la gaia educazione

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domenica 18 febbraio 2018

Spari, botte e la scuola dell'ignoranza




Negli ultimi tempi sembra che i ragazzi e le ragazze abbiano cominciato a menare le mani non solo verso i coetanei ma anche verso gli insegnanti. Una cosa deplorevole, un indice di barbarie, un sintomo della condizione sempre più degradata della nostra gioventù. Colpa delle famiglie protettive! Colpa della tecnologia! Colpa del consumismo che rende questi ragazzi amorfi e tristi!

E compagnia cantando.

Poi ci sono quelli che rivogliono una bella scuola della cultura (contro quella dell’ignoranza) (tipo Saudino). Non so dove la vedano, suppongo nel passato anche se, riandando al passato, io non la ricordo. E dubito che fosse grazie al maggior tempo a scuola che essa sarebbe esistita.
E’ davvero difficile riuscire a pensare oltre la scuola, vederla per quella che è ed è sempre stata e sempre sarà, se si continua a ritenere che essa nei suoi fondamenti debba essere solo restaurata.

Io lo ripeterò fino alla nausea. E’ la scuola che non funziona, per quanto belle materie, bravi insegnanti e orari più lunghi possano fare. E’ la scuola che è violenta, sbagliata, incapace di realizzare apprendimento autentico. Forse che la scuola di trent’anni fa (non so a quale pensi Saudino), facciamo anche cinquanta, realizzava più cultura di questa? Ne ha realizzata talmente tanta che per vent’anni ci siamo beccati il governo più ignorante che forse abbiamo mai avuto. Eppure quel governo l’ha votato gente che usciva da quella scuola! Cosa non ha funzionato? Non è stato fatto abbastanza greco, abbastanza storia, abbastanza arte?

Ma di che stiamo parlando? Crediamo che aumentando il carico di ore scolastiche e riconvertendo le materie su quelle autenticamente culturali, otterremo un paese colto ed emancipato?

Crediamo che la cultura a scuola non abbia sempre fatto la fine che continua a fare, cioè trasformarsi da oro in piombo? Il piombo dell’obbligo, del ricatto e della paura? Certo una sparuta minoranza di privilegiati possono anche ricordarla con il giusto fervore di chi era già stato predisposto alla posa obbediente e disciplinata che lo studio in un tale contesto presuppone. Ma tutti gli altri?

Ma veniamo alla violenza, l’orrore delle cronache di questi giorni. In nome di Dio, come si permettono di alzare le mani sui loro insegnanti?
Mi spiace, non mi intonerò alla nenia di chi difende la scuola ad ogni costo e getta sugli studenti tutte le colpe, o sui loro genitori. Al contrario, mi stupisco che non sia accaduto prima, vista la quota di violenza, fisica un tempo ma anche ora talvolta, e soprattutto psicologica, che studenti e studentesse da sempre sopportano non certo solo dai loro insegnanti (benché anche da loro) ma da tutto il terribile dispositivo normativo da cui sono soffocati e stritolati.

Crediamo forse che la scuola sia un luogo dove esiste comprensione, collaborazione, tutela delle libertà personali, riconoscimento delle differenze, assistenza autentica in funzione dell’apprendimento, cultura e soprattutto cultura dell’insegnamento? Siamo così folli da credere questo? Crediamo che il modo di costruire le classi, di ordinare gli orari, di imporre la disciplina, di imporre tutto dal momento che nulla è scelto, sia il modo giusto per impostare un percorso di apprendimento? Crediamo che un luogo concentrazionario e repressivo come questo sia il giardino di Epicuro o il Peripato di Aristotele?

Crediamo che tenere alla larga i nostri ragazzi e le nostre ragazze dal mondo reale e dai suoi conflitti, dalle sue opportunità come dalle sue contraddizioni, sia un buon modo perché imparino e imparino a conoscerlo, sub forma di magnifici manuali di inamidamento e ibernazione del sapere come le nostre indimenticabili storie della filosofia, dell’arte o gli eserciziari di matematica?

Naturalmente ce ne possiamo raccontare tante e tenerci stretta la nostra bella esperienza con l’insegnante x o y, che non a caso avevano scelto noi, proprio noi, come ci racconta il buon Psicanalista, come discepolo o discepola preferito, per ritenere la scuola un’oasi di bellezza, di studio e di convivenza pacifica e amicale.

Peccato che essa invece sia un luogo di pena per la grandissima parte, che alcuni oggi siano così esasperati da essa ma anche dal nulla che trovano fuori (dove nessuno si pone il problema di rendere ospitale per loro (i nostri piccoli) un mondo che non è per nulla ospitale neanche per noi!), che la voglia di venire alle mani (che c’è sempre stato, sarebbe una follia fingere che non sia così in questi luoghi di detenzione), arrivi fino alle autorevoli e sacre figure degli insegnanti.

Certo, oggi ragazze e ragazzi non vedono più i loro insegnanti come sacri incunaboli del sapere, grazie anche a famiglie un po’ meno inginocchiate davanti alle istituzioni educative -che nulla mantengono di quello che promettono ma soprattutto davanti ai loro soprusi-, non vivono più la scuola come una pena santa in nome della quale immolare il loro tempo, i loro corpi e troppo spesso anche le loro menti.

La vita sociale è una vita sempre più violenta e si dà il caso che nessuno si preoccupi di offrirne una elaborazione seria, men che meno la scuola, barricata dietro la sua offerta formativa (che sostituendo i gadget alla filosofia certo non guadagna un centimetro di credibilità, men che meno con la ridicola e pericolosa alternanza scuola lavoro).

Occorre un ripensamento ben più radicale, che parte dalla vita sociale, dalla quale abbiamo escluso le generazioni più giovani, per regalargli un simulacro di tempo libero di cui non sanno che farsi, invece di una partecipazione autentica e di percorsi formativi stimolanti e nel vivo della vita comune. La scuola è solo un luogo dove trattenere questa copiosa parte della popolazione che nessuno sa dove mettere, sotto il giogo delle valutazioni, dei test e delle psicodiagnosi sempre più diffuse ed allarmanti.

Non mi stanco di ripeterlo, (prima che alle botte succedano gli spari, come già accade altrove), non colpevolizziamo i ragazzi e le ragazze, guardiamoci in faccia noi, giudichiamo noi stessi per quel nulla che facciamo per loro, per la nostra insofferenza, per il nostro poco tempo, per i nostri giudizi frettolosi e corrivi, per l’abbandono al nulla organizzato che li circonda, scuola compresa, cui continuiamo a delegare un fantasma di formazione dall’aria sempre più grottesca e inattendibile.

Occorre pensare oltre la scuola, verso una “città educante”, come con altri (il mio amico Campagnoli in primis, e si veda il nostro La città educante. Manifesto dell’educazione diffusa, edito da Asterios) tentiamo di dire e fare. Se vogliamo che i nostri ragazzi abbiano voglia di imparare, di esserci nel mondo vivi, partecipi, a pieno titolo, occorre che anzitutto glielo riconosciamo, che gli restituiamo il titolo di soggetti, di soggetti che vogliono esserci e che trovano nella società e non solo nelle scuole -teatrini solo dell’educastrazione-, ascolto, opportunità, tutela, ospitalità.

Forse allora cominceranno a riconoscerci come partner accettabili e non come controllori o secondini più o meno camuffati sotto le vesti degli improbabili maestri. Dobbiamo essere noi a riprendere in mano le nostre vite, il nostro tempo e la nostra voglia di stare con loro, senza rifilarli in massa a un drappello di istitutori e istitutrici di belle speranze.

Non c’è un’altra via, perché in questo ne va della loro vita ma anche della nostra, non possiamo dimenticarlo.

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