la gaia educazione

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venerdì 13 settembre 2013

Ancora su questa maledetta faccenda del desiderio a scuola



Non fosse che mi hanno intervistato (bontà loro) su questo argomento, di recente, avrei continuato a riposare per un po’ lontano dall’ignavia e dalla superficialità che regna su questa materia tanto imbarazzante. Ma le molto più imbarazzanti banalità che si allineano continuamente sull’argomento, mi provocano a scrivere ancora qualcosa, di breve, per ora, non foss’altro per meditare per conto mio sul problema.

L’inquietudine che circola sul caso di Saluzzo (insegnante che aveva rapporti sessuali, con sue allieve, di cui è ancora da dimostrare l’abuso, ma si vedrà), dimostra che questo è un tema sotto tiro perenne e attentissima sorveglianza, un tema “sensibile”, di cui si capisce poco, tranne forse l’evidenza della sua incoercibilità.

Si continua a ritenere, probabilmente con una certa ipocrisìa, che il desiderio sia un fattore del tutto componibile con le esigenze dell’ordine e della gerarchia. Ma questo è di per sé, con tutta evidenza, profondamente falso. Il desiderio non funziona così, se tale è. Certo, per molti, a un certo punto -saranno i cosiddetti “adulti” di cui parlano con eguale saccente miopìa scientifica i cosiddetti “giornalisti” (gente al soldo della norma, ovviamente) o gli psicoanalisti (pure loro stipendiati dalla norma)-, non è un problema tenere a freno il famoso destriero del Fedro. Usarlo addirittura. Certo.

Ma forse occorrerebbe finirla con questa pantomima. Nel corso di tutta la storia l’esercizio educativo si è accompagnato con il desiderio e anche la sessualità. Non voglio neppure ricapitolare per sommi capi una storia lunga millenni, fin troppo nota, dai rapporti di precettorato antichi, dalle ginnastiche doriche alla formazione ionica, alla copulazione sistematica nei collegi e nelle comunità anche religiose, ben vive e vegete anche ai nostri giorni, fino alla sessualità scatenata di tante scuole e scuolette contemporanee. Il rapporto educativo, se tale, è intriso d’eros, (desiderio e sessualità) appunto, sotto mille forme. Poi lo si può prosciugare e decontaminare, come ha tentato di fare la scuola laica, prosciugando però al tempo stesso ogni traccia di desiderio anche dal rapporto con il sapere (che è inevitabilmente segnato dalla traccia del vissuto di chi ce lo fa conoscere), e allora si ha un sapere distillato (nel senso dell’acqua distillata), insapore, incontaminato e inodore, del tutto privo di vita (come quello che propugnano gli ultimi e più micidiali epigoni della combriccola: i promotori dell’ e-learning).

Si dice, neanche in maniera troppo velata: la colpa è nella seduzione (Veladiano, Repubblica). Occorre contenere la seduzione. E’ un’affermazione che ha dell’incredibile. Non foss’altro che viviamo nell’epoca della seduzione scatenata, quella perniciosissima e priva di corpo della mediocrazia (dei media e del mediocre), che ad ogni angolo ammicca e ci lusinga con le sue profferte sempre stracariche di allusioni sessuali (nei confronti delle quali, beninteso, non c’è nulla da scandalizzarsi: è da sempre che le cose funzionano così: non è sempre stata comunque la bellezza a richiamare la fede/fiducia delle persone?).
Non foss’altro poi che tutti noi insegnanti dobbiamo sempre più lusingare il pupo pena la squalifica da tutte le classifiche di accettabilità delle nostre proposte educative, ben valutate da plotoni di studenti e studentesse vogliosi finalmente di rendere la pariglia a chi da sempre e senza alcuna temperanza ha valutato loro…

Ma la cosa è poi ancora più assurda proprio in tanto e in quanto non è concepibile alcun appello al sapere che non passi attraverso la seduzione. Seduzione, condurre verso, verso di sé, certo, beninteso, anche. Chi affascina, intorno al sapere, non può, in virtù di non si capisce bene quale torsione psicofisica, assentarsi dalla relazione che instaura comunicando la passione verso l’oggetto. Le due cose fanno tutt’uno. Amo la materia e chi me la fa conoscere, perché la amo proprio in virtù del fatto che qualcuno mi ha, con il fascino che emana anzitutto da lui, soggiogato. E’ inscindibile. Dopo di che, certo, non è detto che l’eros debba essere agito.
Nella storia esistono però infiniti rapporti, nati all’insegna dell’ammaestramento, che si sono tramutati in amore anche reale, che non sempre sono apparsi distruttivi, corruttivi o abusanti (almeno da Eracle e Iolao). E del resto chi è in grado di stabilire con certezza quando si tratta di abuso?

I ragazzi sono spesso costretti o indotti persuasivamente ad accusare i loro sventrapapere o i loro iniziatori, se si preferisce un linguaggio più allusivo. Ma chi conosce il teatro profondo dell’educazione sa che le cose raramente sono così chiare e che chi seduce è spesso il sedotto e che questa embricazione è anch’essa, nella maggioranza dei casi, ineliminabile. E non mi si parli di minori e maggiori. I minori, minori certo entro certi limiti ovviamente (non parliamo propriamente di infanti: il loro eros elfico e selvatico presenta ben altra texture e necessita di ben altra elaborazione), maneggiano l’arte poliedrica della seduzione spesso meglio di chi da tempo si è assuefatto al grigiore delle routine e delle sublimazioni (tanto amate dai nostri sordidi asceti: di ciascuno di essi vorrei conoscere il curriculum personale e scoprire dove e quando ha smesso, se ha smesso davvero, di desiderare la seduzione e di essere sedotto o seduttore).

Insomma: occorre dirsi la verità, e poi, a partire dalla verità, e cioè dalla necessità organica del desiderio nell’esperienza vitale e integra dell’educazione, come delle molte altre esperienze autentiche dell’esistenza, cercare di capire cosa può essere ammesso e cosa meno, e soprattutto come. Occorre fare i conti con i corpi, con i desideri, con la bellezza, con il sapere come sapore, profumo, materia seducente e non scarnificata architettura di crisalidi vuote come certi libri e certi presunti sapienti. Occorre saper leggere l’eros nelle sue infinite sfumature, nei modi infiniti con cui può essere diffuso e integrato nell’esperienza educativa anche senza tramutarsi in diretta esperienza sessuale. Ma anche come la sessualità può concorrere a umidificare e animare la scena educativa, nelle molte forme che essa può assumere. I grandi itinerari spirituali conoscono bene l’implicazione sessuale di ogni autentica via di conoscenza. Perché non la debbono conoscere i nostri impresentabili programmatori scolastici?
Quando finalmente il sapere sessuato, e la sessualità stessa, diverranno argomento di condivisione -non dominato dalle preoccupazioni igienico-sanitarie vili e fraudolente di medici e psichiatri assoldati dalla moralina diffusa-, ma proprio di sapere, nel senso pieno del termine, ricco di storia, di immagine, di pratiche, di esercizio?

Probabilmente quando si leveranno dai cabasisi tutti questi moralizzatori da quattro soldi, stipendiati per dire ovvietà del tutto vacue quanto inutili. Quando a fare, insieme, l’esperienza del sapere saranno uomini e donne viventi, sofferti, iniziati all’autentico desiderio di conoscere, che necessita di un magistero che francamente con il guazzabuglio indegno di questa nostra scuola poco ha a che fare! E che finalmente potranno incontrare bambini e ragazzi ancora vivi, nel fiore dei loro anni, pronti a non derubarli del loro diritto ad essere e desiderare e fare e esprimere e sperimentare ma che sapranno corrisponderli davvero, senza paura di nulla.
Del resto parliamoci chiaro. Senza eros -l’ultimo segnale di vita nella rampante macchinizzazione totale (e non certo quella delle macchine desideranti!)-, per noi è davvero finita.

domenica 4 novembre 2012

Bullismo...insegnante (uscito su Alfabeta2 di ottobre 2012)


Le comari dell’educazione, e tutto il mondo inchinato ortogonalmente ai piedi delle ontoteologie pedagogiche, si scandalizza e si straccia le vesti di fronte al “bullismo”, al fatto cioè che alcuni scolari, gli arruolati loro malgrado alla disciplina scolastica, assumano comportamenti violenti nei confronti di loro pari e, talora, somma colpa inespiabile, anche nei confronti del “corpo insegnante”. I “bulli” sono la feccia scolastica, che se la prende con i deboli, con gli inermi, e che comunque sembra provare godimento nell’infliggere al fragile, al vulnerabile, addirittura al minorato, pene di ogni tipo, ricatti, perversi riti di sottomissione. Gli infami! Che sorridono… E’ pratica consolidata per la verità, di cui già narrava con dovizia di particolari la letteratura ottocentesca, ma anche dopo, si pensi alle pratiche convittuali (e si vada a rileggere al magnifico giovane Törless…), molto simili a quelle in vigore ancor oggi nelle caserme, vere e proprie procedure di iniziazione, ma anche di pura e gratuita sevizia. Il luogo dove tutto ciò però si dà nella sua forma più pura, sebbene nessuno sia tanto avventato da definirlo “bullismo”, è il carcere. Lì la pratica è tacitamente concessa, una specie di legge laterale ma fondamentale, che non fa che replicare in forma più sistematica ma segreta, la legge implacabile della violenza carceraria. Abusi, torture, violenze di ogni tipo che i più titolati nell’ambiente infliggono ai novellini, o, peggio, ai resistenti, ai dissidenti. E’ un codice, che si deve imparare, violenza che replica la violenza dell’istituzione, come in una sorta di emulazione, o forse sarebbe meglio dire di identificazione (con l’aggressore). E certo essere rinchiusi, segregati, sottoposti a disciplina più o meno feroce di certo non aiuta, non lenisce l’urlo dei sentimenti soffocati, repressi, rigidamente normati o interdetti nettamente. Ogni istituzione produce violenza, non c’è scampo. E’ nel suo dna, è il corrispettivo di reazione che deve prevedere alla sua possente spinta di coercizione. Si ritiene forse che la scuola faccia eccezione a questo quadro edificante? Mi pare davvero difficile da sostenere. La scuola obbliga, sequestra, imprigiona, disciplina, norma, punisce. Anzi, se possibile è un luogo di sofisticatissima amministrazione delle pratiche di sorveglianza e punizione, come già illustri studiosi hanno eloquentemente dimostrato. Nessuno si scandalizzi. Anzi, per il vero nessuno si scandalizza. E’ ovvio che sia così. Come si potrebbe, se non attraverso l’uso di un sofisticato sistema di norme e punizioni, radicato ben oltre le mura scolastiche, peraltro, tenere sotto custodia interi eserciti di bambini e di adolescenti che pullulano di pulsioni, di desideri in continua e virulenta metamorfosi, di autentica energia primigenia? Energia corporea, mentale, emotiva, immaginativa? Eppure il bullo fa problema, o come tale viene propagandato. Sebbene sia una sorta di servomeccanismo perfettamente integrato nel sistema. Senza dubbio in assenza del bullo la violenza imploderebbe. Come farla scaricare? Forse con la guerra? C’è violenza ovunque nelle scuole, nel loro reticolo di corridoi, nelle classi, rigidamente inquadrate, nei libri, nelle sedie, nelle “discipline”, che non a caso si chiamano così. Il bullo rispecchia fedelmente ciò che trova. E’ un sintomo, se si vuole, che la nave va, va con la sua consueta violenza, che domanda a sua volta violenza. La violenza per esempio dell’insensatezza (che si incrementa con l’andar del tempo, fino ai livelli elevatissimi di oggidì, quando la scissione tra la proposta scolastica e l’esperienza del mondo appare sempre più netta e incolmabile), almeno agli occhi di molti scolari che frequentano le sue mura. Per molti di loro ciò che si fa dentro le mura, al di là delle norme cui si deve comunque soggiacere a prescindere, diciamo, non ha il benché minimo senso, senso afferrabile, comprensibile, motivato adeguatamente per le loro attese, per i loro desideri, per le loro capacità. E il bullo in fondo, in maniera certo poco elaborata, non fa che ricevere, elaborare (a suo modo) e rimettere in circolo il coefficiente di violenza che circola nel dispositivo scolastico. Ma, come ripeto, tutto questo, che dovrebbe essere in certo qual senso “pacifico” e, dai tutori di quest’ordine, persino guardato con la cinica benevolenza con cui il capobranco guarda la muta dei più giovani azzuffarsi fino alla sfinimento, fa problema. Ma è anche un potente strumento ideologico, perché con la sua denuncia, si mantiene in vita nell’opinione pubblica quel bisogno di repressione in assenza del quale qualsiasi sistema coercitivo rischierebbe di perdere legittimità. Ciò di cui poco o quasi mai si parla è però, in questo quadro, un altro antico, persistente, massiccio, pervasivo, tipo di violenza con le medesime caratteristiche, che circola nella scuola e in luoghi analoghi: quello che mi piace chiamare il “bullismo” degli insegnanti. E mi si faccia venia se qui insisto su una parte, cospicua ma non certo globale, del mondo insegnante. Tutti noi, chi più chi meno, lo ha veduto, lo ha subito, lo ha vissuto negli anni del sequestro educativo. Come non ricordare lo stillicidio di violenze, di abusi, di sottili punizioni servite dai nostri insegnanti, quelli severi ma anche quelli meno, spesso a spese proprio dei più deboli, dei più vulnerabili, dei più inermi? Faccenda che riempirebbe volumi e volumi di un ipotetico “libro nero” della scuola e che, malgrado i mutamenti di rotta della “pedagogia”, almeno in certe sue frange minoritarie, insiste, in forme sempre nuove, sempre più sofisticate. Forse i colpi di bacchetta, le punizioni corporali, i ceffoni, le tirate di orecchi, gli scappellotti, intesi a punire gli irrequieti, gli irriverenti, i “resistenti”, si sono ridotti a poche eccezioni (forse…). Ma certo persistono e si evolvono invece le violenze verbali, i giudizi sommari, i sarcasmi (il “dark sarcasm” della celeberrima canzone dei Pink Floyd), le invettive che prendono di mira senza distinzione i risultati delle “prove”, quanto gli atteggiamenti, i caratteri fisici, la voce, gli abiti, i gesti, le posture, o persino le qualità intime, il carattere, le potenzialità. Quanta umiliazione si patisce in una scuola, spesso ribadita incessantemente, come una sentenza irrevocabile, quante mortificazioni insostenibili, sulla sciatteria, sul disordine, sull’impreparazione, sul linguaggio, sulla “buona educazione”, perfino sul buon gusto! L’esercizio del potere, del potere brutale, del bullo-insegnante è spesso feroce, anche perché somministrato da chi padroneggia le parole, da chi sceglie termini spesso raffinati per marchiare adeguatamente chi non si adegua, chi non arriva, chi resta indietro. I deboli appunto, i più vulnerabili, talora i disabili. Certo oggi ci pensa la psicologia a marchiare in maniera scientifica i “ritardati” di un tempo. Oggi chi non sa leggere non è più un incapace, un fannullone, un idiota, oggi è un dislessico e come tale abbisogna di supporto, di assistenza. Ma in fondo il sostegno non è anch’esso una forma sottile e indelebile di marchiatura, di umiliazione, di degradazione? Essere destinati al sostegno, nel quadro della disciplina scolastica, e cioè in un luogo che è ancora e sempre un luogo di inculcamento, di conformizzazione e di selezione, non è pur sempre una sottile squalifica? Ma sia. Sia un male minore che la scienza prenda il posto dell’insulto e della punizione (benché alla sua ombra l’indolenza insegnante si rifugi troppo spesso per mascherare le sue incapacità). Non è sufficiente. L’edificio scolastico continua a risuonare di catilinarie, di orazioni violente contro i ribelli, contro i diversi, contro i renitenti. L’umiliazione, spesso integrale, addobbata con tutti i crismi e l’autorevolezza miserabile che un insegnante può avere, risuona ancora nelle aule scolastiche. E non meno in quelle universitarie. Quante volte ancora, agli esami, dovremo sentire la tragicommedia di professori tanto arroganti e inconsapevoli della propria personale e immorale meschinità, da apostrofare gli studenti non congruenti alle loro aspettative con i termini dell’umiliazione, dell’insulto, del sarcasmo, della violenza verbale inscusabile pura e semplice? E’ ora di finirla, di ripulire le aule, le scuole e le università da un genere di violenza che, come se non ci fosse già quella prescritta e manifestata dagli orari, dai banchi, dai corridoi, dalle aule, dai libri, dalle prove e così via, non fa che aumentare oltre ogni livello di sopportazione uno spazio già irrespirabile e che, infine, non può che incrementare a sua volta quel bullismo che forse è anche una forma, poco consapevole, degradata, insostenibile ma comprensibile, di ribellione.