra parte, come suggerisce acutamente l’autore del saggio, “il corpo glorioso dell’infante contiene la morte come punto di fuga, come uscita di soccorso, come scappatoia all’insopportabile che lo circonda e lo misconosce” (120).


Ecco allora che nella riflessione che Schérer conduce a partire dalle immagini incorruttibili di Meyer-Amden, assistiamo alla manifestazione di un’infanzia mitica contrapposta all’infanzia vigilata, sezionata, categorizzata, gerarchizzata e strumentalizzata della cultura dello sviluppo e dell’istruzione sacrificata all’inveramento dell’età adulta. L’infanzia mitica, o il mito dell’infanzia, prendono la forma di una “carne estetizzata, spirituale e angelica” (122). E si distanzia radicalmente dalle prescrizioni famigliari, pedagogiche o igieniche che il dispositivo sociale appresta per il suo approdo alla conformità.


Si tratta, per Schérer, ma anche per ogni pedagogia che non sia orientata semplicemente a farsi serva dei processi di conformazione sociale, e che invece rammenti il suo necessario compito di garanzia del simbolismo d’infanzia -di una pedagogia come pedosofìa (Mottana, 2002)-, di presidio affinché non sia facilmente consentita l’estirpazione dell’infanzia verso un divenire altro da sé, ma che miri a promuovere un divenire-infante, sia come, nella suggestione di Deleuze e Guattari, “divenire-donna, divenire-animale, divenire-pianta, divenire-impercettibile” (Deleuze, Guattary, 2006, 433 sgg.), sia nell’azione di preservare la sua alterità di fedele all’ “Aperto”, come voleva Rilke, alla vita delle stelle e delle piante, ad essere custode di una posizione dell’esserci che non sia ancora stata requisita verso la ragione del dominio, ma che invece perdura nel luogo della solidarietà cosmica, della rëverie cosmica, come la chiamava Bachelard (1972, 188 sgg.), nel luogo dell’origine e dell’indeterminato.
In un altro passaggio della sua opera René Schérer definisce l’infante “inaccessibile”, proprio da questo punto di vista: “l’inaccessibilità dell’infante, la sua esistenza straniera allo stato di pianta, minerale o animale, lungi dall’alienarlo in una obiettivazione pietrificante, è la condizione stessa del suo essere libero” (Schérer, 1978, 63). E’ proprio questo il luogo di un’erotica infantile sottratta alla manipolazione “umanista” che tenta di disciplinarla e di inglobarla.


L’infanzia rimirata, con desiderio, attraverso le figure immaginali di Meyer-Amden, di questi corpi collocati tra il visibile l’invisibile, conduce verso uno spazio radicalmente inattuale, quello del mito. Qui il fanciullo, nel liberare il proprio corpo nudo, si fa emblema di un’insormontabile differenza, effimera, non sacrificata sull’altare di alcuna impresa alienante. Il pittore garantisce il suo corpo contro ogni potere, pur mantenendolo pienamente nell’orbita del desiderio. “Poiché questo corpo è pienamente sensuale, una sensualità derivata tuttavia, non orientata verso l’identificazione sessuale quanto condotta verso multiple metamorfosi. Non essendo concentrata su una sessualità possessiva, attraverso tutta la sua superficie visibile, attraverso tutte le se forze invisibili, esso irradia verso l’universo e i suoi regni molteplici” (Schérer, 2002, 127).


In questo senso “l’adoratore mistico, l’amante feticista sono i soli – e non certo gli ‘specialisti dell’infanzia’, i pedagoghi- a riconoscergli e accordargli la pienezza dei suoi poteri” (ibidem). Poteri di irradiamento, appunto, e di metamorfosi, proteica e diffusa, divenire animale e stella e elemento, farsi nube e acqua, e colore, o forse sarebbe meglio dire tintura, immaginando che il lato qualitativo di questo corpo incandescente possa agire come una tintura alchemica, a fini trasmutativi e guaritori. In tal senso il corpo dell’infante è pura forma, informale, materia pronta a esplodere in tutte le sue infinite potenzialità, indesignabili e imprevedibili, se lasciate alla propria vocazione, alla propria possessione, alla propria daimonìa, come dice Hillman.


Il corpo dell’infante in realtà non ha sottofondi, non ha scantinati. Così ce lo mostra Meyer-Amden: estrovertito, felicemente appagato del proprio esserci del tutto esteriorizzato e gioiosamente impudico. E’ questo il corpo dell’infanzia sottratto a tutte le ipoteche pedagogiche che lo hanno letto, anche psicanaliticamente, come crocevia di desideri inconfessabili. Il corpo dell’infanzia, nella sua alterità interrogante, è invece del tutto “irresponsabile” e pieno, distante anni luce da ogni raffigurazione personalista che di esso si possa dare. E’ solo affidato, anzi devoto, all’ “innocenza” perfetta del suo divenire, come disse Nietzsche. Si tratta dell’infanzia restituita ai suoi recessi demoniaci ed “elfici”, alla sua costitutiva differenza, che riluce tanto nelle immagini di Meyer-Amden quanto nei quadri di Balthus o nella disponibilità senza riserve, nella felicità smisurata e trionfante, così desiderabile proprio perché in appropriabile della piccola Dole de Il mio primo miracolo di Anne Wild e di tanti altri infanti che i mondi immaginali hanno preservato dal disciplinamento tenendoli al sicuro nel riparo intermedio dell’immaginale.


Ma qual è il nucleo del perturbante d’infanzia, o meglio, qual è la cifra del suo specifico erotismo? Nessuno meglio di René Schérer può esprimerla, essendone un cultore e un esegeta ineguagliabile: contrariamente a tutto ciò che la proiezione psicoanalitica (non analizzata?) vi accumula di morboso e di regressivo, l’Eros d’infanzia si rivela anzitutto per la sua invisibilità e sfuggevolezza, come già hanno in parte dimostrato l’archetipizzazione che ne restituiscono Balthus o Meyer-Amden. L’infanzia non è là dove la dipinge la sociologia moderna o peggio la psicologia, più o meno cariche di reperti ricavati dallo scavo dei suoi meandri più oscuri. L’infanzia è estrovertita, non è mai sordida se non nell’occhio di chi ne teme la “dismisura”: “irriducibile, a dispetto di tutto, alla normalizzazione, vi è una dismisura infantile che se la ride della personcina già ‘responsabile’ a cui l’infanzia contemporanea si dovrebbe identificare”(Schérer, 1978, 18). Incatturabile, imprevedibile, l’infanzia, come già un tempo nella lucida visione di Fourier, esibisce il suo Eros non certo nella fissazione a qualche stadio o a qualche pulsione, semmai nella proliferazione disseminatoria, si potrebbe dire, dei desideri. Ma, soprattutto, nello “scatto brusco dell’affermazione dell’istante, componente incatturabile dell’erotica puerile” (21).


L’ordine sovversivo che l’eros d’infanzia pone in essere ogni volta che si accende è anzitutto legato a questa componente di disordine, di parodia, di capovolgimento istantaneo per nulla preoccupato di lasciare tracce, di persistere, di approfittare di un possesso o di produrre una quota di godimento. Dunque, con Baudrillard, più sul versante della seduzione che del godimento, ma pur gaudente nella sua superficialità sfuggente. L’infanzia non disciplinata, non vigilata, non nurserizzata, per riprendere una metafora schéreriana, in fuga dallo sguardo reclusore del pedagogo, dal panottico pedagogico, in fuga da ogni principio di responsabilità e dai dover essere imposti dall’accelerazione del suo compiersi estinguendosi, l’infanzia gode della sua smisurata eccedenza, delle sue “folgorazioni passionali senza importanza”. In questo, secondo l’autore francese, essa si rivela più “simulacrale” che “reale”: è la potenza del falso, nel senso che Deleuze attribuisce a Nietzsche, e di più: “risalendo alla superficie, il simulacro fa cadere sotto la potenza del falso (fantasma) il Medesimo e il Simile, il modello e la copia. Rende impossibile sia l’ordine delle partecipazioni sia la fissità della distribuzione, sia la determinazione della gerarchia. Instaura il mondo delle distribuzioni nomadi e delle anarchie incoronate.” (Deleuze,Guattary 2006, 231).


L’eros infantile scuote ogni fondamento, nella lettura deleuziana che ne offre Schérer e in questa sua erranza di superficie, in questi effetti di scompaginamento e di simulazione sta il segreto di ciò che si appella “puerile”. Essa si muove ben al di fuori della prospettiva voyeristica di certa psicoanalisi. L’eros vagabondo dell’infanzia è ben altra cosa dal reticolato di fasi e fissazioni, di sindromi e di pulsioni che il Logos psicologico cerca di avvolgergli intorno per soffocarne la divergenza affermativa e implacabile. L’eros d’infanzia si esprime nel feticismo, nella funzione “irradiante” e non mascherante (quale verità?) del feticcio, così come nella metaforizzazione o “folklorizzazione” oscena della sessualità, come dice Schérer, che trasmuta gli organi sessuali in pezzi di materia, di natura, in cui “il sessuale propriamente inteso non è più che il punto di fissazione evanescente delle forze animali, vegetali, cosmiche, che si giocano in lui” (Schérer, 1978, 56) : il pene diventa “carota”, “salsiccia”, “fagiolino”. O ancora la fascinazione per il peto, “esplosione energetica”, “soffio e anima”, arriva a dire Schérer. Il gioco di scaricarsi peti nel viso a vicenda che l’autore porta a riprova della centralità erotica di questa gestualità infantile rafforza la teoria di un godimento decentrato rispetto alla teologia psicoanalitica e spostato sul piano di una passione per ciò che appartiene al livello animale, materico, scatologico. L’infanzia libera un erotismo inaccessibile e smisurato proprio perché estraneo ad ogni logica adulta, umanista o psicoanalitica che sia. Ed è questa la condizione della sua eterogeneità e della sua libertà. Altro che latenza e rinvio, come vorrebbe la morale borghese sanzionata dalla scienza, il bambino è davvero il perverso polimorfo di cui parla Freud, ma il suo Eros non è facilmente localizzabile, è pervasivo e intenso, simulacrale e estensivo, feticistico e transessuale, aperto e irriducibile, e, almeno fin tanto che non venga pedagogizzato e sorvegliato, è refrattario ad ogni logica legata al progetto monogamico e istituzionale.


In tal senso Schérer ha ragione di ricondurre a Fourier, che ha negato l’erotismo infantile nelle sue espressioni sessuali specifiche, in favore della libera espansione di altre manifestazioni del desiderio, una considerazione adeguata del nucleo passionale d’infanzia nei caratteri composto, seriale, collettivo. I bambini vivono l’eros in modo diffuso, spalmato sull’insieme di un’agire comunque fortemente erotizzato, sia esso legato alla rivalità, all’intrigo, alla cabala (le passioni cabalistiche, sfarfallanti e composte appunto di cui parla Fourier nel Nuovo Mondo Amoroso) e soprattutto le vivono in modo gruppale, collettivo, seriale, transizionale, al di fuori da ogni logica normata di coppia, di chiusura, di isolamento. L’eros infantile è generoso e moltiplicatore, non separa l’umano dall’animale e dal materiale, è nomadico e plastico, flessibile e metamorfico.

Riferimenti:

Bachelard Gaston (1972)
Poetica della rêverie (1960), tr.it. Dedalo, Bari

Deleuze Gilles Guattary Félix (2006)
Mille piani (1980), tr.it. Castelvecchi, Roma

Mottana Paolo (2002)
L'opera dello sguardo. Braci di pedagogia immaginale, Moretti e Vitali, Bergamo

Schérer René (1978)
Une érotique puérile, Galilée, Paris

Schérer René (2002)
Enfantines, Anthropos, Paris



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