la gaia educazione

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martedì 24 luglio 2012

Il piacere ignorato: le fasi della luna di Paul Delvaux

I due più vestiti ignorano. Il grado di vestizione determina il grado di distrazione. L’occhiale sollevato del miope, che, sistemato correttamente, potrebbe dargli la vista della profferta di tanta bellezza muliebre, lo induce invece a chinarsi su un oggetto piccolo e inerte, forse esso stesso un occhio, in un circuito di febbre ossessiva e autoriferita. Il secondo uomo, lo sguardo gigantesco e inebetito, che ne sottolinea l’impotenza visiva, sosta attonito, i piedi piatti e larghi a denotarne l’adesione rigida al suolo, alla staticità inamovibile. Sono le figure dell’astronomo e del geologo, polarità irriducibili dell’ attitudine maschile alla distrazione, alla fissità e all’incapacità di godere, già incontrati altrove nella pittura di Delvaux, (nelle Fasi della luna III, in particolare (1942) . Emblemi del rifiuto ostinato e incomprensibile del dono. Dono che si protende infiocchettato, silente e imperturbabile, con un’espressione un poco beffarda, conscio della sua procace seduzione, il piccolo piede malizioso che infrange il limite della balaustra. Dietro la donna un tavolo con il globo terrestre, illuminato da una lampada, effigie forse della vera conoscenza, conoscenza “globale”, che non ha segreti, su cui la luce è sempre accesa, sempre che si riesca a percepirla. Giorno che incede verso il suo crepuscolo, con la luna che si affaccia sopra la scena, custodendone la cifra simbolica, accogliendola nella sua capace arnia di corrispondenze. E’ sotto la luna che gli uomini vestiti ignorano la donna che si offre nuda e infiocchettata. Sul fondo della scena un giovane semivestito, figure di limine e di transito, come il pifferaio di Hamelin, conduce una brigata di donne ignude in una sorta di corteo bacchico. Il giovane appare figura del possibile mentre, a contrassegnare l’ignavia imperdonabile dei due uomini in primo piano, accanto a loro, su una cassa di legno rovesciata, giace un oggetto che evoca le fattezze di un teschio, sub specie anamorfica, come negli Ambasciatori di Holbein. Autentico monito, nel centro dell’immagine, sulla caratura letale determinata dall’ignoramento, dalla diserzione dal desiderio dei due uomini.
A questo quadro può essere associato un altro lavoro di Delvaux, il Congresso (1941, ma anche gli Astronomi, 1961), dove questa separazione, tra uomini anziani, dai grandi occhi attoniti, vestiti e paludati, intenti in presunte attività intellettuali e donne nude o incoronate di splendidi cappelli, è albergata in un padiglione che ne rimarca l’impossibile e paradossale convivenza. Qui, sullo sfondo, ci sono degli scheletri che campeggiano nel vano di una porta, non a caso sull’asse del settore maschile. Uno degli uomini, mentre si allontana, sul lato occupato dalle donne, lancia uno sguardo furtivo e ipocrita, verso quella bellezza ancora una volta ignorata e elusa.
E’ un tema ritornante questo, nella pittura dell’artista di Liegi, che incontriamo anche in Ingresso nella città (1940), dove un paesaggio di stile classico, il paesaggio senza tempo che insiste su questa condizione irriducibile, custodisce la parata di bellezze sontuose che incedono come ipnotizzate sulla via, incoronate dalla natura, mentre gli uomini, come al solito, appaiono più distanti e attardati, vestiti, affaccendati, inghiottiti nelle volute di un agire ignaro della seduzione, del desiderio, del possibile. Solo un giovane, ancora una volta, seminudo, sta seduto in primo piano, mentre si accanisce a esplorare una mappa, forse la sua Mappa del Tenero, come insinua Jean Clair, forse in cerca di un passaggio che gli consenta di entrare in contatto con l’alone di mistero che avverte, presentisce, il mistero erotico così esplicito che quei corpi femminili spandono intorno, di cui anch’egli pare però non avvedersi. E non è forse questa la cifra del nostra stare, ripetuta proprio a beneficio di tutti i ciechi e i sordi che noi stessi siamo, ignari di quel possibile di puro piacere da cui siamo circondati, che è immediatamente alla nostra portata e che pure, a causa dei lacci infiniti in cui ci siamo intrappolati, per la nostra idiozia, ben vestita e inesorabilmente affaccendata, ci resta preclusa?
L’unico ad accedere, nel suo candore disinibito, resta il bambino, letterale ma soprattutto simbolico.

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