la gaia educazione

la gaia educazione

domenica 14 ottobre 2012

(Ritorni): Ego add-io


Sappiamo ormai con discreta sicurezza che la storia non procede diritta e che comunque dovremo abituarci alla convivenza di tempi asincroni, di discrasie e di stratificazioni complesse nelle manifestazioni future dell’umano, il che peraltro ci consentirà di sperimentare forme di vita multiple e contaminate, sia per radicamento, sia per profilo. Sappiamo altresì che una reversione pura e semplice, come forse qualcuno auspica, non è davvero possibile . Non possiamo resuscitare il fantasma di un io dominatore e legislatore, eroico e progressivo, mosso dalle fantasie faustiane e prometeiche di una definitiva padronanza del mondo. E credo, in buona compagnia, che non valga la pena di dolersene. In compagnia di buoni profeti anche non più recenti, da Kafka a Benjamin, da Deleuze a Hillman, possiamo guardare al nuovo panorama contemporaneo, senza per questo dimenticare che ogni epoca è inevitabilmente segnata dalle sue devianze e dai suoi orrori, con maggiore benevolenza e più fiducioso ascolto immaginativo. Questa postmodernità, come è stata definita con buona approssimazione, è un tempo attraversato da fermenti molteplici e spesso in conflitto, da una pluralità di possibili. Ma è certo un tempo che si è lasciato alle spalle, in larga misura, i miti del passato, e anche le sue certezze. Un tempo dove è molto difficile credere in qualcosa di permanente e duraturo. La morte di Dio è oggi un fatto, non è più solo un’intuizione filosofica ma qualcosa che pervade la vita sociale, qualcosa che i giovani trovano come un dato certificato dal funzionamento sociale stesso, dal trionfo definitivo di un’esistenza appiattita sul pragma, dominata dal puro chronos, governata in profondità dal fattore economico ( che, va ricordato, è anche sempre un fattore sperequativo: al narcisismo dell’occidente risponde la lotta per la sopravvivenza di gran parte del mondo condannato ad una povertà non facilmente superabile), dall’astrazione amorale dello scambio e del profitto, ma anche radicata come mai forse lo è stata nella storia dell’occidente, nell’immanenza e nella terrestrità. Questa compresenza, certo drammatica, apre uno scenario che va interrogato con grande radicalità e anche con un certo disincanto, senza nostalgìe e senza ottimismi ingenui. E anche con l’attenzione fenomenologica che un orizzonte davvero inedito manifesta e su cui dunque invita a calibrare letture pronte a porre con forza in discussione categorie, concetti, modelli davvero ormai inservibili. La fine del padre e di Dio apre scenari forse disturbanti ma anche affascinanti. Oggi non è tempo per istituire nuove sorveglianze e punizioni, per una nuova morale sanzionatoria, per famiglie o scuole normative. Oggi occorre probabilmente un altro atteggiamento. Qualcosa che potrebbe provvisoriamente chiamarsi un “rigore della debolezza”, un’attenzione partecipativa alla fluidità delle forme di vita e alla loro proliferazione molteplice e reticolare, alla loro indole anche eccessiva e trasgressiva. Un’accoglienza, una ricettività, una conversione conoscitiva non giudicante, ricca di immaginazione, mobile, all’insegna di un approccio al reale che sappia avvertire l’avvento di una segnatura epistemologica aperta, contraddittoriale, tensionale. Al posto del vecchio io angosciato e paranoico, si fa strada forse un “io poetico”, minore, immaginale, che accetta di “divenire infante, animale, stella”, come voleva Deleuze. Non c’è più posto per il vecchio soggetto platonico che divide il giorno dalla notte e le idee eterne dalla materia corruttibile, e neanche per quello già più timidamente arroccato nel suo schematismo trascendentale dell’orologiaio di Konigsberg. Men che meno per lo spirito autocomprendente di Hegel, per il suo inveramento storico nella potenza di un Occidente arrogante e imperialista, per quanto consapevole del “negativo” che lo attanaglia. E neppure probabilmente per il ritorno della conversazione felice del giardino epicureo o del duro cammino di scoperta di sé socratico. Forse la nostra modernità ha sviluppato una bizzarra sopravvalutazione dell’individualità umana, un’inflazione, di cui i grandi romanzi di formazione tra la fine dell’800 e l’inizio del 900 hanno portato impressa l’indelebeile traccia. Un individuo ampio, esteso, profondo, allagato dalla molteplicità dei suoi interessi e della sua cultura, attorniato dalla montagna dei suoi ricordi e delle sue imprese, il tutto cumulantesi in profili inconfondibili, insostituibili, irripetibili. Il che ha reso all’individuo stesso tanto ingrato il cedere all’oblìo, alla dissoluzione, al tramontare. Individui talmente affamati di vita da rendere vertiginosa la piramide iridescente delle proprie vite. A quest’immaginario aristocratico e romantico, inevitabilmente sopraffatto da una sensibilità tragica e malinconica, la contemporaneità oppone la sciatteria apparente di una vita senza traccia, fungibile, affondata nella serialità e nella mescolanza. Una vita però forse meglio integrata nella totalità di un mondo più interconnesso, più integrato, per paradosso più simile a quell’universo premoderno in cui l’affermazione di sé non era una destinazione desiderabile, era peccato o manifestazione di colpevole arroganza. Oggi è il tempo del flusso e della rete, delle intensità e di una materia inafferrabile, come ci rivela giorno dopo giorno la ricerca microfisica. L’uomo contemporaneo, ciò che sta venendo alla luce, è non più il fulcro di un organismo ben regolato dalle leggi dell’identità, quel microcosmo capace di riassumere in sé l’intera costellazione deglle analogie cosmiche, né l’identità fondata sulla presenza e sul discorso che ha occupato la scena di tutta la metafisica occidentale. Non vi sono più Sfingi da sfidare all’orizzonte e forse neppure più uno specchio onnipotente cui attribuire tutta l’estraneità del proprio volto. Semmai campi d’insistenza, flussi di energia e di forze che si dissipano e che si attraversano. L’io di oggi è un io diffuso, un io “quantico”, ambiguo nella sua stessa struttura materiale, onda e particella, vivo e morto come il gatto di Schroedinger, partecipe delle molteplici influenze che lo disseminano e che lo trasformano, infinitamente sensibile, un io immaginale, come piace definirlo a James Hillman, notturno e infante, parente del sogno, corpo risonante di una magmatica armonia e disarmonia su cui prova continuamente e insensibilmente ad accordarsi. Più figlio di Proteo e della sua sovrana cangianza che di Apollo e di Teseo, più dionisiaco e orfico che marziale o saturnino, l’io di oggi oscilla tra materia e immateriale, al confine tra il virtuale e il reale, in una zona intermedia che ha i caratteri della flessibilità e dell’iridescenza e che, forse, sta sviluppando una nuova corporeità, più sottile, una carnalità ipersensibile capace , nel tempo, di soggiornare nel caos, nel divenire, nel mutamento certo molto meglio di quel vecchio personaggio donchisciottesco che ambiva a soggiogare la terra. Forse più cinico e strumentale, talvolta, ma anche politeista e non letterale, l’io di oggi e domani sembra bisognoso di sfuggire alle vecchie ipoteche totalizzanti e integratrici, a tutti i maiuscoli dettati dalle metafisiche che lo hanno preceduto. Non più l’io freudiano assediato dall’angoscia, non certo l’io inflazionato di D-io, ma nemmeno l’io dell’od-io e delle grandi passioni, neppure l’io di m-io, l’io del possesso e del domin-io. Un io senza metafisiche, io microfisico e pulviscolare, io desinenza, suffisso mobile e musicale, l’io di obl-io, di desider-io, di add-io.

martedì 2 ottobre 2012

Farsi una controeducazione (1)


L’evidenza è che il “bastardo educante” è ovunque. Così è sempre stato ma ora è peggio. Guardati in giro. Tu sei il frutto di tutto quello che si trova intorno a te, immobile o in divenire. Guarda i tuoi muri e i tuoi manifesti, guarda le tue scarpe abbandonate sul pavimento. Guarda il colore alle pareti, la stoffa sulle poltrone, la materia dei pavimenti, guarda la tua libreria ma non guardare quello che c’è nei libri, guarda i loro volti, le loro dimensioni, la loro materia. Tutto questo ti fa. Eccome. Per non parlare delle colonie di genitori che spuntano ovunque, mascherati da fratelli, gemelli, maestri, parenti, imbonitori. Poi c’è la pletora degli orifizi, degli occhi che si aprono sull’etere: pozzi da cui sbuca la vita diminuita. Ne sei circondato, li tieni in mano, ti si rovesciano addosso. Tu sei il loro bersaglio e, a volte, il loro monitore. Ma il circuito è stracarico. Ti sei affollato davanti alla tv, e sei stato colpito. Qualche volta hai goduto ma, perlopiù, sei caduto nel nulla. Così girano le cose: nelle strade, ad alta velocità, e non sono più innocue. La loro velocità ti modella, come può fare un grosso tornio su una pellicola di rame. Tu sei rame sottile, comunque con un certo potenziale. Potenza di superamento. Ma tutto congiura a immobilizzarti, a renderti un commestibile per mascelle sempre in moto. Lo vedi: le tue scelte. Anzitutto neppure le parole. Le hai già in bocca, scorrono fuori e tu non le sai. Ne avverti il sapore? Dubito: sono insapori, al tuo gusto. E invece hanno veleno da vendere. Parole che ti abusano impercepibilmente e con cui tu ammorbi un uditorio che non ti ascolta. Quando ti ascolta è per una parola nuova, che tu però non hai. Avverti i tuoi gesti? Sono preconfezionati. Non sai dire dove li hai comprati perché ti si sono attorcigliati addosso come serpenti, mentre come un sonnambulo percorrevi i corridoi bui della tua vita assediata. Non sei un nittalope, sei un cieco. In un vicolo cieco. Il viottolo dello stordimento. Non sai cosa maneggi, cosa mangi, cosa tocchi: tutto ti è estraneo e non ne conosci la sorgente. Sempre che una sorgente ci sia. Non c’è modo di sbarazzarsi della bava di questo mondo fittizio, mondo ortopedico che ti calza addosso come una cintura di castità e ti toglie l’aria. Il tuo deretano sa distinguere una poltrona o un coccio di vetro? C’è di che dubitarne. Sei un pezzo di anestesia allegramente in circolazione, beotamente ignaro. Come puoi fabbricarti anticorpi per non essere saccheggiato tutto il giorno dalla tua stessa inettitudine? Per non essere la vittima della tua sbadataggine mutuata nell’assenza? Compito duro che chiede duro tirocinio. Non si costruisce un’attenzione intorno a una distrazione radicale. Bisogna fare un buco nella muraglia che ti circonda, quella che non vedi. E poi annusare. L’olfatto è sempre un buon indicatore, ad averlo ancora vivo. Una regola dell’autocontroeducazione è: cura l’olfatto. Allenati, con quello che hai intorno. All’inizio non sentirai nulla, solo fantasmi di giudizi troppo banali per essere attendibili: sento odore di polvere, sento odore di cibo, sento odore di cesso. Tutto sbagliato, tutto da rifare. E tu lo sai bene. Ognuno di questi coaguli di segni è un cosmo di fili incandescenti pronti a colpire le tue vibrisse ma il tuo naso è davvero troppo piccolo per albergarli anche solo in parte. Allora: matura il naso. Crescilo, non lasciarlo vagabondare come un pinguino cieco in mezzo alla brughiera di notte. Installalo al centro delle tue cure. Fanne un’antenna ad alta portata. Costringilo a frugare la foresta corallina di spruzzi odorosi che si avviluppa a tutta intera la materia che ti circonda. Per ottenere ciò, però, piano piano, dovrai dissolverti. Non esserci con i brontolii sordi di quella crisalide unta che chiami io. Fai esercizio di non-io. E il primo esercizio è: annusa.
Come proteggersi dall’assalto a fauci spalancate della polluzione di orifizi inutili, quella infausta pletora di schermi dalla quale siamo assediati? Ritrovando la gravitazione. Sii un corpo diffuso ma prima: sii corpo. Come puoi distinguere dentro un buco di vetro di pochi millimetri senza prima aver allenato il corpo all’autoascultazione profonda? Cosa fai quando la nube dell’insoddisfazione ti avvelena come il gas nervino delle tue stesse bugie? Come fai ad accorgerti se sei in piena centrifuga di panico o se il petto ti insuffla miele rovente fino all’inguine? Non è facile. Spesso patisci fingendoti goduto. Lo dice la tua pancia, in contrazione acefala. Lo dice il disegno che compili con l’alluce sulla superficie dell’aria come il miglior pittore senza braccia. Lo dicono i tuoi denti in stridore permanente mentre nella mente ospiti il condominio di scene incorporate in apnea dal tuo ultimo dispositivo di iperconnessione. Candido subzoico che procedi ignaro verso l’autodistruzione, credimi, devi allenare il corpo. Fargli l’addestramento a reclamare il giusto spazio nell’economia della tua saturazione inesausta. Allenare il corpo significa accartocciarsi come un grande organo senziente su di lui, e poi sopra quello di tutto il resto. Impara a sentire come sta il tuo radio, cosa dice la tua ipofisi, come vibra quella maledetta staffa quando le propini le frustate delle tue manie metalliche. E poi impara a indagare l’opinione del tuo esofago quando inghiotti le consuete chimere di proteine senza averle tradotte in stupore e sapore. Poi dilata quelle pupille intasate: indaga la fioritura di fuliggine delle tue pareti, sorvegliane l’odore. Resta a lungo sulla vagina dei tuoi fiori, finchè non rivela la chiave esatta della sua combinazione cromatica. Come potrai decifrare l’occhio interminabile della tua beneamata senza un tale addestramento, o il sapore dei suoi ginocchi, se non l’avrai sperimentato in proprio, a lungo leccando e tastando con le papille il dorso fragile di una prugna, senza aver intinto la lingua nel mosto d’uva cotto? Hai perduto la temeraria confidenza di bambino con l’immersiva bellezza del gusto sabbioso e acuto della ghiaia, con le poltiglie odorose di bava, con i rossetti e lo sterco che ancora non istigava il tuo grillo parlante a rimuovere tutto ciò che sa di sudicio, per indirizzarlo al limbo dei diseredati? Sii più sapiente, altrimenti non saprai manovrare il piacere dei cibi e dei corpi, delle carezze di sole e delle piogge abbondanti. Non saprai distinguere la storia di maneggi impressa sopra il libro che stai leggendo e nemmeno la nebbia sapida delle serate in fondo a un’osteria ancora impregnata di cotture, di fritture, di effluvi speziati. E dunque, allargando, è questa la seconda prescrizione: amplifica il tuo corpo, per l’ampio e per lo spesso, addensane la trama e stendilo come una pellicola sensibile sopra il corpo del mondo, fino a che non faccia gloriosamente tutt’uno con esso. Poi, quasi infine, ma non c’è infine all’apprendimento delle cosce calde del mondo, del suo seno giovanile e immensamente morbido. Ad apprenderne i linguaggi, le forme, la materia mobile e incatturabile. Eppure infinitamente godibile.
Impara l’immaginazione. A immaginare ci vuole orecchio, e tatto, e gusto, e olfatto, prima ancora che gli occhi. L’immaginazione non è una faccenda di immagini visive: dietro l’immaginazione c’è la fisiologia delle cose, l’avvertimento delle risonanze, un udito così sottile che percepisce il brontolio sordo degli stomi sulle foglie, quando l’albero dorme. Immaginare è perforare ancora una volta il busto di piombo che l’anestesia diffusa ha piantato sopra la pelle della vita. Immaginare come diviene, quella vita, dove attinge i suoi spasmi, come pulsa, come si irradia. Non c’è immaginazione che cavalchi nel vuoto. L’immaginazione non è saturazione di un buco. L’immaginazione è trapianto del fiore della tua sensibilità proprio in mezzo alle correnti profumate che trattengono la terra nella sua rotta, perché non ceda. Immaginazione è cogliere la pelle del tuo amore come l’alfabeto stellare e, al tempo stesso, come la propagazione di luce che corre nelle fibre di un prato. Immaginazione non è sturare il lavandino delle tue inestinguibili manie di dominio, piuttosto è abbandono, dissolvimento, cedimento all’assalto innumerabile di quel pulviscolo che prima incatenavi alla macina di mulino di un’unica parola. Immaginazione è ancoraggio e poi flusso, perdita e improvviso ritrovamento, pulsazione di istanti in una scia instabile ma persistente. Non c’è immaginazione senza sensibilità, senza quel lungo e paziente ascolto degli alfabeti sommersi dei corpi, corpi viventi minerali e stellari, semoventi e immobili, sonori e danzanti, gonfi di umori, rivestiti di tegumenti, palpabili, inalabili, copulabili. Immaginati in piena ardente fornicazione con la grande mammella terrestre, la tua pelle ipersensibile esposta alle mille vellicazioni della piovra vegetale, allo scorrimento penetrante del vento, al fragore del respiro del tuo amore, quando gode, quando sorride. Immaginare fino in fondo, lungo le superfici, minuziosamente, pienamente, intensamente. Per fare sapore, per far denso il silenzio, per annegare il mare. Esausti, avremo acceso le prime aperture nella barriera che ci ottunde e ci depriva. Organizza i gesti della tua personale, ormonale, aromale controeducazione!

lunedì 24 settembre 2012

Enjoy your lesson (2)


Caro studente che vai a lezione carco di libri e parco di speranze, che cosa puoi fare tu perché quel teatro dove si consuma il tuo “sequestro educativo” diventi una possibile fonte di godimento? E non di polverizzazione della tua pazienza e di triturazione delle tue fantasie? Anzitutto puoi mettere in scena il tuo desiderio, postularlo, manifestarlo. Non andare lì come si va dal dentista o a cena dai parenti, annoiato e con quel senso di minaccia che effettivamente la scuola trasmette (già a partire dai suoi muri gaiamente addobbati, dalle sedie lussuriose e dagli arredi pieni di buon gusto, si fa per dire). Vacci con l’eccitazione e il pungiculo di un appuntamento. Certo, so che ti vai a infilare dentro un’aula grigia con compagni dai calzini marroni che tu non hai scelto. Questo è vero ma prova a ribaltarlo. Fai una simulazione, credici. Fatti bello/a, datti una profumata, infilati una sciarpa sgargiante che calamiti l’attenzione. Porta la tua faccia più entusiasta e con essa introduciti nell’aula che sa di candeggina con l’aria di chi chiede: è qui la festa? Porta il tuo corpo dentro l’aula, con il suo flessuoso andamento animale, porta la tua giovinezza, non lasciarla fuori dalla porta, non esibire solo la tua depressione e la tua noia. Di tanto in tanto sorridi alla professoressa di matematica, portale dei fiori. Porta dei fiori anche alle tue compagne o ai tuoi compagni. Arriva con la ferocia del desiderio di far saltare le righe. Proponi sempre qualcosa, bacia tutti. Abbraccia il professore, ne sarà elettrizzato, resterà senza fiato. Vigila soprattutto. Non permettere che stritolino il sapere dentro la morsa dei loro sussidiari. Porta libricini odorosi, gonfi di foglie e di vecchie cartoline. Falli girare. Porta del cibo succulento, non solo per te ma per fare festa. Chiama gli altri ad esigere il proprio tempo, a stanare la cultura fino a che non inizia a perforare i muri. Reclama di uscire, di vedere i luoghi, esplorare i cantieri, entrare nelle botteghe, decifrare i misteri delle pasticcerie, fotografare e filmare il mondo e ritrovarlo solo dopo dentro quell’aula che si sarà trasformata in un laboratorio alchemico prufumato di ambra e di bergamotto. Chiedi che ci siano sensi e colore dappertutto. Quando vuoi azzittire il professore, fai partire una musica dolcissima dal tuo amplificatore personale. E danza. Avvicinati ai compagni, alle compagne, con fare seducente, e accendi i loro ormoni. Perché no? Se poi otterrai una sanzione, sarà stato per amore. Una nota disciplinare sarà una lieta pena per questo atto bellissimo di “terrorismo poetico”. Sei tu che puoi impedire lo scempio del sapere, la sua mortificazione e, con essa, la mortificazione del tuo corpo e del corpo senziente che formi con i tuoi compagni. Riscattali con la rivendicazione dell’appropriazione profonda delle materie, incarnata in azioni sceniche, in recitazione, in corpo a corpo con gli oggetti ancora vivi e vivibili. Sii manifestazione vivente a partire da te stesso/a, nei tuoi vestiti, nella tua voce, nei tuoi gesti, sii desiderio e poesia in azione. Non permettere a nessuno di abbrutirti con la mediocrità di una lezione malpreparata, con testi scolastici pachidermici e inutilizzabili, con lo stridore dei gessi sulle lavagne o con i rituali irricevibili dell’interrogazione e del compito in classe. Chiedi che non si valuti, ma che si restituisca, si baratti il sapere con un ringraziamento, quando lo merita. Chiedi semmai che si valutino solo i comportamenti che scaturiscono da un coinvolgimento profondo, che si valuti solo su richiesta, di chi impara, non del sistema paranoide che soffoca e inchioda ogni cosa ancora in vita. Imponi l’esperienza, le storie, la foresta dei simboli e le stratificazioni dell’immaginario, chiedi materia palpitante, odorifera, palpabile, gustabile, amabile. Installa la tua inequivocabile presenza fragrante e immensa, irriducibile, al centro di uno spazio che può diventare scrigno di incandescenze, firmamento scintillante, oltrenero sottomarino, folto boschivo, pioggia fitta e inebriante, labirinto sotterraneo, bagno di fango tiepido, fonte di acqua luminosa e carezzevole. Sii l’attore principale, rifiutati, ostacola l’idiotizzazione perseguita da chi entra in aula solo per timbrare il suo destino di cùlculo del sistema. Lo puoi fare con la tua energia ancora intatta. Ribalta i ruoli, spruzza il tuo desiderio come un gatto nero e affamato sulle pareti e sui banchi, esigi l’intensità, la densità, gli orizzonti infiniti!

lunedì 17 settembre 2012

Enjoy your lesson! (1)


L’unico comandamento è: goditela! Goditela la tua lezione, goditela insieme a loro, naturalmente. La lezione, che non è certo il massimo, in termini di apprendimento, ben inteso, è però un potenziale di febbre feconda, se la lavori bene, come una pasta in rigogliosa lievitazione. Allora, anzitutto tu devi godere. Simultaneamente, devi far godere loro. Il che poi significa, fatti due più due, che, se va bene, ve la siete goduta tutti sebbene non necessariamente allo stesso modo. E’ vero, fare una buona lezione ha qualcosa a che fare con il fare l’amore, però non è esattamente il trionfo della reciprocità. Diciamo che è un massaggio erotico che tu pratichi a loro e che, se va a buon fine, ti ritorna in forma di piacere diffuso… Veniamo ai fatti: intanto tu ti sei preparato. O meglio, hai preparato ogni cosa. L’errore più grossolano e fatale in cui puoi incappare (e troppo spesso ci incappi) è fare quello che loro si aspettano che tu faccia. Ogni tuo gesto prevedibile sarà un declino, più o meno abissale, della loro attenzione (loro, i tuoi pupilli, la carne umana che respira e trasuda nella sala dei desideri). Non tradirli. In qualche modo puoi, ogni volta, spiazzarli un poco, persino con la ripetizione (di un piccolo rituale per esempio). Ricordati che insegnare è una pratica festiva, non feriale. Ogni giorno è un appuntamento, una possibilità di vita, di piacere, non una condanna, una crocifissione sull’altare delle regole, della noia e della disciplina. Tu sei il sacerdote, il gran mogol, approfittane. Quindi, innanzitutto, tu hai apparecchiato ogni cosa, hai pensato, ricercato, studiato, organizzato, sistemato ogni cosa, prima. Cosa si aspettano loro? Che tu entri e con fare svogliato inizi a parlare di mestizie sarcofagiche e che gli propini il solito polpo morto da troppe ore. Evitalo. Invece entra e sviali (detournement, s’il vous plait), vai fuori binario. Sono cose che vanno curate bene fin dalla prima volta. Anzi, la prima volta è essenziale, fatidica direi. La prima volta è davvero “la prima volta”, uno sverginamento, per essere più espliciti. Pensa al corpo giovane e intatto dei tuoi allievi, un corpo intero, la prima volta, ancora intatto, intatto per te, naturalmente, che altri ci hanno già messo le loro mani addosso, purtroppo, lasciandolo piagato e svuotato (e allora a te toccherà la respirazione bocca a bocca). Un corpo che può respirare, mugolare, squittire, brontolare come un grande mammifero, morbido e odoroso (anche di odori forti e piccanti, si sa, sono giovani). Occorre lavorarlo con cura. Entra e non andare subito a sederti alla cattedra, se c’è qualcosa di simile ( e c’è, e c’è …). Fai gesti precisi, riconoscibili. Per esempio puoi modificare la luce, abbassala, cerca di creare dell’ombra, per avere più intimità, induci la “tua” atmosfera, in sintonìa con quello che stai per proporre. Oppure fai partire una musica, o anche le due cose in successione. O anche inizia a leggere un brano suggestivo, che sappia attrarre l’attenzione, senza preamboli, vai subito a toccare il nervo sensibile. Mostra delle immagini, un filmato, senza introduzione, senza attutire il colpo, quale che sia: una piccola recitazione, se lo sai fare, o uno spostamento del tuo posto, trascinando la tua sedia altrove, o un tappeto, perché no? Crea una se-duzione, chiamali a te, con un gesto che li spiazzi. Ci sono migliaia di possibili invenzioni, occorre solo che ti sforzi di immaginare un ingresso, un accesso allo spazio specifico su cui poi innesterai la tua lezione, la tua lezione “speciale”. Naturalmente ogni cosa che fai deve essere calibrata sulla “loro” sensibilità, la devi immaginare, devi spostarti dentro le loro crisalidi, dentro le loro anime. Non puoi leggergli una poesia “impegnata” di Giancarlo Majorino solo perché a te piace tanto, non puoi fargli ascoltare i campanelli dei monaci tibetani perché a te danno i brividi. Puoi arrivarci, ma sempre per gradi. Se poi va bene, otterrai un momento di altissima intensità. Avrai tutta la loro attenzione. Un’attenzione dalle molteplici sfumature, curiosità, diffidenza, speranza, resistenza ma comunque attenzione. Attenzione allo stato purissimo. E questo è incomparabile. E ti fa sentire come un dio. Un dio minore ma prossimo a prendere il volo.
La tua benzina è l’attenzione. Non farti scrupoli, lasciati blandire dalle malìe della seduzione. Lungi dal farti condizionare dall’ascetismo predicato dai barbogi pedagogici, punta sulla seduzione, rendi affascinanti i tuoi argomenti, i tuoi documenti, te stesso. Vai all’appuntamento con l’attenzione profumata dei tuoi allievi agghindato come una baiadera, non perdere l’unico motivo davvero vitale di una “lezione”. Salvala prima che si tramuti in irrimediabile petofanìa, in sodomia pneumatica. Devi inventare percorsi inediti, arrivare alle scienze passando per la letteratura, che so una lezione di botanica attraverso le poesie sui fiori di Rilke o certi quadri della O’Keeffe. Arrivare alla matematica attraverso la musica, indovinando le formule di certi passaggi sonori di Bach o di Frank Zappa ma insistendo sull’ascolto perché i numeri diventino materia godibile, oppure esordendo dal film della biografia di un celebre matematico (come in A beautiful mind di Howard o quello su Galois) o da uno che ponga problemi matematici (perché non Il cubo di Sekula?), o anche leggendo brani tratti dai diari di un impervio ricercatore, fiammeggianti, quelli fiammeggianti, non quelli sideranti. Osa i passaggi bizzarri e imprevedibili: fai preparare e recitare, attraverso ricerche e testi minori, il Risorgimento italiano, la Comune di Parigi, l’assassinio di Marat nella versione di Peter Weiss. Coltiva testi stuzzicanti per sporcare i fasti di un’epica consunta, accecali con immagini dell’arte contemporanea carica di materia e di umori o con la violenza carnale di Rubens, trapunta le tue lezioni con la musica e le registrazioni di celebri momenti scenici. Interrompi i passaggi barbosi delle tue spiegazioni (quelle esclusivamente necessarie) con un’improvvisa sequenza, appropriata, tratta da una commedia televisiva ironica e iconoclasta, da un varietà, da un film comico. Non temere di usare le immagini, i video, le clip. Oggi c’è a tua disposizione non certo l’archivio dei documentari pensati per la scuola, non certo il tremendo didattismo suicida dell’ “educational” ma l’intero giacimento ricco di pepite dell’immaginario accumulato nei secoli (specie negli ultimi decenni, nei quali è esploso). E’ con esso che puoi, seguendo un percorso non mortificato dalle introduzioni storico-critiche, dai tuoi balbettamenti prolegomenici, irrompere con la polpa vitale della cultura persino dentro l’oscena cupezza di un’aula scolastica! Ricorda: a scuola non si studia e si insegna per un dopo di cui ancora nessuno può misurare la benché minima consistenza. A scuola si vive ora e qui un’esperienza indimenticabile, le cui trame sono fondamentalmente nelle tua mani. Ogni tua lezione è un’occasione strepitosa per vivere subito nell’immenso teatro del sapere, tuffandotici anima e corpo insieme ai tuoi allievi, partner di un esercizio erotico incomparabile, quello di scoprire, esplorare, penetrare e farsi penetrare dalla cultura.

domenica 9 settembre 2012

Contro il feticismo del lavoro


Il lavoro è il grande imperativo. Esaurita e vituperata oltre ogni limite (anche da molti dei suoi protagonisti ahimè) la controcultura degli anni ’60 e ’70, nessuno osa più criticare quello che a buon diritto si può considerare il ritrovato e unanimemente plaudito mito del lavoro, anzi il feticismo del lavoro. Tutti vogliono lavorare (anche nelle condizioni di sfruttamento più spaventose), la mancanza di lavoro precipita in uno stato di prostrazione con aggiunta di senso di colpa e frustrazione che ha pochi rivali. Non solo: quando lo si ha, se ne vuole di più, la gara a riempire la propria agenda di impegni è, senza ombra di dubbio, una delle gare più spietate e brutali. La sbirciatina che il collega getta sulla tua agenda, sperando che si riveli semivuota, è inevitabile. Per quanto mi riguarda, concedo molte soddisfazioni ai colleghi. E temo di non riuscire a far loro capire che, per me, si tratta di un motivo di vanto. Questa è la situazione, su cui bivaccano i manipoli del fascismo culturale che promuovono la nostra vita all’incontrario, nella quale le esigenze dell’economia e la gogna del lavoro sono considerati gli unici parametri in base ai quali regolarsi. Chi non ha lavoro non è solo un disoccupato o inoccupato ma anche un reietto. Lavorare non “stanca” più, lavorare è un imperativo etico, sociale e persino estetico. Il lavoro rende liberi e belli. Evviva. Il lavoro è una religione, come dice bene Antonio Saccoccio in un suo recente libro. Certo, qualcuno arcignamente mi obietterà che criticare il lavoro, in modo poi così generico, è non solo stantìo, ma anche ingiusto, considerato che senza lavoro non si campa. Considerato che il lavoro fornisce l’autonomia, è il fondamento della “cittadinanza”. Vero. Ma senza critica, una critica serrata, spietata, anche solo la remota possibilità che si possa intravedere all’orizzonte una società dove il lavoro, quello “alienato”, si intende, possa ridursi, sarà sempre più inverosimile. Certo, una quota di lavoro alienato dovrà, e a giusto titolo, essere distribuita come impegno sociale, a carico di tutti (pena l’essere non socialmente legittimati, come spiegava bene André Gorz), ma è del tutto chiaro che il lavoro umano è sempre meno necessario e che per renderlo tale occorre continuamente inventarlo o inventare crisi che simulino la sua mancanza: il lavoro, sembra incredibile doverlo dire ancora, lo fanno ormai in larga misura le macchine. Ed è del tutto necessario arginare quel mostro divoratore che è l’imperativo della “crescita”, su cui è fondata in larga misura la produzione di merci e lavoro del tutto superflui. Se le cose si allineassero con la costellazione dei nostri bisogni più autentici, al centro delle nostre preoccupazioni dovrebbe esserci un ben altro tipo di lavoro, lavoro creativo, autodeterminato. Di quello, un lavoro non retribuito, gratuito, frutto della pura volontà di creare, di agire -stante la congiuntura sulle cui logiche fittizie agisce l’ideologia di questo decrepito capitalismo-, si parla invece sempre pochissimo. Il lavoro lavoro, quello che garantisce ricavi ai “padroni”, quello invece continua a ricattarci, sottomettendoci alle sue sempre più raffinate tecniche di sfruttamento, di soggiogamento, di condizionamento profondo. Ma soprattutto al furto sistematico delle nostre vite e del nostro tempo che, come noto (ai più lucidi), è l’unica autentica ricchezza cui si possa seriamente aspirare. Tempo da scegliere e da dedicare a ciò che si ama, che ci appassiona, che ci soddisfa. Solo pochissimi privilegiati (a spese degli altri), o vagabondi e obiettori consapevoli spesso emarginati (sotto osservazione e pronti ad essere “recuperati” dai servizi sociali), oggi hanno la possibilità di esercitare la libertà di disporre di gran parte del proprio tempo. Tutti gli altri sono schiavi, schiavi anzitutto dell’ideologia dominante ma poi però drammaticamente di sé stessi, dei propri complessi, della propria avidità e della terribile congiuntura che li vede incapaci di reggere un pensiero che non sia già in partenza castrato dalle ovvietà del conformismo globale. Lavorare meno, lavorare tutti, lavorare meglio. E poi: non lavorare. Occorre ancora una volta rivolgersi a chi, da secoli, e specie da quando il lavoro, con l’avvento della civiltà industriale, è diventato quello che è oggi, cioè, paradossalmente, un valore (mentre non lo è stato pressocchè mai in alcuna altra civiltà compresa la nostra, almeno fino a che il fare non è stato sottoposto alla legge infernale del profitto), lotta contro il lavoro, per spezzare il suo rinato feticismo e per esigere ciò che ci è dovuto: il nostro tempo, la nostra libertà, il nostro desiderio. Da Gorz a Vaneigem, da Hakim Bey a Marcuse a Russell a Illich, da Kropotkin al “Gruppo Krisis”, da Nietzsche a Lafargue al recente Philippe Godard, occorre dire basta al culto del lavoro e rivendicare ancora una volta e poi ancora il “tempo liberato”, una (anti)pedagogia del “tempo liberato” che si muova violentemente in antitesi con l’ideologia massiccia che, dalle organizzazioni sociali alle imprese, alle istituzioni, ai ministeri, ci vuole inchiodare alla ruota del supplizio che da sempre, e non a caso, si chiama lavoro. Un tempo liberato che non emargini, tempo di tutti, tempo di vita, tempo di integrazione, tempo festivo, tempo di intense passioni. Occorre rovesciare un mondo fondato sulle esigenze dell’economia e sostituirlo, al più presto, con un mondo fondato sul desiderio, il desiderio irrinunciabile di riappropriazione, di godimento del proprio tempo. “si sente oggi che il lavoro come tale costituisce la migliore polizia e tiene ciascuno a freno e riesce a impedire validamente il potenziarsi della ragione, della cupidità, del desiderio d’indipendenza. Esso logora straordinariamente una gran quantità d’energia nervosa, e la sottrae al riflettere, allo scervellarsi, al sognare, al preoccuparsi, all’ amare, all’odiare” (F.Nietzsche)

venerdì 3 agosto 2012

La scure sui fuori corso (dal Sinistro Profumo)

Il nostro ministro dal nome tanto aggraziato agita di codesti sinistri tempi la scure sopra la stirpe della quale mi sento un orgoglioso rappresentante, color che vanno “fuori corso”. Intendendo per costoro quegli studenti negligenti e sciatti, tardivi ed erranti che arrivano a laurearsi non per tempo ma “nel” tempo. Al di là del fin troppo ovvio paradosso di una società, di cui il profumante ministro è caricaturale portabandiera, che sottrae posti di lavoro e vuole però buttare nel vuoto sempre più giovani revocandone il lussuoso diritto a impigrirsi all’università (una volta considerata, e non a torto, per ragioni similari, un’ “area di parcheggio”), la faccenda appare fetida e sulfurea. Con malizia marxiana se ne potrebbe dedurre ma è fin troppo ovvio, che si voglia più disperati in circolazione, da cui trarre il duplice profitto di far pressione sugli occupati affinché si concedano ai peggiori ricatti e ai non occupati perché siano disposti a vendersi anche alle condizioni più offensive e mortificanti. Ma questo è fin troppo palese. Vorrei però concentrarmi sull’odiosità speciale di un tal gesto, di cui, tolta la suddetta, non si vede altra motivazione sensata. Perché infierire sull’eterno studente di cechoviana memoria? Forse per invidia, l’invidia di chi giustamente vi percepisce il sottile gusto del rinvio, del rallentamento, del persistere in posizione di godimento (diciamo in termini psicoanalitici) mentre tutto congiurerebbe a volerlo al più presto prono e sottomesso allo sfruttamento di qualche invertebrato in zona di potere? Oppure vi è una preoccupazione più “morale”, quella di chi vede nel “fuori corso” l’indolenza del privilegiato, mantenuto dalla famiglia mentre diserta il compito sovrano del contributo al reddito sociale, e dunque esige che anch’egli sia rimesso al giusto cilicio degli altri, i meno provvisti dal destino che, volenti o nolenti, debbono sbrigarsi per trarre d’impiccio sé medesimi e i loro famigliari che sudano sangue per mantenerli colà? Dubito che vi sia tanta caritatevole propensione nei nostri conducatori espertissimi. (E poi, non si dimentichi che molti dei ritardanti, per esser davvero morali, vanno ascritti alla specie infelicissima del lavorator-studente e dunque, a voler essere pietosi, li si dovrebbe semmai incoraggiare e sostenere…) Dolce fuori corso , svagato e vagabondo, specie di giovine selvatico e ascensionale, preso in derive e in tragitti obliqui, quanto ti amo! Per te voglio spezzare una lancia, memore di esserlo stato e ancora avvertendo in me lo spirito di quella vocazione d’ enfant gâté che tuttavia ospita il dubbio, l’esitazione, lo stile ellittico verso la decisione. Alla perfida omelia che prescrive d’esser ratti, lineari e percussivi acciocchè si addivenisca presto all’inculcamento sovrano e ci si arruoli nei destini progressivi della gran macchina di produzione, oppongo, e per motivi diversi, il cammino vago e interrogante del “fuori corso”, puer aeternus dall’indolenza meditativa e sorniona, dall’intelligenza quieta e ricca d’umore.

Allo studente pennellato sulle esigenze dell’istituzione e dei suoi stakeholder interessati, a quello studento diritto, puntuale, insopportabilmente diligente, preferisco di gran lunga l’inoperoso ma pensante, colui che esercita il diritto a fermarsi, financo a provare altre strade, a perdersi in rivoli d’esperienza. Ritardare l’esito significa sondare campi, interporre sentieri inusitati, provare molto e molto abbandonare. Ricordo che nei lunghi anni del mio perdurare in età universitaria ebbi diverse vite, saggiai il teatro, misurai lo sforzo dell’impegno politico, mi ci inabissai ed entusiasmai, fui educatore in luoghi di pura utopia e di rancide periferie, dormii, lessi, pensai, amoreggiai. Età magnifica, dalle mille porte, benché già allora, seppur in tempi men vieti e men cinici, bussava l’orrenda parenesi a farsi repentinamente prodighi del proprio sudore per meglio far girare il grande ingranaggio dell’addomesticazione. Improdussi invece, ma con quanto personale senso di dolce nutrizione, di denso appagamento e financo di un certo vanaglorioso gusto di renitenza! Occorrerebbe poi sceverare meglio la questione anche sotto un profilo di efficacia. Cioè a dire se uno studente silurato in fretta dal gangro universitario, che si sia affrettato a ingurgitare sapere e a macinarlo a ranghi serrati, non finisca per sedimentare una conoscenza meccanica e povera, scarsamente ruminata, per dirla alla Nietzsche, se in lui il cammello mai si possa trasmutarsi in leone, o ancora, ma non è possibile neanche il pensarlo, in saggio bambino… Mi sembra, suffragato in ciò anche da qualche lettura a lungo masticata, che la conoscenza chieda tempo, meditazione, chieda di passare di tanto in tanto a maggese il campo troppo torturato, per metabolizzare meglio, per trasfondersi in sapere tondo, riflettuto, compreso. Ma è fin troppo chiaro che l’olezzante ministro per nulla è sollecitato da cure di cotal tipo. Per lui, che misura calcolando ogni passo del suo andare ottuso, l’unica ragione è quella dell’efficienza e della rendita algebrica di teste e finanze. Ahimè quanta sorda insipienza in tale logica di gretto ragioniere! E allora, addivenendo a un primo provvisorio sunto del mio proposito voglio dir ciò: come studente m’onoro d’esser stato un tempo tardo e indeciso, come professore aspiro a veder rinviare la fine degli studi al maggior numero dei miei allievi, anco nel timor, sia detto per inciso, che voglian troppo presto iscriversi alla trista anagrafe dei giovin sposati (spavento!) o, peggio, dei giovani dirigenti! Post Scriptum per i giovani scrupolosi: non esitate a far saldare ad libitum il conto ai vostri genitori per la responsabilità immane che si son presi di chiamarvi al mondo…