la gaia educazione

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domenica 4 gennaio 2015

La scuola è una gabbia



La scuola è una gabbia. Una gabbia molto efficiente. Una gabbia a molti livelli, con strutture di separazione, gerarchizzazione e soffocamento pervasive e capillari.

La gabbia scolastica è tale perché bambine e bambini e ragazze e ragazzi devono essere sottratti al fuori, alla libera circolazione e alla libera esperienza. Bambine e bambini e ragazze e ragazzi devono essere deportati in massa, ogni giorno, molto presto, allo scoccare dell’ora del lavoro totale, e fino a che l’ora del lavoro totale non termina. Lì sono messi ai ceppi dell’immobilità e della passività, per anni e anni, fino a che non siano pronti per essere a loro volta caricati nel ciclo del lavoro totale.

La gabbia agisce in modo preciso e indefettibile.

Essa è ben visibile nelle classi, celle obbligatorie, chiuse e separate, dalle quali si può uscire solo con un permesso o quando l’orario di segregazione finisce. Le classi prevedono numeri fissi di compagne e compagni sezionati in orizzontale, tutti della stessa età. Un tempo erano sezionati anche per genere, tutti dello stesso sesso (almeno biologico).

Nelle classi penetrano gli agenti dell’insegnamento, isolati e fungibili al bisogno, essi stessi ben divisi per categoria disciplinare, che debbono rispettare accuratamente. Perché nella gabbia il sapere penetra a sua volta sezionato in celle di conoscenza, ognuna ben separata dalle altre, in modo che mai si abbia del sapere un’idea complessiva e in modo tale che l’ideologia complessiva di un acculturamento siffatto, devitalizzato, separato rigorosamente dal reale e deprivato di ogni armonia e integrità, possa funzionare a dovere. Un tale sapere sarà immaginato nella sua cacofonica e geometrica figura a celle isolate e non comunicanti, imago stessa dei mestieri alienati che ab initio ognuno di coloro che passa attraverso la gabbia, deve interiorizzare.

La gabbia è visibile nelle procedure, nei fogli quadrettati e a righe, nella struttura delle aule, nei banchi, nelle sedie, negli apparati di valutazione, con schede sempre più simili a gabbie e valutazioni rigidamente sezionate e gerarchizzate.
La gabbia si apre sull’aperto solo a patto che l’aperto sia stato previamente ingabbiato e sezionato. All’esterno si esce solo costruendo un canale di comunicazione tra una cella della gabbia e una cella del mondo esterno, esso stesso in larga misura edificato secondo il modello unico della gabbia. Null’altro vi deve filtrare. Al ritorno dal fuori bisogna compilare relazioni che ingabbino l’esperienza vissuta e la rendano misurabile e valutabile, secondo la logica ferrea della quantità che domina incontrastata nel mondo della gabbia.

L’esperienza deve sempre essere castrata e vanificata. Ogni angolo della gabbia è sotto controllo e nulla vi sfugge, se non per distrazione degli agenti del controllo. Ogni comportamento non a norma è sanzionato. Presto c’è da attendere l’ingresso di telecamere a circuito chiuso in modo che nulla più possa essere nascosto all’occhio della disciplina.

La gabbia è al lavoro nella censura e ripartizione dei sensi di bambine e bambini e ragazze e ragazzi, che devono funzionare sempre e solo in maniera separata. Vista e udito dominano totalmente gli altri sensi, considerati inaffidabili e ambigui, troppo corporei, poco suscettibili di essere comparati e parametrati. L’integrità di ogni esperienza, che si misura sulla globalità percettiva e sull’investimento dell’intera persona, mente, anima corpo e emozioni, è invariabilmente sabotata e scissa, secondo la legge assoluta della gabbia.

La gabbia è un luogo dal quale non si può uscire. Bambine e bambini e ragazze e ragazzi vi sono rinchiusi perché solo il loro cervello possa esservi esercitato a interiorizzare le forme scisse e separate del dominio e perché incorpori, in virtù della disciplina ascetica, sessuofobica e ripetitiva del lavoro scolastico, il ritmo del lavoro totale, il suo non senso, la sua inamovibilità. In una parola il suo essere l’unico orizzonte possibile.




Occorre far saltare la gabbia, puntando a far esplodere a uno a uno tutti i meccanismi operativi che la strutturano e che rendono impossibile qualsiasi esperienza autentica e soprattutto degna della vita, unica e irripetibile, di bambine e bambini e ragazze e ragazzi, dei loro desideri, delle loro attitudini, della loro singolarità.

Occorre far saltare la chiusura, perché bambine e bambini e ragazze e ragazzi possano nuovamente circolare nel mondo, imponendo la loro misura e la potenza della loro insubordinazione.

Occorre far saltare le scissioni disciplinari, perché ogni cosa che si impara sia integra come lo è nel mondo, frutto dell’intersezione di saperi diversi e di informazioni e tecniche che travalicano di gran lunga ogni ripartizione.

Occorre far saltare le procedure oppressive della valutazione perché ogni cosa imparata sia valutata solo in base a come si rende capace di incrementare e intensificare l’esperienza vitale alla prova dei fatti e del tempo.

Occorre far saltare le aule, i sezionamenti orizzontali, affinché le diverse età, i sessi, le forme si intreccino e si scambino nella proliferazione ed estensione del campo d’esperienza.

Occorre far saltare la gerarchizzazione dei sensi, perché la pelle, la carne, il movimento, il piacere possano tornare ad essere la materia prima di un mondo finalmente corrispondente alla grande potenza sensibile racchiusa nell’ età più ricca.

Occorre far saltare la scuola, perché si ritorni nel mondo, bambine e bambini, ragazze e ragazzi e adulti infine, per immaginare una vita che metta il lavoro subordinato e castrato fuori gioco, e il desiderio e il piacere, la fantasia e l’operatività integra e plenaria di tutti, nella loro irriducibile singolarità e differenza, al centro.

sabato 12 ottobre 2013

Basta con il trito rito della haute culture!



A C.T., intellettuale di strada incontrato nella mia lontana adolescenza

Come è estenuante il balletto della cultura, sempre così prevedibile, così aristocratico, così appartato! La pletora di conferenze, convegni, seminari, workshop, come si chiamano ora, è diventata incontenibile e, al tempo stesso, nel suo moto d’inflazione rovinosa, più che mai separata, vuota e malsana.

Un piccolo universo di esseri umani compiaciuti (e certo lo so, anch’io lo sono e lo sono stato ahimè) e persuasi di dominare il caos, che si raduna in luoghi invisibili a perpetuare rituali a dir poco logori e inservibili. Persone che gareggiano, lontani da tutto, a misurare chi è in grado di produrre il maggior numero di riferimenti difficili oppure semplicemente che si sfidano a farcire la propria prosa delle connessioni più vertiginose e improbabili. Occasioni dalle quali, il malcapitato che non appartenga al ristrettissimo circolo degli iniziati, può solo recedere confuso e mortificato.

Tutto questo non è davvero nuovo ma la misura della sua diffusione, anche esibita dalle molte vesti che essa assume nella rete, la rende oscenamente invasiva (quanto deludente).

Quando finiremo di abusare della conoscenza per farne un uso esclusivamente onanistico? Quando troveremo (di nuovo, perché talora qualcuno ci ha provato) il coraggio per promuovere solo opere davvero esplosive e degne di impatto verso un pubblico “in opera” e non “in vitro”, che sia altro dagli specialisti e rivolto a loro quando abbiano assunto la forma idonea a incontrarlo, sollecitarlo, inquietarlo?

Sia chiaro, le intenzioni buone, l’operosità emerita, la qualità eccelsa delle materie e delle elocuzioni, restano talora fatti evidenti, pur nel loro nascondimento.

E tuttavia trovo non sia più sopportabile il birignao degli intellettuali che ironizzano e prendono le distanze da tutto ciò che non è il loro peculiare e proprio-ombelicale punto di vista sul mondo. Non è più sopportabile la spocchia, lo snobismo, il cacofonismo delle loro loquele aristocratiche e impraticabili. I derridiani, i lacaniani, i deleuziani, i post e gli alter, gli psico e gli antro, i neo e i wu e i tiq e i qun.

E’ da quando mi ricordo che queste congreghe, non più popolari delle logge massoniche, celebrano le loro messe, senza alcuna convivialità per altro, al ritmo funereo della glossa e dell’ipercitazione. Capisco che la flemma pachidermica e l’arguzia poststrutturalista necessiti di spazi stretti e di pubblici eletti, nonché di una buona dose di autopunizione. E tuttavia mi chiedo se non si avverta l’esigenza di uscire all’aperto, di mettere corpo nei discorsi, di depaludare le prose e di sporcarsi in operazioni forti, finalmente visibili e sensibili. E non penso certo ai festival, marketing pur sempre recintati, buoni per turisti del sapere e lettori debosciati. Se non sia di nuovo il momento di fare cultura con un martello migliore, più rumoroso, meno autoriferito.

Vorrei filosofi neokinici che si ostentino alla folla, vorrei dei Savonarola, non certo i miti esercitatori delle miti ascetica stoica o edonistica epicurea. Vorrei sentir tuonare nei treni e nelle metropolitane, vorrei carri di affabulatori feroci che impediscano il traffico e sfidino il flusso frenetico delle merci. Non miserabili raduni di commilitoni sparuti nei retrobottega di librerie irreperibili anche sulle mappe più fini.

Vorrei immolazioni e orazioni, pubblica denuncia non via internet ma nelle strade, caravanserragli di un sapere detto e fatto su misura, nella forma dei luoghi, siano esse piazze, cortili, boschi o spiagge. Il filosofo che soppianta il dj in discoteca, sommergendo gli astanti con il verbo infiammato di Nietzsche o le poesie di Celan (magari con una musica autenticamente hard-heavy-metal). Vorrei sentire gridare le poesie di Pasolini o le insolenze di Artaud nei mezzanini della metropolitana, davanti alle caserme di polizia, ai caselli della autostrade, nei piazzali della grande logistica.

Vorrei vedere i filosofini, i critici letterari, gli psicantropi, armarsi di pennelli e di vernici e riprovare a scrivere sui muri le parole che scambiano tra loro al mercatino della vanità.

Vorrei sentire in permanenza voci forti e irriducibili scatenare la prosa antica e quella del grande teatro dell’assurdo davanti ai palazzi del potere, nelle piazze gremite, nei concerti di musica rock (qualche anno or sono le le lezioni in piazza ne furono un timido avamposto).

Se non altro, renderanno più forte la loro voce, più affilate e precise le loro parole, più soda e scura la propria carne, esposti alle intemperie e agli insulti ma anche alle ovazioni e all’abbraccio di qualcuno improvvisamente rinsavito, rinato, guarito!

E a chi crede alla scorciatoia dei magna media, delle televisioni e dei giornali, sappia che di lì il suo sapere ritorna letame ma letame sfatto, avvelenato e defunto. Di lì, dallo spettacolo massacrato dalla pubblicità, esce solo la morte, la Morte anzi, con la m maisucola, dalla quale non si torna indietro.

Dei seminari, delle conferenze, dei convegni dai quali mai è scaturito nulla, non si può più neanche sentire parlare. Occorre che chi sa, se sa davvero (e non fingo di non sapere che il sapere, per farsi, deve pure avere fermentato in qualche tiepido alambicco), faccia sapere, brandisca il suo sapere come arma, in giro per il mondo, all’aperto, non più il godemiché su misura per le agonìe dei “giusti” in qualche club privé.