la gaia educazione

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mercoledì 11 ottobre 2017

Come restituire l'aria ai ragazzi e alle ragazze di fronte alle provocazioni della paranoia generalizzata (avanti con l'educazione diffusa!)




Reagire alla morte di un bambino che esce da scuola e viene ucciso dal traffico con la proibizione di uscire da scuola per tutti se non accompagnati, sarebbe come proibire a tutti l’uso dell’asciugacapelli solo perché a qualcuno, accidentalmente, è caduto nella vasca, folgorandolo.

Alla paranoia generalizzata di una società che in cambio di una salute micragnosa e ridotta ai minimi termini concede una libertà di esistere sempre più controllata e soffocata, occorre contrapporre un vero e “salutare”, questo sì, diritto a correre qualche rischio in nome della possibilità di fare esperienza, di essere sottratti alla vigilanza perpetua e alla interiorizzazione di un gigantesco apparato di prevenzione che non permette più a nessuno neppure di respirare serenamente.

Prevenzione sì ma non della vita, e in specie della vita dei ragazzi, costringendoli alla sorveglianza perpetua. Semmai preoccupazione per reimparare ad ospitarli, a rendere possibile il loro passaggio e il loro soggiornare nel mondo. Occorre preservare i luoghi dove essi si muovono, i loro percorsi dai ritmi imbecilli di un mondo adulto che non sa neppure più chi siano e cosa vogliono i suoi cuccioli. Che è più tranquillo sapendoli rinchiusi e vigilati mentre eseguono compiti che non hanno desiderato né scelto piuttosto che mentre vivono e si esprimono nella pienezza delle loro possibilità.

L’autonomia dei ragazzi è un bellissimo ideale, proclamato da tutti, un po’ come la partecipazione e la cittadinanza attiva. I proclami che riguardano l’educazione sono tanto lontani dalla realtà quanto la condizione effettiva dei lavoratori dalle belle idee sulle politiche del lavoro e dell’occupazione.

Ma i bambini vivono una situazione particolare, persino peggiore. Si pretende che imparino a vivere nella società venendone separati, chiusi in luoghi dove la società è ridotta a una caricatura, dove le loro libertà sono in gran parte soppresse (persino quella di provvedere ai loro bisogni fisiologici in molti casi, come andare in bagno quando ne hanno bisogno) e la loro possibilità di partecipazione, decisione e creazione sono pure illusioni.

Ora anche all’uscita di scuola debbono essere presi sotto scorta, perché inabili a muoversi nel mondo (essendo stati privati da sempre del diritto di farlo e incapaci di decodificare i segnali di pericolo che la realtà invia loro) .

Questo delirio, ahimé in crescita, va fermato, anzi invertito.

Occorre permettere a bambini e ragazzi di rientrare nel mondo come attori, soggetti e collaboratori. Deve essere ripristinato il loro diritto a conoscere il mondo direttamente, a imparare ad abitarlo, a osservarlo, a esplorarlo e intervenirvi in modo da poter essere quanto prima in grado di orientarsi al suo interno e di fare scelte che siano consonanti con le loro autentiche esigenze di affermazione personale, di sviluppo dei loro talenti e di partecipazione alle politiche che li riguardano.

Permettere ai ragazzi di andare a scuola e tornare da soli è solo un diritto microscopico, una feritoia nel controllo pervasivo e capillare delle loro vite, uno spiraglio nella prigionia adulta a cui sembrano condannati per un tempo del tutto sproporzionato alle loro capacità potenziali (sempre che siano esercitate e sviluppate).

Occorre dire di no alla paranoia generalizzata, al gioco idiota delle responsabilità scagliate dagli uni sugli altri senza mai prendere in considerazione seriamente i diritti minimi di ossigeno e libertà dei nostri bambini e dei nostri ragazzi, alla prevenzione come annichilamento della vita nel suo germogliare, crescere e moltiplicarsi.

lunedì 6 febbraio 2017

La carica dei 600 parrucconi accademici







Cielo, di nuovo parrucconi che si strappano i capelli, barbogi che pontificano, megere che si scandalizzano!

Quando finirà la trista e trita litania del o tempora o mores? Quando le anime belle del tempo che fu smetteranno di piangere e sbraitare sull’incapacità dei giovani, sui loro sbagli, sulle loro incompiutezze? Di nuovo la vecchia catilinaria della lettura e della scrittura. “fanno errori da terza elementare!” “Non sanno le più pallide regole della grammatica!”. “Non leggono. Non sanno far di conto, non hanno disciplina”. “Le famiglie li rovinano. Le scuole non sono abbastanza esigenti”, "gli insegnanti sono dei mentecatti" e compagnia gridando e infuriando.
Che noia!
Forse occorrerebbe che qualcuno spiegasse ai 600 parrucconi in convulsione da matita rossa e blu, che l’università da parecchio è diventata un’istituzione di massa, che la scuola stessa è diventata da molti decenni di massa e che la civiltà è progredita al punto di non poter tollerare che bambini e bambine e ragazzi e ragazze siano tenuti nel terrorismo delle punizioni, dei castighi e del ludibrio pubblico.
Andrebbe loro spiegato che oggi gli strumenti di cultura si sono assai diversificati e non sono più racchiusi solo nelle biblioteche e nelle librerie e che la lettura ha ceduto il posto a infinite altre occasioni di informazione e di evasione, visto che , fino a prova contraria, coloro che leggono, nella stragrande maggiorana dei casi, leggono soprattutto per evasione, e scrivono solo quando è strettamente necessario e non certo per professione.
Sì, strappiamoci i capelli sulla triste sorta di una giovinezza perduta, ignorante e arrogante. Avanti il concerto: da Galimberti alla Mastrocola, dalla Tamaro a Lodoli, dall’Accademia della Crusca a quella del Politecnico! Giovani senza il dio della scrittura, alla mercè di preposizioni disarticolate, predicati immorali e complementi senza oggetto.

E allora? Irrigidire, disciplinare, sanzionare, moltiplicare i controlli, ergere sbarramenti. Perché non tornare anche ai ceci sotto le ginocchia?

Io credo che li faccia sentire bene, i (o ai?) nostri accademici, schizzare un po’ di merda di tanto in tanto sulle giovani generazioni. Forse gli dà un qualche motivo di esistenza, chissà.

Finiamola una buona volta. Oggi i ragazzi e le ragazze leggono infinitamente più di una volta, anche grazie ai loro dannati telefonini, anche grazie a internet, e scrivono, scrivono molto di più. Leggono e scrivono ciò che interessa loro e non ciò che vogliamo noi. E leggono e scrivono bene o male, ma si intendono.

Io insegno al primo anno di un corso di laurea di educazione, dove approdano studenti che vengono con titoli di studio anche molto poco à la page, eppure scopro tesori di intelligenza, maestria di scrittura, poetica e prosaica, e lettura tutt’altro che banali. Certo in alcuni, come è sempre stato peraltro, in molti altri avverto difficoltà, come sempre è stato peraltro. Capisco che essi comunicano attraverso linguaggi differenti, anche scritti, la cui grammatica e semantica è talvolta differente da quella del toscano cruscante, ma non meno ricca, anche articolata. Le loro faccine sulle loro chat sono forse piè economiche che scrivere del “rumor di croste” della biada, eppure hanno una loro densità, specie quando moltiplicate e associate.
La verità è che non gli stiamo dietro, che loro sono veloci e che se ne fregano delle nostre auree regole. Più o meno come sempre hanno fatto i giovani sani, non quelli già gobbi che immancabilmente finiscono a far marcire le loro frustrazioni dentro le Accademie.

Rassegniamoci: occorre un movimento esattamente inverso. Siamo noi che dobbiamo adattarci, non loro. Siamo noi che dobbiamo aggiornarci, non loro.

Non solo. Se davvero ci teniamo a fargli volgere l’attenzione verso qualcosa che riteniamo cruciale (e qui potrei trovarmi più che d'accordo anch’io. Che leggano Eliot o Rimbaud o Celan o Rilke, lo ritengo piuttosto essenziale). Ma mai ci arriverò sottoponendoli a pene e sanzioni. Occorrerà che elabori dei circuiti motivazionali virtuosi, magari legati ad atti reali, che li chiamino prepotentemente alla lettura, non alle vessazioni dei controlli e delle prove.

Nessun autentico apprendimento è mai passato attraverso la severità (tranne che per i masochisti), solo finzioni di apprendimenti, simulazioni, buone per saltare l’ostacolo e poi scordarsene. Se vogliamo che si appassionino alla scrittura, cosa che in sé è buona e giusta, benché sia falso dire che essi ne siano più di quelli di altri tempi digiuni, occorre trovare il modo di appassionarli facendo leva sulle loro motivazioni, non quelle di qualche obsoleta e fatiscente disciplina istituzionale.

Volete che usino le parole “obsoleto”, o “fatiscente” o “apodittico”, allora occorrerà fare un lungo giro, dentro il sangue e la carne delle loro vite, perché quei termini si conficchino dentro di loro come significanti di significati ricchi di vita, non mere parole imparate a memoria.

La si finisca una buona volta con questo moralismo angusto e cieco, si guardi in faccia la vitalità di questi giovani, che ogni anno trovo un po’ meno addomesticati dei loro progenitori, più aperti, più vivi - probabilmente anche grazie a una scuola che sta finalmente dismettendo la bacchetta e il pugno sulla cattedra, in virtù di insegnanti sicuramente un po’ meno rincoglioniti umanamente di quelli che li hanno preceduti-, più curiosi, più perspicaci, e –perfino!- in virtù delle nuove tecnologie, preziosissime per scoprire ed esplorare ben oltre i confini dell’apprendimento scolare, più informati, magari a modo loro, ma informati.

Io ho imparato a imparare da loro, e basta mettergli sul piatto un cibo saporito per vedergli spalancare gli occhi e la bocca, pronti a gettarsi con persino troppo slancio sul boccone.

Non c’è bisogno di ristabilire la disciplina, c’è bisogno di gaia educazione, di amore, di passione, di contenuti alla loro altezza, di mete realizzabili, di azioni, di gesti, di compiti reali. Basta con il tartassamento di insegnamenti senz’aria, corpo e senza remunerazione umana! E soprattutto basta con la nostalgia di un passato che, ad onta dei fasti di cui personaggi che emanano solo tristezza e polvere li ammantano, sono stati tra le pagine peggiori della formazione dei piccoli d’uomo, oppressi, castrati e castigati oltre ogni possibile giustificazione.