la gaia educazione

la gaia educazione

giovedì 24 gennaio 2013

Successi facili e scuola impotente


Sembra che stupisca (cfr. Mila Specola nel suo blog “La ricreazione non aspetta” del 7 gennaio) il ragazzino che chiede alla professoressa che senso ha studiare quando i titoli si possono comprare e il successo arride ai corrotti… (con riferimento al caso Belsito e ad altri simili narrati dalla cronaca recente). Questo è quanto appare sulla scena delle scuole italiche. Fenomeno più acuto certo ma probabilmente stabilmente consolidatosi, almeno dai tempi in cui calciatori e veline la facevano dai padroni nell’immaginario dei più giovani. Come modelli da imitare (e non è cosa di oggi). Questione che interroga sul divario tra immaginario diffuso e il possibile immaginario che la scuola dovrebbe proiettare attraverso l’orizzonte inesauribile della cultura ma che purtroppo la scuola stessa non sembra essere in grado di rendere competitivo. Questione complicata, e spinosa. Lo sappiamo: i ruoli che solitamente appaiono appropriati a chi studia diligentemente, dal filosofo all’avvocato, dall’insegnante allo scienziato, sono piuttosto in disarmo, da tempo. Realisticamente, il successo “facile”, se di facilità si può parlare, di chi sceglie altre strade o scorciatoie, appare obiettivamente più appetibile. Qui tuttavia bisogna stare molto attenti a distinguere, a non sottovalutare nulla ma neppure soffermarsi con lo stesso accento su argomenti e casi che sono spesso molto diversi. La questione è: si tratta di autentici esempi di successo? E poi, che significa il successo? E cosa è un successo comprato? Consideriamo l’esempio di calciatori e veline, o tronisti e modelle. Sono immagini luccicanti ma dietro le quali si accalcano molte ombre. Forse che essere un calciatore di successo è una cosa facile, come in tutte le discipline di sport professionistico? In realtà si tratta di un numero estremamente esiguo di soggetti, quelli che arrivano ad un autentico “successo”, che pagano in moneta sonante la loro fama, con anni e anni di sacrificio assoluto, di totale dipendenza da un sistema che letteralmente dispone delle loro vite e che poi, fin troppo spesso, li abbandona alla deriva, quando appaiono troppo vecchi (sui 35 anni) o malandati per poter continuare. Spesso senza molte altre serie prospettive di futuro. Le veline (o i tronisti) sono esempi diversi, di carriere apparentemente facili ma anch’esse segnate dal sacrificio non irrisorio di avere venduto la propria faccia, il proprio corpo, la propria intimità. Analogamente a molti sportivi professionisti, per un piatto di lenticchie che spesso dura assai poco e che finisce prima di quanto non si creda: in assenza di una professionalità solida, esso si spegne talora nella depressione e in una vita da ricostruire da zero. Per non parlare poi della disciplina durissima cui si devono sottoporre, come anche le modelle, per essere competitive in una gara che ne lascia moltissime sulla strada e che vede anche quelle che riescono ad ottenere il successo, alla mercé di padroni e di produttori di pochissimi scrupoli, cui debbono spesso pagare il proprio protagonismo in forme non sempre castigate. Diversamente, i Belsito, i Fiorito e tutta la compagnia dei politici che “arrivano” in virtù di mazzette, di raccomandazioni, sono esempi più difficili da smontare. Ma anche qui occorre guardare il fenomeno con un occhio più smaliziato: questi individui, per accedere al loro presunto “successo” o potere, devono prima subire infinite vessazioni, devono inchinarsi - anzi inginocchiarsi - davanti a figure che non si peritano certo dall’esercitare massicciamente la pratica dell’umiliazione. Devono far la fila, devono saper essere infinitamente ipocriti (e non è sempre così facile), devono vendere continuamente fumo (e anche questa non è un’abilità da tutti). Insomma, anche per la corruzione è necessario uno specifico talento. Ma soprattutto, quello che va evidenziato e che è davvero insostenibile, è ciò che questi personaggi diventano effettivamente. Cosa diventa la loro vita. Perché il prezzo da pagare a queste ipotetiche “fortune” è che si tratta di successi che tutti quelli che vivono in quell’ambiente sanno bene da dove vengono. Successi falsi, il cui costo si percepisce nelle espressioni di chi li circonda, devoti davanti e irridenti dietro. Dal fatto che la fiducia nei loro confronti sarà sempre solo un fenomeno di facciata. Che vivono circondati dall’invidia e dal feroce desiderio di vederli annegare al più presto. Che sanno fin troppo bene che chi si avvicina a loro lo fa solo per il fatto che dispongono di un potere che oggi c’è ma domani potrebbe scomparire. E tuttavia, il vero dubbio che sorge, immaginando lo scenario delle classi dove i nostri ragazzi confusi e disorientati si affacciano al mondo del sapere e della vita, è un altro. Siamo sicuri che queste domande, queste questioni non sorgano anche e soprattutto perché lì, in quelle aule, in quelle classi, non si riesce in nessun modo a restituire lo splendore senza pari che la cultura, la grande meravigliosa cultura di cui potremmo essere tutti devoti e appassionati discepoli, irradia? Non è che il fascino di Belsito o dei suoi modelli sia forse anche effetto del fatto che qualunque cosa, persino la miseria così evidente di questi personaggi, appare migliore che dover patire giorni e giorni di tedio in aule plumbee, a sorbire riduzioni e liofilizzati solo lontanamente imparentati con la bellezza raffinatissima di una cultura tra la più ricche del mondo? Il problema non sta forse a monte? Nell’inadeguatezza della scuola, e forse di un’ intera società, di condurre davvero alla cultura, unica autentica modalità per perfezionare la propria vita prima ancora di qualunque successo professionale, unica via per poterla anche solo vivere veramente, al meglio, riuscendo a percepire l’infinita e inesauribile trama di corrispondenze, di analogie, di pieghe e di sfumature che la rendono degna di essere vissuta?

sabato 12 gennaio 2013

Illusioni e utopie intorno al telelavoro


Morozov, in un suo pezzo sull’inserto domenicale del Corriere, ci ha reso edotti sulle sorti ultime del telelavoro. Questo osservatore che già ci ha compiaciuto con le sue moralistiche analisi di facebook, ora ci propone una sua lettura del magro destino delle utopie hi-tech. In sintesi, secondo la sua ricerca, il telelavoro non produce né benessere né aumentata produttività, né irenici scenari di integrazione dell’esperienza umana. Ad onta delle più rosee profezie emancipatorie, il telelavoro non va. Questa è la sconsolata considerazione di Morozov, che non appare tuttavia aver militato tra i profeti della causa, almeno dai toni. E tuttavia aver anche solo potuto pensare che il telelavoro potesse essere una soluzione raccomandabile allo sfruttamento e all’alienazione appare un po’ ingenuo. Nessuna utopia può verificarsi dove regna la parola lavoro, tele o meno che sia. Il lavoro è in sé e per sé, a meno che non sia opera di pura creatività individuale (ma oggi nemmeno più quello e comunque in tal caso si chiama arte), una delle forme attraverso cui patiamo l’alienazione nel nostro mondo. Sarebbe curioso che il fatto di portarselo a casa trasformasse improvvisamente le cose. Piuttosto probabilmente rischierebbe di trasformare la casa. In che cosa? In un’azienda. Ecco allora che non stupisce che ci si sfrutti da sé, in casa, come sottolinea il nostro a proposito dei risultati di alcune ricerche svolte sul “campo” domestico. Inoltre lavorare a casa, lavorare insisto, sarebbe un regalo a uno degli obiettivi che da sempre gli "imprenditori" perseguono: parcellizzare il lavoro, isolare i lavoratori, inscrivere la norma dentro la loro anima, opera su cui i fautori della qualità totale si sono infaticabilmente adoprati per altre vie. Se le imprese si sono sempre avvalse, e continuano a farlo, di competenze distribuite nelle famiglie (si pensi a quanto mercato fa profitti su lavoro eseguito a livello domestico o in magazzini e sottoscala, senza diritti e in pura legge di sfruttamento), è anche per evitare che i lavoratori si potessero confrontare e organizzare (oltre che per sommergere quelle parti di lavoro che, una volta emerse, avrebbero gravato significativamente sui costi). La parcellizzazione ad alto tasso professionale non riesce a mascherare il suo profilo da alienazione atomizzata e diffusa, seppure magari dorata e obesa. Senza contare che chi lavora nel nostro contesto industriale non può non avere introiettato la norma del lavoro contemporaneo, che è la produttività massimizzata. Lavorare sotto la pressione di una produttività di tal specie non può che snaturare qualsiasi utopia di lavoro liberato e felicemente traslocato tra le pareti domestiche. L’utopia sta ben altrove dal telelavoro. Fa bene Morozov a sottolineare che le tecnologie non vanno certo nella direzione della liberazione e della conciliazione tra vita e lavoro. Questo lo dice in toni un po’ più brillanti e radicali per esempio anche Philippe Godard: “una macchina non ha altra funzione se non lavorare sempre, ininterrottamente, come un rullo compressore. Come un rullo oppressore”. La liberazione del lavoro, quella onestamente radicale, se non utopica, nel miglior senso del termine (quello di Fourier, per quanto mi riguarda), si chiama liberazione dal lavoro, all’indirizzo di una vita semplicemente più umana, più incline a sintonizzarsi sui ritmi della natura (ahi, snaturata natura naturata), più intermittente, capace di inscrivere al suo interno soste, vuoti, momenti di puro dispendio. Contrassegnata da nuove forme di operatività. Operatività per definire la quale il termine lavoro sarebbe finalmente improprio e sconveniente. Un’operatività capace di rallentare, di dilatare, di intensificare l’esperienza di vite, le nostre, quelle di tutti noi, che, lavorando a casa o in azienda o in qualsiasi altro posto, restano ahinoi orribilmente deprivate.

martedì 8 gennaio 2013

Noi mostri e la torsione imprescindibile


Siamo nell’epoca del mostruoso, come l’ha ben definita Peter Sloterdijk, nel suo testo Saggio d’intossicazione volontaria, appoggiandosi, come spesso fa, al linguaggio heideggeriano: “essenzialmente, i tempi moderni sono l’epoca in cui si abbandona la dimora dell’Essere. E’ l’ora del crimine del mostruoso”. “La mostruosità creata dall’uomo dei tempi moderni ha tre volti, tre campi fenomenici: essi si presentano come il mostruoso nello spazio creato dall’uomo, come il mostruoso nel tempo creato dall’uomo e come il mostruoso nella cosa creata dall’uomo”. L’hybris dell’uomo moderno è quella della sperimentazione di massa, della sperimentazione senza limite, che lo espone all’imperativo terribile dell’ “innovazione permanente”. In questo quadro i media assolvono la funzione di tramandare sotto forma di finzione i temi eterni più innocui che si ripetono (nelle sue fiction) ma che di fatto servono solo a eufemizzare l’impatto con la sfida costantemente aperta per l’individuo contemporaneo di forgiare prometeicamente la propria vita ogni giorno di nuovo, inchiodato come Sisifo ad un compito fondamentalmente forsennato e irrealizzabile. E per lo più destinato allo scacco. E’ il volto del nostro mondo a sbigottire: esso è la più patente rappresentazione del mostruoso. Mostruosi sono i segni sul paesaggio: solo una creatura dalla potenza titanica può infierire su e torturare a tal punto il suo habitat, il suo oikos. Il tempo è devastato dai meccanismi brutali del suo calcolo, della sua misurazione, della sua costrizione. Il tempo è costantemente sotto sequestro, nell’epoca contemporanea. E questa è la più autentica catastrofe della nostra epoca. Un tempo di morte, un tempo messo costantemente al lavoro, in produzione. L’epoca del nichilismo compiuto è l’era della totale sincronizzazione, dell’attualizzazione per cui non esiste più alcuna sporgenza nel tempo. Tutto accade sincronicamente, nulla può più accadere in un altro tempo o fuori dal tempo. Infine la modernità è l’epoca del trionfo dell’artificializzazione, come trionfo della cosa svuotata di interiorità, di anima. La tecnica vi si rivela, per usare ancora le parole di Sloterdijk, come “conquista progressiva del niente”. “Nel niente, non vi è più nulla da riconoscere, ma tutto da compiere”. Fine della risonanza simbolica dell’agire, appiattimento sull’azione come “impresa”. Ancora: “la natura e l’Essere hanno perduto il loro monopolio ontologico: si sono visti provocati e rimpiazzati da una serie di creazioni artificiali uscite dal nulla e dall’emergenza di un mondo post-naturale uscito dalla volontà”. Siamo dunque dei mostri, mostri sempre affaccendati, multitasking, senza tempo e sotto un cielo vuoto, abitanti di una terra depredata e desertificata, sempre a caccia di un qualunque tappo per frenare l’abisso che ci si spalanca intorno. Ci riempiamo la giornata di impegni per dimenticarci di tutto ciò che ci frana intorno. Siamo mostri: automi sogghignanti e distratti, sempre con il sorriso sulle labbra e implacabilmente mai concentrati su niente, neppure durante le sedute di yoga, perché nella posizione del cane con la testa in giù già stiamo pensando al tweet da inviare quanto prima o alle telefonate da fare. Senza sonno e senza pause, viviamo accerchiati da dispositivi che crediamo di usare e che sappiamo benissimo che ci usano. E il nostro esserne usati è una resa in cambio di uno straccio inzuppato di aceto con cui tamponare il nostro ordinario dissanguamento. L’ horror vacui è la sindrome dell’epoca, e ciò è stato da molto tempo più e più volte sottolineato , senza che però ciò desse luogo ad alcuna inversione di tendenza. Siamo tutti affetti da quel “disturbo dell’attenzione e iperattività” con cui crediamo di poter etichettare i nostri bambini spaesati e piombati in un mondo che non ha spazio né tempo per loro né men che mai per la loro inconfondibile “estraneità”. Siamo affamati di tutto ciò che possa esorcizzare i terribili fantasmi della malattia e della morte che danzano forsennatamente intorno a noi e alle nostre città. Eppure. Eppure bisogna prestare fede nell’imprevedibile, nella smagliatura, nella torsione improvvisa. Per chi, come me, crede nella versione antidialettica della storia di Walter Benjamin, non certo proiettata in un processo progressivo bensì fatta di risucchi, di improvvisi attriti, di sbandate e di reversioni inattese, il credere nell’impossibile è giocoforza. E l’impossibile si accende di fioche luci nell’oscurità più fitta sussurrando la preghiera di un nuovo incantamento (le “lucciole” di cui ci parla Didi-Huberman riesumando Pasolini). Come pochi eretici continuano a voler credere, da Stiegler a Ritzer a Maffesoli, parole come reincantamento oppure parole che altri, come René Schérer o Raoul Vaneigem, non vogliono considerare inservibili, come utopia, debbono essere pronunciate. Proprio nell’epoca in cui il pragmatismo, i nuovi sintomatici realismi, il pensiero vuoto e strumentale spadroneggiano ovunque. Proprio nel tempo della massima, estrema povertà. L’utopia riemerge come potente perno di riorientamento in un mondo che ha totalmente perso la bussola nei confronti del desiderio, dell’armonia tra forme di vita, rispetto ad ogni sua possibile destinazione che non sia all’insegna dell’entropia e della distruzione. Occorre favorire una “controeducazione” nutrita dall’immaginazione simbolica che non muore, da una rivitalizzazione del sapere come riconnessione con il reticolo delle corrispondenze lacerate e sommerse dall’impeto distruttore di una ragione puramente pragmatica. Quel reticolo di analogie che trama il reale come organismo vivente e sensibile. Assumere parole d’ordine come quelle di “ascolto poetico della natura” di Prigogine, oppure come il “riorientamento simbolico” di Stiegler o ancora persino, per alcuni tratti come le “omeotecniche dello spirito” di Sloterdijk da intendersi come “arti della transizione”, ma soprattutto l’ “atto erotico” del “divenire selvaggi” di Hakim Bey, è uno dei modi “impossibili” per mantenersi sensibili ai segnali in controtendenza di un universo saturo di orrore, di nausea per la bruttezza e la devastazione che avanza, per i disequilibri sempre più insopportabili, per il malessere che ogni organismo ancora minimamente senziente non può non avvertire mentre tutto precipita verso il suo autodafé.