la gaia educazione

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domenica 18 febbraio 2018

Spari, botte e la scuola dell'ignoranza




Negli ultimi tempi sembra che i ragazzi e le ragazze abbiano cominciato a menare le mani non solo verso i coetanei ma anche verso gli insegnanti. Una cosa deplorevole, un indice di barbarie, un sintomo della condizione sempre più degradata della nostra gioventù. Colpa delle famiglie protettive! Colpa della tecnologia! Colpa del consumismo che rende questi ragazzi amorfi e tristi!

E compagnia cantando.

Poi ci sono quelli che rivogliono una bella scuola della cultura (contro quella dell’ignoranza) (tipo Saudino). Non so dove la vedano, suppongo nel passato anche se, riandando al passato, io non la ricordo. E dubito che fosse grazie al maggior tempo a scuola che essa sarebbe esistita.
E’ davvero difficile riuscire a pensare oltre la scuola, vederla per quella che è ed è sempre stata e sempre sarà, se si continua a ritenere che essa nei suoi fondamenti debba essere solo restaurata.

Io lo ripeterò fino alla nausea. E’ la scuola che non funziona, per quanto belle materie, bravi insegnanti e orari più lunghi possano fare. E’ la scuola che è violenta, sbagliata, incapace di realizzare apprendimento autentico. Forse che la scuola di trent’anni fa (non so a quale pensi Saudino), facciamo anche cinquanta, realizzava più cultura di questa? Ne ha realizzata talmente tanta che per vent’anni ci siamo beccati il governo più ignorante che forse abbiamo mai avuto. Eppure quel governo l’ha votato gente che usciva da quella scuola! Cosa non ha funzionato? Non è stato fatto abbastanza greco, abbastanza storia, abbastanza arte?

Ma di che stiamo parlando? Crediamo che aumentando il carico di ore scolastiche e riconvertendo le materie su quelle autenticamente culturali, otterremo un paese colto ed emancipato?

Crediamo che la cultura a scuola non abbia sempre fatto la fine che continua a fare, cioè trasformarsi da oro in piombo? Il piombo dell’obbligo, del ricatto e della paura? Certo una sparuta minoranza di privilegiati possono anche ricordarla con il giusto fervore di chi era già stato predisposto alla posa obbediente e disciplinata che lo studio in un tale contesto presuppone. Ma tutti gli altri?

Ma veniamo alla violenza, l’orrore delle cronache di questi giorni. In nome di Dio, come si permettono di alzare le mani sui loro insegnanti?
Mi spiace, non mi intonerò alla nenia di chi difende la scuola ad ogni costo e getta sugli studenti tutte le colpe, o sui loro genitori. Al contrario, mi stupisco che non sia accaduto prima, vista la quota di violenza, fisica un tempo ma anche ora talvolta, e soprattutto psicologica, che studenti e studentesse da sempre sopportano non certo solo dai loro insegnanti (benché anche da loro) ma da tutto il terribile dispositivo normativo da cui sono soffocati e stritolati.

Crediamo forse che la scuola sia un luogo dove esiste comprensione, collaborazione, tutela delle libertà personali, riconoscimento delle differenze, assistenza autentica in funzione dell’apprendimento, cultura e soprattutto cultura dell’insegnamento? Siamo così folli da credere questo? Crediamo che il modo di costruire le classi, di ordinare gli orari, di imporre la disciplina, di imporre tutto dal momento che nulla è scelto, sia il modo giusto per impostare un percorso di apprendimento? Crediamo che un luogo concentrazionario e repressivo come questo sia il giardino di Epicuro o il Peripato di Aristotele?

Crediamo che tenere alla larga i nostri ragazzi e le nostre ragazze dal mondo reale e dai suoi conflitti, dalle sue opportunità come dalle sue contraddizioni, sia un buon modo perché imparino e imparino a conoscerlo, sub forma di magnifici manuali di inamidamento e ibernazione del sapere come le nostre indimenticabili storie della filosofia, dell’arte o gli eserciziari di matematica?

Naturalmente ce ne possiamo raccontare tante e tenerci stretta la nostra bella esperienza con l’insegnante x o y, che non a caso avevano scelto noi, proprio noi, come ci racconta il buon Psicanalista, come discepolo o discepola preferito, per ritenere la scuola un’oasi di bellezza, di studio e di convivenza pacifica e amicale.

Peccato che essa invece sia un luogo di pena per la grandissima parte, che alcuni oggi siano così esasperati da essa ma anche dal nulla che trovano fuori (dove nessuno si pone il problema di rendere ospitale per loro (i nostri piccoli) un mondo che non è per nulla ospitale neanche per noi!), che la voglia di venire alle mani (che c’è sempre stato, sarebbe una follia fingere che non sia così in questi luoghi di detenzione), arrivi fino alle autorevoli e sacre figure degli insegnanti.

Certo, oggi ragazze e ragazzi non vedono più i loro insegnanti come sacri incunaboli del sapere, grazie anche a famiglie un po’ meno inginocchiate davanti alle istituzioni educative -che nulla mantengono di quello che promettono ma soprattutto davanti ai loro soprusi-, non vivono più la scuola come una pena santa in nome della quale immolare il loro tempo, i loro corpi e troppo spesso anche le loro menti.

La vita sociale è una vita sempre più violenta e si dà il caso che nessuno si preoccupi di offrirne una elaborazione seria, men che meno la scuola, barricata dietro la sua offerta formativa (che sostituendo i gadget alla filosofia certo non guadagna un centimetro di credibilità, men che meno con la ridicola e pericolosa alternanza scuola lavoro).

Occorre un ripensamento ben più radicale, che parte dalla vita sociale, dalla quale abbiamo escluso le generazioni più giovani, per regalargli un simulacro di tempo libero di cui non sanno che farsi, invece di una partecipazione autentica e di percorsi formativi stimolanti e nel vivo della vita comune. La scuola è solo un luogo dove trattenere questa copiosa parte della popolazione che nessuno sa dove mettere, sotto il giogo delle valutazioni, dei test e delle psicodiagnosi sempre più diffuse ed allarmanti.

Non mi stanco di ripeterlo, (prima che alle botte succedano gli spari, come già accade altrove), non colpevolizziamo i ragazzi e le ragazze, guardiamoci in faccia noi, giudichiamo noi stessi per quel nulla che facciamo per loro, per la nostra insofferenza, per il nostro poco tempo, per i nostri giudizi frettolosi e corrivi, per l’abbandono al nulla organizzato che li circonda, scuola compresa, cui continuiamo a delegare un fantasma di formazione dall’aria sempre più grottesca e inattendibile.

Occorre pensare oltre la scuola, verso una “città educante”, come con altri (il mio amico Campagnoli in primis, e si veda il nostro La città educante. Manifesto dell’educazione diffusa, edito da Asterios) tentiamo di dire e fare. Se vogliamo che i nostri ragazzi abbiano voglia di imparare, di esserci nel mondo vivi, partecipi, a pieno titolo, occorre che anzitutto glielo riconosciamo, che gli restituiamo il titolo di soggetti, di soggetti che vogliono esserci e che trovano nella società e non solo nelle scuole -teatrini solo dell’educastrazione-, ascolto, opportunità, tutela, ospitalità.

Forse allora cominceranno a riconoscerci come partner accettabili e non come controllori o secondini più o meno camuffati sotto le vesti degli improbabili maestri. Dobbiamo essere noi a riprendere in mano le nostre vite, il nostro tempo e la nostra voglia di stare con loro, senza rifilarli in massa a un drappello di istitutori e istitutrici di belle speranze.

Non c’è un’altra via, perché in questo ne va della loro vita ma anche della nostra, non possiamo dimenticarlo.

mercoledì 6 luglio 2016

La violenza inelaborata



E’ difficile parlare di violenza. E’ una “parola-valigia” davvero consunta e spigolosa, piena di trappole semantiche e in fin dei conti poco analizzata.

Appare piuttosto comico dover partire al solito dalle definizioni però talora aiutano. Il dizionario dice due cose: 1) forza impetuosa e incontrollata; 2) azione volontaria, esercitata da un soggetto su un altro, in modo da determinarlo ad agire contro la sua volontà (qui poi ci sono una serie di sottocasi ma meno rilevanti).
Non è male, come punto di partenza: abbiamo da una parte un impulso cieco e indeterminato (forza che si scatena senza che sia precisato come e su cosa) e dall’altra parte invece la descrizione, in generale, di un’ “azione volontaria” che obbliga altri o altro ad agire contro la sua volontà (è vero, si parla di soggetti ma proviamo solo a pensarlo come qualcosa diretto ad altro, per stare ancora un po’ lontani dalla necessaria e troppo ovviamente ribadita violenza intraumana).

Insomma da una parte una scarica di forza (presumibilmente indotta da quella cosa ugualmente complessa che noi chiamiamo rabbia e che di solito si appoggia su ‘un’altra cosetta variabile di soggetto in soggetto che invece possiamo definire aggressività). Dall’altra invece ci troviamo di fronte a un gesto consapevolmente diretto a forzare qualcosa o qualcuno a muoversi contro alla propria volontà e o aggiungerei forse, natura.

Insomma, se mi è consentito, e per ora io me lo consento, da una parte la furia cieca (la chiamerei violenza calda) e dall’altra la violenza deliberata (la chiamerei violenza fredda). Spero mi si perdonerà la grossolanità di questa distinzione ma credo possa avere un certo valore euristico, per dirla con le parole fini di chi fa la ricerca.

Ora, sarebbe lungo e forse fuori luogo elencare tutte le forme di violenza che ci circondano oltre a quelle di cui siamo di volta in volta vittime o agenti (diciamo con questo termine neutro per non cadere in gerghi criminogeni).

Prima sentenza dubitativa: siamo tutti vittime e attori di violenza, in un modo o nell’altro, violenza cieca (tipo prendere a scarpate una porta che non si apre dopo aver tentato di aprirla con metodi più consoni per un certo numero di volte a seconda dell’indole e del grado di tensione) e violenza ben vedente (tipo avvelenare una colonia di scarafaggi con un’insetticida truculento solo “perché ci fanno schifo”).

Capisco, sono esempi che non si confanno alle dolorose cronache del nostro mondo, e tuttavia credo sia importante tenerne conto.

Seconda sentenza dubitativa (lo dico solo per scrupolo professionale): la violenza è continua, onnipresente e inevitabile. Lo so che qualche rousseau o qualche harikrishna di buona volontà potrebbe mettere in dubbio ciò ma mi dispiace, io sto dalla parte di Leopardi (cfr. le numerose frequenze di questa riflessione cruciale nelle Operette, nello Zibaldone, nei Canti e così via).
Ovunque c’è battaglia, nella natura, inutili gli esempi, tra le cose (perfino!), tra le cose e la natura e infine tra l’uomo la natura e le cose. Tra tutti i violenti, senza ombra di dubbio, uno dei più pervicaci e inguaribili è proprio l’uomo. Non che non abbia altre qualità ma…questa disposizione, nutrita di aggressività e di rabbia, è sempre presente in ognuno, con gradi diversi di espressione comportamentale e di selezione dei destinatari.

Gli antichi, pace all’anima loro, sempre che ce l’avessero, avevano coniato un buon modo e anche economico per distinguere gli umani, con i tipi di bile presenti in essi: quella gialla, fragorosa e feroce, quella rossa, sanguigna, quella nera, mortuaria e algida, quella bianca, flemmatica e lenta. Ma non si facevano illusioni: tutti questi tipi sapevano fare violenza ciascuno a modo proprio. La bile gialla, che poi si è fatta coincidere con la violenza tout court, era solo uno dei modi. Ci si guardi dalla violenza dei melanconici, velenosa e mortifera, come da quella dei flemmatici, fredda e ritardata, o dei sanguigni, corposa e talora manesca. A ciascuno il suo.

Che vuol dire? Vuol dire che una delle manifestazioni costitutive del nostro mondo (e probabilmente dell’intero universo è la forza cieca e incontrollata così come l’intenzione di fare del male, per dirla in breve), specialmente quando quel mondo procede a velocità supersonica incitando alla competizione e alle sfide.

La violenza, più o meno terribile, è un carattere permanente del nostro mondo, umano e non. Gli animali si aggrediscono continuamente, sono attanagliati dalla paura, alberi, cespugli e fiori combattono tra loro per prevalere e diffondersi, uomini, donne e bambini si colpiscono con l’ampia varietà di strumenti che la cultura e la natura hanno loro riservato, senza requie.
La rosa degli esempi è talmente ricca e complessa che forse varrebbe la pena di compilarne una enciclopedia. Tuttavia, nell’economia forzata, per quanto possibile, di questo breve testo, mi toccherà scegliere qualche situazione sensibile.

Il guaio è che sono davvero tante, anche solo quelle sensibili: la città è violenta (come nel film del 70 di Sollima con Charles Bronson), troppo facile fare esempi, la guerra tra pedoni e automobilisti, tra automobilisti sigillati nelle loro auto condizionate e lavavetri, tra rumori, tra natura e cemento, tra aria sporca e polmoni, nostri e di chi vive di ossigeno intorno a noi ecc. ecc.. Non mi ci soffermo anche se meriterebbe. L’informazione è violenta (ci dissemina quotidianamente di dolore, di disgrazie, di truculenti casi di macelleria sicuramente più appetibili delle notizie normali (parentesi nella parentesi: non dirò una cosa nuova dicendo che noi, privati di violenza fisica, siamo poi affamati della visione della violenza fisica e anche iperfisica), contribuendo, insieme alle città, al lavoro, alle norme, ai doveri ecc. ecc., indubbiamente a far salire quella cosa che noi chiamiamo stress ma che credo andrebbe meglio tradotto con tensione e rabbia per le infinite frustrazioni e colpi cui noi tutti, consapevoli o meno, siamo sottoposti da tutte quelle cose insieme e anche molte altre).

Ma veniamo al sensibile sensibile, che più ci interessa, noi che ci occupiamo dell’allegra umanità e delle sue sorti progressive.
Terza sentenza dubitativa: famiglia e coppia sono campi di battaglia sanguinosi.
Tutti lo sappiamo bene perché in famiglia, prima o poi, ma di sicuro prima, tutti ci siamo passati. Naturalmente la maggior parte di noi si racconta che la famiglia è un nido, una cuccia calda, un luogo di protezione e di dialogo, di sollecitudine e di cura. Raccontiamocelo.
Tuttavia di solito non è così. Il conflitto è il vero piatto forte di ogni congrega, specie quelle non elettive, e la famiglia lo è ben poco, fatto salvo un certo desiderio reciproco provato in epoca remota tra i due principali contraenti (la coppia genitoriale). Tutti gli altri vi sono capitati (i figli) non per scelta. E dunque se ne deducano le molte complesse conseguenze.

Ma veniamo a bomba: questa benedetta coppia, gli uomini maltrattanti e le donne maltrattate.
Per carità, vero, tutto vero, e antico almeno quanto la nostra civiltà (postmatriarcale), fatto salvo che nell’ultimo secolo (il XX soprattutto) le donne, invece che essere semplicemente usate e buttate, emarginate e soggiogate, hanno risollevato le loro sorti (dove più, dove meno, dove per nulla) e oggi spesso fronteggiano i loro partner da pari a pari, talora pure con qualche punto di vantaggio (che una volta, secondo il Baudrillard, comunque possedevano, secondo il codice della seduzione, detto en passant).

Ora si dà il caso che, tra momenti di altissimo tripudio prossemico, di beatitudine affettiva e fisica, di condivisione e di protezione reciproca, si annidi il germe della guerra. Dolcissima e suggestivissima certamente ma talora anche spaventosa e omicida. Mi si intenda, da ambedue le parti. Non certo per sminuire l’orrore dell’omicidio in senso letterale, o delle botte in senso letterale, fatto che, nella maggior parte dei casi vede il maschio dalla parte dell’agente violento e la femmina dalla parte della vittima (termine sempre un po’ troppo carico di connotazioni ma ok) ma per ricordare che comunque di un teatro di guerra non unidirezionale si tratta.

Appare certo semplicistico provare a dire, nel grande frastuono, che anche le donne posseggono strumenti micidiali che uccidono (non in senso letterale). Essere uccisi dentro, aboliti dal rifiuto e dal disprezzo, dall’intelligenza (in media le donne sono più intelligenti e loquaci dei loro compagni) di una donna, può essere catastrofico per una psicologia maschile un poco rozza. Ma non voglio certo cavarmela con questa minuscola pagliuzza nell’occhio dei giudici. Il fatto è che la coppia è un organismo a rischio, lo si dica una buona volta. E ahimé inemendabile. La cultura aiuta certo ma vi sono illustri intellettuali che sono arrivati a uccidere la propria moglie (e mi risparmio gli esempi).

Il teatro della violenza è antico almeno quanto la nostra mitologia e il substrato di pulsioni inconsce che la ha fomentata. Vi ricordate Venere e Marte, che coppia eh! Se la facevano di soppiatto, all’oscuro del pur astuto Efesto, che però a un certo punto li mette tutti e due alla berlina nella famosa rete. Ma qui quello che interessa è la coppia: Venere e Marte. Venere vuole Marte, e viceversa. (Per una riflessione un po’ meno grezza di questa si veda Un amore terribile per la guerra di Hillman). Marte non vuole Estia , per dirne una, la dea del focolare. Vuole Venere, la bella e pericolosa. E lei vuole lui, bellicoso e tuttomuscoli. E forse lo vuole così anche perché nelle sue fantasie si aggira una pulsione masochistica, chissà. Ma anche questo è troppo semplice e banale (per quanto mi torni in mente una sentenza di Elisabetta Canalis che, in una trasmissione televisiva, a un’intervistatrice che la interrogava sui suoi gusti maschili, rispondeva: lo voglio con i muscoli, al cervello ci penso io. Meditare su ciò, meditare…).

Ma sia: i maschi hanno i muscoli, fatti in palestra, non certo con il lavoro o sui campi di battaglia, eufemizzazione che non trascurerei del tutto per una sua oggettiva rilevanza (e comunque anche molte donne hanno i muscoli da palestra) e ciononostante tanti sanno tenerli al loro posto. E per fortuna. Se no altro che emergenza sociale! Gli uomini sono ancora uomini, (benché talora demascolinizzati interiormente come vuole certa psicoanalisi), ed è così che li vogliono molte donne dall’indubbia e inopinabile femminilità.

Forse, per evitare la violenza domestica, una delle tante forme che assume il conflitto nel campo di battaglia della coppia (tramato da gesti di minaccia, assenze, mutismi, invettive, grida, oggetti innocenti percossi e demoliti, pratiche legali più o meno virtuali ecc. ecc.) e tra le quali ahinoi anche quella fisica ha un suo luogo, forse in chi (ma non sempre e non necessariamente) vi è più abituato, occorrerebbe demascolinizzare definitivamente il maschio e defemminilizzare definitivamente la donna, assestandosi su identità intersessuali ormonalmente pacifiche (non si scomodi comunque la teoria del gender, quella è ben altra cosa).

Ma insisto, conscio che mi sto facendo nemici e nemiche riga dopo riga, vuoi l’uomo palestrato e già abituato a risolvere almeno parte dei suoi conflitti con gli argomenti più diretti e incontrovertibili? Ok ma poi ci sta che, al colmo della tensione, quando le parole, già in lui non proprio abitudinariamente frequentate nelle loro più articolate sfumature, vengono meno e la pressione sanguigna improvvisamente sale vertiginosamente, qualcosa di implacabile e sinistramente materiale faccia la sua comparsa. Non è igienico portarsi un bisonte in casa.

Questo non assolve certo i maschi violenti, figuriamoci.
Ora però, ora, freniamo. Non mi interessano gli argomenti legali né terapeutici in senso personale, non credo ai casi individuali, né alla malattia, né alla malvagità.
Ogni uomo e ogni donna sono violenti, a seconda delle condizioni personali, della propria storia, della società in cui vivono e anche a seconda delle loro doti genetiche. Non vi è dubbio poi che la cultura, il linguaggio, un certo impulso a reprimere il gesto violento e anche la politica abbiano concorso a ridurre le violenze più efferate. Ma disboscarle completamente credo sia impresa davvero dura. Senza contare, ripeto, che l’aggressività, quella, resta, e i motivi del conflitto pure, umani troppo umani.

Ma permettetemi -sono un pedagogo in fin dei conti-, di concludere con un bagliore di speranza.
Quarta sentenza dubitativa: nella nostra civiltà l’aggressività e la violenza restano fondamentalmente inelaborate dall’educazione e dagli stili di vita egemoni.

L’aggressività in primo luogo.

E’ l’aggressività, pulsione umana, normale, diffusa a tutte le latitudini, che però può, sottolineo, può trasformarsi in violenza ma non necessariamente. E’ soprattutto lei che andrebbe studiata e trattata con più attenzione.
Sul piano educativo siamo in alto mare, la falla è talmente grossa che occorreranno decenni per porvi rimedio. Cominciando dai corpi, i corpi negletti e inchiodati dei bambini e dei giovani nelle istituzioni educative, specie dei giovani, si caricano di tensione, sono repressi, castrati e inoperosi.

Prima misura cruciale: nell’educazione mettere al centro il corpo, dargli la possibilità di esprimersi, scaricarsi, curarsi. Due orette di sport gli fanno il solletico e lo sport resta pur sempre una sublimazione. Ma vada la sublimazione, però anche con la musica, il teatro, l’arte , le performances, le arti circensi ecc. ecc.. Ma poi esiste una elaborazione diretta, non analogica: le arti marziali, che sono prevalentemente tecniche e esercizi di difesa, ma direttamente a contatto con l’aggressività, con la forza, con lo spirito guerriero, che in una forma o in un’altra alberga in tutti noi. Arti marziali, del combattimento, della lotta fisica, per ragazzi e ragazze, senza discriminazioni, perché si conoscano nel corpo e tra corpi, perché misurino la loro potenza, la loro energia, la loro sensualità, perché si sfoghino in un campo protetto e avvincente, scaricando al contempo il piacere del vincere e la frustrazione del perdere.

Ma anche elaborazione educativa dell’aggressività mentale, nel linguaggio, nelle dispute, nel dissenso. Esistono tecniche e arti del conflitto, della negoziazione, della discussione, strategie dialettiche, della comunicazione dialogica ecc. C’è tutto un territorio di conoscenza, autentica cultura polemica, che almeno un poco aiuterebbe noi tutti a vivere la nostra aggressività come una risorsa e non come un demonio da tenere sotto chiave finché non esplode. A questa cultura occorre rivolgersi per elaborare le radici della violenza, o almeno per provarci. Specie in epoca di intolleranza della frustrazione.

Mi trattengo dal parlare del cosiddetto bullismo perché già ho detto la mia altrove, anche su questo blog. Certo però che un minimo di apprendimento dal codice corporale delle istituzioni totali forse ci aiuterebbe a capirne qualcosa in più… Ma mi fermo qui.

E infine, diciamocelo. Lo diciamo lo diciamo ma non facciamo nulla. Questa nostra civiltà è intrinsecamente violenta, patriarcale nel profondo, ben oltre ogni evanescenza dei padri. Una civiltà del rumore, della velocità, della competizione, della produzione, dell’azione, delle sfide, dell’eccellere ecc. ecc., fallocratica a 360 gradi, è come una guerra continua, tutti contro tutti. E lo è, letteralmente. Fonte di frustrazioni continue, di tensioni, di infinite e interminabili battaglie, cosa ci aspettiamo che produca, oltre alle nostre “magnifiche sorti”? Produce violenza, violenza soffocata, ignorante, invisibile talora ma assai sensibile.

E talora anche violenza consapevole, intenzionale e forse anche giusta, quando difende dei diritti e delle possibilità represse. Ma questo aprirebbe un ulteriore complesso capitolo che per ora rimando.

E dunque? E dunque lo sappiamo: finché non riusciremo a rallentare, a decongestionare, a concedere spazio al silenzio, alla riflessione, alla meditazione, al piacere, al riposo, al sonno, ai vuoti. Finche non impareremo a fare amicizia con ciò che non cresce, assolvendolo una buona volta, finché non ci libereremo da questo mostruoso stile di vita che è il nostro e che è il prodotto della forsennata voracità di questa civiltà del fare inutile che è la nostra, sarà ben difficile vedere sorgere l’alba di un mondo più soddisfatto, meno incazzato, meno assatanato di mete vane e grottesche.

Intendiamoci, non che un mondo più mite possa cancellare la violenza. No, figuriamoci, Marte non può essere cancellato, né le Amazzoni. E tuttavia, può renderli più saggi forse, capaci di combattere senza uccidere, di confliggere provando interesse e impegno per l’arte del conflitto, e alla fine forse persino provare il desiderio di sedersi attorno a un tavolo a dissipare la rabbia e lo stress nel vino e nel piacere. Forse, forse (quinta sentenza dubitativa).

Ma questa, come diceva il barista di Irma la dolce, è un’altra storia.

sabato 10 novembre 2012

Ancora (sì, ancora), sui giovani, la loro speciale sensibilità per l'ingiustizia e le botte


Non ci si può esimere, se non altro in quanto osservatori e attori nel mondo dei giovani, a intervenire nei flussi di retorica che li inondano. I giovani, gli adolescenti ancora di più, restano una grande ghiottoneria per le riflessioni spesso gratuite che molti acuti (si fa per dire) maestri di penna ci infliggono approfittando del fatto che si tratta di un soggetto che raramente arriva a esprimersi in proprio nelle sedi dove appunto si consuma la retorica sopra di lui. I giovani. Cui si oppone, con sommo gusto della caricatura, il soggetto adulto o anziano, oppure i sempre idealizzati bambini (sapessero che razza di soggetto sadiano, magari in miniatura ma sadiano, lo ha mostrato bene Golding, sono i bambini!). I giovani, sempre un po’ ridicolizzati, sghembi per natura, non acconci. Oggi è tornato di moda l’antichissimo sport di prenderli a botte (e certo non solo metaforicamente). La polizia, che è sempre la stessa, un organo di repressione, sarebbe opportuno non dimenticarlo mai, Pasolini o non Pasolini, pesta i giovani. I giovani protestano ma, sottolineano acuti osservatori, senza sapere bene neppure il perché. I giovani narcisisti della società senza padre (sempre secondo i loro osservatori), riottosi a farsi adulti in un mondo privo di adulti perché ormai intenti essi stessi all’infinito gioco del desiderio (desiderio imposto però dal grande mercato delle merci) bla bla bla bla. Gli psicologi soprattutto. Un giorno o l’altro bisognerà fare una ricerca, una ricerca “politica”, sopra gli psicologi, questi arguti analisti delle vite altrui. Sempre pronti a fornire le loro preziose diagnosi, con terminologia squisitamente maleficatrice, che inchioda tutti alla patologia. Posizione comoda quella dell’analista, il vero dominatore della chiacchiera contemporanea ma anche insostituibile procacciatore della peggiore droga in circolazione, quella dell’ideologia che ci fa tutti integrati nella vita normale o irrimediabilmente sbagliati. Ma poi non sono solo loro. Tutti sproloquiano sui giovani, me compreso. Tutti siamo presi da questo sport arcigno, che li guarda da una presunta posizione di conoscenza, senza neppure aver davvero fatto banalmente i conti con ciò che significa essere giovani, o adulti. Soprattutto senza avere sperimentato davvero la nostra adolescenza, la nostra giovinezza, fino a farne un centro di irradiazione vitale, costante e pervasivo. I giovani, questa massa melliflua e sostanzialmente omogenea. Ma dove, ma quando? I giovani sono sempre esposti all’erpice violento delle interpretazioni. In verità essi sono altrove, perlopiù, dalla posizione dei guardanti, dei voyeur che li scrutano per metterne in luce le criticità, gli scarti, le devianze. Sempre altrove dallo sguardo sottilmente invidioso che li perlustra e che cerca di enuclearne i depositi di paura, le violenze, la confusione (apparente), l’immoralità. Diventare adulti però, occorrerebbe dirlo a lettere maiuscole, significa perdere quella SPECIALE BELLEZZA. E’ l’adulto il mancante, non il giovane. E’ l’adulto che perde in vigore, freschezza, sensibilità. L’adolescente, il giovane sono immensamente aperti, e densi, e liberi (quando non sono vilmente sabotati appunto dagli adulti che se ne occupano e dalle loro interpretazioni risentite). Ma di più, i giovani hanno qualcosa di indomabile che ha il sapore dell’utopia, nella loro condizione, quando è ancora così privilegiatamente libera, non ingabbiata nella vita sociale e professionale. Essi possiedono, stigma incancellabile, una speciale sensibilità per l’ingiustizia. Oh, virtus horribilis! E’ questo che li rende insofferenti, che talvolta li fa scendere nelle strade, gridare, rompere. A differenza degli adulti, quelli che poi davvero lo diventano (e, ahimè, qualcuno davvero lo diventa), essi avvertono, o meglio -forse proprio perché non ancora presi dalle norme cogenti dell’ingranaggio, perché pascolano ancora in quella zona di distacco da cui le cose appaiono inagite, possibili, non sottoposte al dominio di una ragione che le strumentalizzi-, sono sensibili alle storture, le aggressioni gratuite, la violenza implicita ed esplicita sul mondo, sulla natura e sulle loro vite ancora non definite e perdute (o predate). Mentre gli adulti affondano nei gorghi della loro progressiva acquiescenza alla putrefazione dei sensi (specie di quelli rivolti al dolore del mondo), i giovani, fin tanto che restano tali ( e molti lo restano a lungo, fino alla fine dei loro giorni perfino, eccezionalmente), sono ancora svegli, desti, sensibili appunto. Questo è insopportabile per l’adulto-guardiano (e guardone). Lui è al lavoro per anestetizzarli, per piegarli ai carichi di lavoro che possano finalmente normarne l’ indomabile tendenza insurrezionale, l’insubordinazione, anche il semplice lamento. Ecco allora la distribuzione gratuita delle sindromi: narcisisti, intolleranti alla frustrazione, indolenti, capaci solo di passioni tristi e compagnia cantando. Per la misera testimonianza che ne posso offrire, le passioni dei giovani starebbero benone, se non ci fosse lo sguardo degli adulti genitori, la scuola degli adulti insegnanti, il mondo degli adulti padroni a soffocarle. Se avessere intorno maestri di affermazione della vita e non tossicodipendenti della distruzione sistematica: distruzione del senso, distruzione della natura, distruzione della vita. Ci si stupisce che ogni tanto i giovani facciano sentire il loro grido di protesta e qualcuno è stupito perfino che li si rimetta rapidamente al loro posto (qualcuno persino si straccia le vesti, con finta ingenuità): li si rimette al loro posto con la polizia, polizia nelle strade ma anche polizia nella testa, con i nuovi e progressivi programmi di professionalizzazione precoce, di arruolamento nelle truppe di distruzione del cosmo e del possibile. Manganellate sulla schiena e manganellate psicologiche, sociologiche, manganellate a suon di test, di selezioni, di mete esistenziali risibili e palesemente alienate. Io continuo a stupirmi che i giovani non mettano a ferro e fuco le loro case, le famiglie, “gli armadi, le chiese, i notai”, come diceva Gaber. E gli psicologi. Purtroppo, è l’amara constatazione, i nuovi sistemi di manipolazione lavorano in profondità, sempre di più, l’idiotizzazione, l’adulterazione precoce funziona. E allora naturalmente se uno sta rivendicando il suo tempo e il suo diritto a essere fino in fondo, è solo un piccolo narcisista figlio dell’impero del consumismo, dei padri assenti e delle passioni tristi. E allora torniamo alle vecchie regole auree dell’autoritarismo, dei padri che prendevano a pedate l’autonomia di pensiero dei loro figli, che imponevano il loro scettro su ogni decisione, sotto la minaccia di castighi, fisici e psichici, innominabili. Torniamo alla buona generazione così rispettosa dell’autorità da non avere neppure più neppure la coscienza che le impedisse di accompagnare ai forni esseri umani loro simili, solo perchè questo gli era stato ordinato (da un capo-padre). Torniamo alla grande generazione di gente che sapeva diventare adulta, che sapeva separarsi dalla capsula affettiva delle famiglie, famiglie da cui separarsi certo era sempre un gesto troppo tardivo. Torniamoci e spazziamo via anche il più piccolo sintomo di giovinezza, quel sintomo che fa della giovinezza la stagione utopica della vita, la stagione “insubordinata”, letteralmente “senza luogo”, non ancora fissata, inchiodata ad un ruolo e alle responsabilità predisposte per essa dal sistema sociale. Quellea responsabilità che infine li piegherà al nulla e alla distruzione di cui i nostri magnifici e progressivi adulti continuano, ad ogni piè sospinto, a offrirci lo spettacolo incomparabile.

domenica 4 novembre 2012

Bullismo...insegnante (uscito su Alfabeta2 di ottobre 2012)


Le comari dell’educazione, e tutto il mondo inchinato ortogonalmente ai piedi delle ontoteologie pedagogiche, si scandalizza e si straccia le vesti di fronte al “bullismo”, al fatto cioè che alcuni scolari, gli arruolati loro malgrado alla disciplina scolastica, assumano comportamenti violenti nei confronti di loro pari e, talora, somma colpa inespiabile, anche nei confronti del “corpo insegnante”. I “bulli” sono la feccia scolastica, che se la prende con i deboli, con gli inermi, e che comunque sembra provare godimento nell’infliggere al fragile, al vulnerabile, addirittura al minorato, pene di ogni tipo, ricatti, perversi riti di sottomissione. Gli infami! Che sorridono… E’ pratica consolidata per la verità, di cui già narrava con dovizia di particolari la letteratura ottocentesca, ma anche dopo, si pensi alle pratiche convittuali (e si vada a rileggere al magnifico giovane Törless…), molto simili a quelle in vigore ancor oggi nelle caserme, vere e proprie procedure di iniziazione, ma anche di pura e gratuita sevizia. Il luogo dove tutto ciò però si dà nella sua forma più pura, sebbene nessuno sia tanto avventato da definirlo “bullismo”, è il carcere. Lì la pratica è tacitamente concessa, una specie di legge laterale ma fondamentale, che non fa che replicare in forma più sistematica ma segreta, la legge implacabile della violenza carceraria. Abusi, torture, violenze di ogni tipo che i più titolati nell’ambiente infliggono ai novellini, o, peggio, ai resistenti, ai dissidenti. E’ un codice, che si deve imparare, violenza che replica la violenza dell’istituzione, come in una sorta di emulazione, o forse sarebbe meglio dire di identificazione (con l’aggressore). E certo essere rinchiusi, segregati, sottoposti a disciplina più o meno feroce di certo non aiuta, non lenisce l’urlo dei sentimenti soffocati, repressi, rigidamente normati o interdetti nettamente. Ogni istituzione produce violenza, non c’è scampo. E’ nel suo dna, è il corrispettivo di reazione che deve prevedere alla sua possente spinta di coercizione. Si ritiene forse che la scuola faccia eccezione a questo quadro edificante? Mi pare davvero difficile da sostenere. La scuola obbliga, sequestra, imprigiona, disciplina, norma, punisce. Anzi, se possibile è un luogo di sofisticatissima amministrazione delle pratiche di sorveglianza e punizione, come già illustri studiosi hanno eloquentemente dimostrato. Nessuno si scandalizzi. Anzi, per il vero nessuno si scandalizza. E’ ovvio che sia così. Come si potrebbe, se non attraverso l’uso di un sofisticato sistema di norme e punizioni, radicato ben oltre le mura scolastiche, peraltro, tenere sotto custodia interi eserciti di bambini e di adolescenti che pullulano di pulsioni, di desideri in continua e virulenta metamorfosi, di autentica energia primigenia? Energia corporea, mentale, emotiva, immaginativa? Eppure il bullo fa problema, o come tale viene propagandato. Sebbene sia una sorta di servomeccanismo perfettamente integrato nel sistema. Senza dubbio in assenza del bullo la violenza imploderebbe. Come farla scaricare? Forse con la guerra? C’è violenza ovunque nelle scuole, nel loro reticolo di corridoi, nelle classi, rigidamente inquadrate, nei libri, nelle sedie, nelle “discipline”, che non a caso si chiamano così. Il bullo rispecchia fedelmente ciò che trova. E’ un sintomo, se si vuole, che la nave va, va con la sua consueta violenza, che domanda a sua volta violenza. La violenza per esempio dell’insensatezza (che si incrementa con l’andar del tempo, fino ai livelli elevatissimi di oggidì, quando la scissione tra la proposta scolastica e l’esperienza del mondo appare sempre più netta e incolmabile), almeno agli occhi di molti scolari che frequentano le sue mura. Per molti di loro ciò che si fa dentro le mura, al di là delle norme cui si deve comunque soggiacere a prescindere, diciamo, non ha il benché minimo senso, senso afferrabile, comprensibile, motivato adeguatamente per le loro attese, per i loro desideri, per le loro capacità. E il bullo in fondo, in maniera certo poco elaborata, non fa che ricevere, elaborare (a suo modo) e rimettere in circolo il coefficiente di violenza che circola nel dispositivo scolastico. Ma, come ripeto, tutto questo, che dovrebbe essere in certo qual senso “pacifico” e, dai tutori di quest’ordine, persino guardato con la cinica benevolenza con cui il capobranco guarda la muta dei più giovani azzuffarsi fino alla sfinimento, fa problema. Ma è anche un potente strumento ideologico, perché con la sua denuncia, si mantiene in vita nell’opinione pubblica quel bisogno di repressione in assenza del quale qualsiasi sistema coercitivo rischierebbe di perdere legittimità. Ciò di cui poco o quasi mai si parla è però, in questo quadro, un altro antico, persistente, massiccio, pervasivo, tipo di violenza con le medesime caratteristiche, che circola nella scuola e in luoghi analoghi: quello che mi piace chiamare il “bullismo” degli insegnanti. E mi si faccia venia se qui insisto su una parte, cospicua ma non certo globale, del mondo insegnante. Tutti noi, chi più chi meno, lo ha veduto, lo ha subito, lo ha vissuto negli anni del sequestro educativo. Come non ricordare lo stillicidio di violenze, di abusi, di sottili punizioni servite dai nostri insegnanti, quelli severi ma anche quelli meno, spesso a spese proprio dei più deboli, dei più vulnerabili, dei più inermi? Faccenda che riempirebbe volumi e volumi di un ipotetico “libro nero” della scuola e che, malgrado i mutamenti di rotta della “pedagogia”, almeno in certe sue frange minoritarie, insiste, in forme sempre nuove, sempre più sofisticate. Forse i colpi di bacchetta, le punizioni corporali, i ceffoni, le tirate di orecchi, gli scappellotti, intesi a punire gli irrequieti, gli irriverenti, i “resistenti”, si sono ridotti a poche eccezioni (forse…). Ma certo persistono e si evolvono invece le violenze verbali, i giudizi sommari, i sarcasmi (il “dark sarcasm” della celeberrima canzone dei Pink Floyd), le invettive che prendono di mira senza distinzione i risultati delle “prove”, quanto gli atteggiamenti, i caratteri fisici, la voce, gli abiti, i gesti, le posture, o persino le qualità intime, il carattere, le potenzialità. Quanta umiliazione si patisce in una scuola, spesso ribadita incessantemente, come una sentenza irrevocabile, quante mortificazioni insostenibili, sulla sciatteria, sul disordine, sull’impreparazione, sul linguaggio, sulla “buona educazione”, perfino sul buon gusto! L’esercizio del potere, del potere brutale, del bullo-insegnante è spesso feroce, anche perché somministrato da chi padroneggia le parole, da chi sceglie termini spesso raffinati per marchiare adeguatamente chi non si adegua, chi non arriva, chi resta indietro. I deboli appunto, i più vulnerabili, talora i disabili. Certo oggi ci pensa la psicologia a marchiare in maniera scientifica i “ritardati” di un tempo. Oggi chi non sa leggere non è più un incapace, un fannullone, un idiota, oggi è un dislessico e come tale abbisogna di supporto, di assistenza. Ma in fondo il sostegno non è anch’esso una forma sottile e indelebile di marchiatura, di umiliazione, di degradazione? Essere destinati al sostegno, nel quadro della disciplina scolastica, e cioè in un luogo che è ancora e sempre un luogo di inculcamento, di conformizzazione e di selezione, non è pur sempre una sottile squalifica? Ma sia. Sia un male minore che la scienza prenda il posto dell’insulto e della punizione (benché alla sua ombra l’indolenza insegnante si rifugi troppo spesso per mascherare le sue incapacità). Non è sufficiente. L’edificio scolastico continua a risuonare di catilinarie, di orazioni violente contro i ribelli, contro i diversi, contro i renitenti. L’umiliazione, spesso integrale, addobbata con tutti i crismi e l’autorevolezza miserabile che un insegnante può avere, risuona ancora nelle aule scolastiche. E non meno in quelle universitarie. Quante volte ancora, agli esami, dovremo sentire la tragicommedia di professori tanto arroganti e inconsapevoli della propria personale e immorale meschinità, da apostrofare gli studenti non congruenti alle loro aspettative con i termini dell’umiliazione, dell’insulto, del sarcasmo, della violenza verbale inscusabile pura e semplice? E’ ora di finirla, di ripulire le aule, le scuole e le università da un genere di violenza che, come se non ci fosse già quella prescritta e manifestata dagli orari, dai banchi, dai corridoi, dalle aule, dai libri, dalle prove e così via, non fa che aumentare oltre ogni livello di sopportazione uno spazio già irrespirabile e che, infine, non può che incrementare a sua volta quel bullismo che forse è anche una forma, poco consapevole, degradata, insostenibile ma comprensibile, di ribellione.