la gaia educazione

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mercoledì 3 giugno 2015

Giovane e bella di François Ozon : il potere della bellezza



Questo film di François Ozon mi ha colpito. Giovane e bella intendo dire. Ozon mi aveva già saputo sedurre, sia in film più feroci come Gocce d’acqua su pietre roventi, sia in film incantati e impossibili come Ricki.

Qui tuttavia l’argomento tanto scabroso è condotto a mio giudizio in modo esemplare e con un tratto fondamentale e che lo differenzia da tanti film sull’adolescenza: nessuno giudizio e nessuna lagnosa sottolineatura, quando non morbosa, del malessere tante volte imputato a quell’età. Niente di tutto ciò: che liberazione!

Che cosa ci viene mostrato?
Un’adolescente bellissima, Isabelle, una Kore, che sceglie di divenire una prostituta, a Parigi.
Un tema che scuote molte sensibilità, specie di questi tempi, in cui parrucconi e parruccone dello psico-set si sono accorti che esiste un fenomeno che si chiama prostituzione giovanile, solo perché per la prima volta ha toccato, con grande diffusione mediatica, anche le classi abbienti (mentre prima, come è noto, riguardava i poveri e gli schiavi d’ogni dove).

Ma come ci viene raccontata questa transizione? La trasformazione di Isabelle in Lea? Anzitutto la ragazza, diciassettenne, ci viene mostrata, all’inizio, mentre è in vacanza con la famiglia, attraverso lo sguardo del fratellino. La prima inquadratura ce la mostra dall’alto, attraverso la lente di un binocolo, mentre seminuda prende il sole sulla spiaggia. Immagine perturbante ma anche molto istruttiva. Anche a giudicare dal seguito, e cioè dalla pervicace volontà del fratello di spiarla, questa sorella misteriosa e affascinante, arrivando a sorprenderla, senza essere visto, mentre nella sua camera si masturba.

Ozon sceglie questo punto di vista per presentarci Isabelle e credo che voglia suggerirci proprio di accomodarci in questo punto di vista, quello del fratellino, nella sua curiosità, nella sua eccitazione, nella sua ambigua innocenza, nella sua morbosa voglia di penetrare quell’universo tanto vicino eppure tanto irraggiungibile. Finalmente una visuale non pregiudiziale, una visuale accogliente e, soprattutto, eroticamente complice.

Se noi riusciamo a restare ben ancorati a questo sguardo allora la vicenda di Isabelle avrà molto da raccontarci, mentre non appena cominceremo a spostarci negli occhi degli altri personaggi adulti, o peggio di qualche diagnosta tra il pubblico, il rischio sarà sempre di soccombere ai pregiudizi e alle solite banalità psicologiche.

Isabelle, che ha un’avventura con un giovane tedesco nel corso della vacanza, è palesemente annoiata dal ménage famigliare. Il suo scopo è superare, con un giovane tedesco a disposizione e con un certo cinismo, la prova della perdita della verginità, dove la vediamo sdoppiarsi e guardare dall’esterno questo evento che non sembra coinvolgerla sotto il profilo sentimentale né fisico. Sbrigare questa pratica è un’operazione che le consente di inoltrarsi in un altrove che evidentemente la sollecita molto di più.

Ma attenzione. Qui la Kore non è la sprovveduta vispa Teresa che passeggia per i prati candida e ignara e si china, per la gioia degli psicoanalisti, a cogliere un narciso. Niente di tutto questo. Isabelle è una Kore decisa e determinata, che, al momento dell’incontro con un messaggero di Ade, l’uomo che le offre denaro in cambio di sesso, decide di inoltrarsi da sé negli Inferi e si trasforma per l’occasione. Il suo destino è al tempo stesso determinato dal Kairos, l’incontro occasionale, ma soprattutto dalla sua sensibilità già scaltra, pronta ad avvistare il fascino prepotente del mondo infero.

Un mondo infero che però, giustamente, Ozon ci propone nella sua veste contemporanea, lussuoso, ovattato, labirintico, accogliente e seducente. Quella dei grandi alberghi parigini. Isabelle in veste di Lea, sale agli inferi, mediante le scale mobili che la strappano al caos metropolitano e con la grazia di una ninfa che sa indossare perfettamente l’abito del desiderio, si inoltra verso lo sconosciuto. Che è proprio Lo Sconosciuto, un uomo adulto, o addirittura un vecchio, ogni volta diverso, al quale carpire la misura della propria desiderabilità ma al tempo stesso espugnare in un tempo estremamente breve il segreto del godimento.

Kore seduce Ade, non il contrario. E nessuna madre Terra, incasinata come è nell’ambiguità un po’ squallida dei traffici frettolosi degli amanti, può intuire il potere né la misura della figlia Kore.

Ozon fortunatamente ci risparmia ogni moralismo, evita di mostrarci una adolescente che finisce divorata dal drago che ha osato sfidare. Tutto al contrario. Quello che si disvela, in un climax che è al tempo stesso prodigioso e ricco di humour, è la progressiva padronanza del potere in dote fin dall’inizio alla giovane ninfa. Potere che lei stessa non sa, ancora non ha potuto sondare nei suoi lati veramente imprevedibili ma che ben presto saprà amministrare nei confronti di tutti, uomini e donne, all’occorrenza ponendoli di fronte alla loro ipocrisia e alle loro voglie inconfessate. Così accadrà con il patrigno, coinvolto in poche mosse nel gioco della seduzione semiincestuosa, interrotta solo dall’intervento adirato di una Era più stupefatta e impreparata che gelosa. Ma allo stesso modo allo psicoanalista, subito inchiodato da Isabelle che gli ricorda maliziosamente che i suoi clienti avevano la sua stessa età. E la madre stessa, posta di fronte al suo tradimento, scorto dalla ragazza dietro le quinte di una rappresentazione teatrale, ma ancor più di fronte al desiderio, forse latente, di essere anche lei “puttana”.

La ragazzina è forte e decisa, sta vivendo la sua avventura, perché di questo fondamentalmente si tratta, un’avventura nel tempo in cui l’avventura sembra impossibile. Avventura in ciò che delicatamente confiderà allo psicoanalista, il piacere dell’attesa, l’inoltrarsi negli alberghi, il lusso, l’incertezza dell’incontro, l’adrenalina della ripetizione, dell’immaginazione sovranamente sollecitata.

Ozon ha anche la cura di sollevarci dal dubbio che Isabelle, come vorrebbe certo sociologismo che non va per il sottile, lo faccia per denaro, o per le borse Louis Vuitton. Il denaro si accumula intatto nel suo armadio. Nessuna spesa. Isabelle-Lea sceglie di essere puttana per altro che non sia il guadagno o perfino il godimento dissipatorio in cui solitamente sociologi e analisti si rifugiano in mancanza di fantasia.

Giovane e bella è Isabelle e in fondo quello cui assistiamo è il mistero della bellezza, del potere che assegna a chi ne è portatore ma anche del suo peso, della sua complessità, del suo dolore. Niente angoscia della bellezza però in Isabelle, niente spalle curve o abbrutimenti adolescenziali. No, piuttosto l’esplorazione, portata all’estremo limite, del suo potere. Potere di procurare dipendenza, di dominare, potere di uccidere.

Ciò che forse neppure Isabelle-Lea può immaginare, nel suo impeto avventuroso e ribelle, è che la sua bellezza possa uccidere. E non solo metaforicamente.
In fondo al labirinto che la nostra eroina perlustra senza timori, anche lei incontra il suo minotauro. Un essere dolente e malinconico, come forse anch’ella è, nella mirabile e unica consapevolezza che giovani e anziani talora hanno. Un anziano che di lei si innamora, forse proiettando nella sua bellezza quella di una moglie che tale doveva essere stata al loro inizio.
Un anziano delicato e gentile, che riesce, forse il solo, a sciogliere un poco la durezza della sua armatura amazzonica. La guerriera con lui un poco accetta il gioco erotico, la seduzione, e perfino il piacere. Il dono del piacere di lei coincide con la (buona) morte di lui, che forse proprio questo cercava, chiudendo il circolo di una vita che sembrava non poter prescindere dal tributo irresistibile alla donna e al suo magistero erotico.

Questa è la vera cesura nel viaggio agli inferi (inferi di cui andrebbe rivisitata l’opulenta necessità, ben contemplata nella duplicità Ade-Pluto). Isabelle deve comprendere il potere della sua bellezza anche dove sembra irriconoscibile e incomprensibile.
Occorre tempo, occorre una sosta, dove tuttavia la vediamo davvero padrona del suo mondo, il cui squallore piccolo-borghese non sembra all’altezza della sua caratura. Non sarà l’apparato psicosociale ordito da questo contesto a poter riparare la ferita. Niente affatto.

Anche in questo Ozon, fedele allo sguardo poetico, intuitivo, amante che ha scelto fin dall’inizio, ci risparmia la caduta, che sarebbe stata fatale, nello psicologismo quotidiano.
Sarà un’altra bellezza, il potere di un’altra bellezza, una ninfa-stella come la moglie del cliente, che però è anche, -il cinema qui confonde le carte secondo me-, Charlotte Rampling. Una stella-ninfa che intercede per lei. L’incontro di queste due figure, nella cornice di un letto, nella delicata e magica manipolazione del viso che la Senex procura alla Puer, nel sonno indotto, una sorta di trance erotica, nella condivisione del desiderio (“anch’io avrei voluto farmi pagare qualche volta…” le confida la donna), è un incontro salvifico.

Non terapia, non presa di coscienza, non sanzione. La Isabelle che rinasce nella stanza d’albergo dove ha consumato piacere, morte e resurrezione è semplicemente una donna che ha espiato la colpa della bellezza attraverso l’assoluzione di un’altra donna, colei che sa per esperienza di cosa si tratta. Iniziazione, se si vuole, passaggio di testimonianza, magia rituale.
Così si scioglie il mistero della bellezza della Kore che ritroviamo nell’ultima scena in cui finalmente non è solo l’apparizione della ninfa con il riflesso perduto in uno specchio (martellante evocazione della duplice Isabelle/Lea). E’ lei (forse Isabellea?) a vedersi ora nello specchio, a guardarsi e a poter assumere tutto il suo potere. Ozon ci lascia rapiti nel suo mezzo sorriso rivolto in avanti, rivolto oltre, mentre Françoise Hardy, cantora ormai senza tempo della meraviglia adolescenziale, intona “Je suis moi”.

martedì 10 giugno 2014

L'epoca dei numeri tristi (e infami)




L’orrore avanza, implacabile. Nell’epoca in cui, con pieno plauso dei nuovi yuppies accademici tutti prestazione e internazionalità, si valuta sempre di più il numero delle pubblicazioni e non quello che c’è dentro; la lingua in cui sono scritte (purché sia l’inglese, unica lingua che fa punti) e non certo il tema; la rivista su cui appaiono, che deve essere mainstream anche se palesemente conformista e ripetitiva; ebbene in quest’epoca, quella in cui la valutazione di tutto diventa così reticolare e capillare che uno si chiede se verrà valutato anche sul come riempie la tazza del cesso, e se questo verrà reso pubblico (aggiorno gli ultimi disinformati che da quest’anno anche le nostre università, come le prestigiosissime e intramontabili anglosassoni, esporranno le valutazioni assegnate dagli studenti ai docenti in un autentico tripudio di democrazia valutativa: non perdetevele! Come dire, invece di rinnovare e magari eliminare le valutazioni che impallinano da sempre gli studenti sostituendole con qualcosa di più sensato, la cosa migliore è mettere sotto tiro qualunque cosa si muova. So che dire questo mi fa cattiva pubblicità davanti al nutrito fronte valutazionista, uno dei pochi fronti del tutto transpolitico e interclassista ma pazienza), ebbene, dicevo, la quantità sempre più trionfa.

Ieri mi capita sott’occhio la pubblicità di un convegno pedagogico, su un argomento sempre "hot", l’adolescenza. La pagina iniziale di informazione del convegno è una vera e propria summa dei valori del nostro tempo: il calcolo e il nulla. Accanto alle foto di tutti i relatori, che ruotano avanti e indietro grazie a un click (non vi dico quanto invoglia andare a un convegno dopo aver visto le brutte facce dei suoi relatori ma va da sé, è molto trendy, molto americano), accanto, subito vicino, campeggia a lettere cubitali la descrizione del convegno, il suo sex-appeal: “due plenarie, 14 workshop, oltre 30 relatori”, alè, chi più ne ha più ne metta. “Oltre 30 relatori” è fantastico, è stratosferico, è troppo fico! Oggi i convegni vanno a numeri di relatori. Capisco che la quota del convegno, che non enuncio per carità di patria, visto che è un convegno italiano, sia parecchio alta e vada giustificata. E allora vai con un numero competitivo di workshop e un numero super di relatori: signori e signori, siamo oltre i 30!
Poi nient’altro, non il programma, (criptato sotto l’elenco dei relatori e dei workshop), solo una lista di argomenti piuttosto appealing: cyberbullismo, sessualità, devianza, autolesionismo ecc. ecc. (il solito ritratto agghiacciante dei poveri ado, qui definiti “supereroi fragili”). C'è anche un video(ormai immancabile nel marketing convegnistico), con uno scoppiettante intervistatore e l'introduzione del coordinatore scientifico.

Inorridisco.

Capisco di essere sempre più fuori tempo e non mi stupisco che l’autorevole critico letterario di “Italia oggi”, giornale peraltro autorevolissimo, abbia definito il mio ultimo libro “vintage e chic”. Va bene così. Sono vintage e chic, o forse voleva dire kitsch. Chissà mai.
Meglio vintage di questa merda però.

P.S. : sì, me lo hanno detto che un buon bloggista non dovrebbe fare troppo l’arrabbiato, non dovrebbe usare un linguaggio scurrile, dovrebbe essere positivo (per avere seguito, per essere “followed”). E va bene, non sarò followed. Però il mio risentimento, con buona pace del caro Nietzsche, ogni tanto bisogno che lo scarichi. E, come diceva il vecchio menestrello bolognese, uno super vintage, anzi oramai da fiera dell’antiquariato, a culo tutto il resto!