la gaia educazione

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lunedì 20 novembre 2017

Come ci rubiamo la vita



La lobotomizzazione dei nostri poveri sensi è giunta a livelli inimmaginabili qualche decennio or sono e molti di noi non sanno più neppure chi sono, cosa vogliono, che ci fanno qui, anche quelli più “consapevoli”.


La nostra vita è saccheggiata, ostacolata, deprivata, premuta, mortificata.


E le nostre soluzioni? Individuali, specialistiche, settarie, oppure: la morte psichica, non parlo non sento non vedo.


Dove è il punto che sembra continuamente sfuggirci, proprio mentre insinua la sua cancrena in ogni recesso, anche i più nascosti, della nostra vita?


Il punto – e lo scrivo proprio con il gusto di farlo risaltare anche nella scrittura- è la frantumazione.


Noi, i più frammentati, dovrebbe dire Rilke oggi.


Non è il tempo della povertà, ma della frammentazione. Frammentazione che ci affligge e che noi nutriamo con sempre maggiore lena.
Frantumazione di tutto: dei nostri corpi, dei nostri linguaggi, delle nostre menti, dei nostri luoghi, delle nostre relazioni, dei nostri tempi.


Stiamo morendo a pezzi, letteralmente.


Ma la vogliamo, eccome!


Se qualcuno prova a rivendicare il diritto a riprendere un pezzo di sé finito tra i cespugli qualcuno insorge e gli intima di lasciarlo dove sta, perché è meglio.


Che niente contamini niente.


Il privato non deve contaminare il pubblico, le emozioni la produzione, gli affetti il lavoro, la famiglia il denaro, il ruolo la prestazione, la psiche il sesso, le passioni …


Le passioni, miserabili, perdute completamente nella roulette impazzita delle frammentazioni. Quale passione potrà mai risorgere dal tessuto esploso della nostra relazione al mondo?


La prescrizione è: uccidi la passione, trasformala in prestazione, in denaro.


Chi è appassionato trabocca, non sta dentro al contenitore piccolo del suo ruolo.


Ruolo, professionalità, distanza, tutti termini che appartengono al vocabolario della frantumazione e che assolvono al precipuo compito di neutralizzare le passioni, i traboccamenti, le rivendicazioni di inusitati congiungimenti.


Noi amiamo tutto questo. E’ all’ombra della separazione e della gerarchia, delle competizioni e della privacy che abbiamo edificato un mondo in cui l’unica unità di misura, neutra per eccellenza (il neutro, caro Fourier, non è il pivot delle passioni, come tramite tra i differenti, no è il suo nullificatore), è il denaro.


Ci facciamo pagare e paghiamo un’ora di cura, di massaggio, di attenzione. E che sia così. Mica che mi tocchi magari di restituire cura, massaggio o attenzione.


Fiori del solipsismo contemporaneo, la frantumazione, la separazione, la gerarchizzazione, la catalogazione dominano incontrastati.
Anche l’immersione nella natura è un gesto separato, già nel momento in cui parliamo di natura come qualcosa di separato, senza saper riconoscere (ahimé spesso perché estinta) la natura in noi. Cosa vuol dire immergersi nella natura, designare oggi qualcosa come natura, o come tempo libero, se non predisporre le condizioni di separazione necessarie perché qualcuno ne possa fare un bel pacchetto da vendere tutto completo, con musica di sottofondo?


La musica è separata, l’amore è separato, il gesto dell’insegnare è separato.


Nessuno che si doni anima e corpo, o solo anima o solo corpo. Tutti e due diventa relazione (cfr. catalogo), coppia, amore di coppia, c’è già un bel sarcofago dove metterlo a dimora, perché riposi in pace, defunto.


Eccoci, noi, fatti a pezzi. Un pezzetto di relax, un pezzetto di cultura, un pezzetto di lavoro, un pezzetto di giardinaggio, un pezzetto di pet-therapy, un pezzetto di amore, un pezzetto di dolore, un pezzetto di morte.


E’ così che abbiamo debellato la morte in fondo.


Niente vita niente morte. E’ così semplice.


Niente unità, niente fine di nulla.


Sopravvissuti sì ma come frammenti. Non sappiamo neppure mai chi siamo, ce lo prescrive il ruolo.


Toh, adesso faccio l’insegnante, e tra poco l’amante, poi dopo farò il papà e poi, chi sa, lo sportivo.


Nessun papa insegnante e amante e sportivo e addolorato e mistico mentre è padre. Nessun insegnante appassionato che faccia a pezzi le tensioni muscolari che lo ingabbiano nel ruolo.


La bellezza di non essere nessuno da nessuna parte. Fine della tenera finzione della vita integra.


Puttanate romantiche, buone tutt’al più per disperati e anarchici.


Godiamo fratelli, si può sopravvivere così, come marionette appese ai multipli fili delle nostre maschere e delle nostre difese.

Contro la vita.



Poi ci lamentiamo della disperazione.



Non dimentichiamo. Siamo grati a quella disperazione, perché viene da un luogo in cui qualcosa della vita sopravvive. Se siamo disperati, e lo siamo, oh sì, è perché qualcosa di ancora vivo in noi rilutta.



Stiamo vicino a quella disperazione, può insegnarci qualcosa, un anelito di desiderio, una voglia di partecipazione, un desiderio di riprendersi pezzo a pezzo il proprio intero e non essere più funzionari del nulla.




Prima di essere definitivamente sterminati e non avvertire neppure più il dolore, neppure un prurito.

sabato 23 novembre 2013

La grande offensiva dei "talent" : ideologia al quadrato



Ci si accapiglia sui talent perché sono andati a insidiare i territori supposti sacri del nostro mondo ultimo e sventuro. Ma è pura propaganda, serve solo a macinare altra pubblicità. Come se la letteratura e l’arte fossero meno merce del resto. Figuriamoci.

Certo però un dato di tutta evidenza non può essere taciuto. Siamo sommersi.
I talent crescono letteralmente come funghi. Ogni volta che armeggio con il televisore ne scopro uno nuovo. L’ultimo che mi è capitato sottomano è Nati per ballare versione Uk, non so se vecchio o recente, non importa. Soliti formati, genere X factor, solito spettacolo pietoso di personaggi improbabili che si candidano a prestazioni del tutto fuori scala per loro come ciccione che ballano con foga da cardiopalma a ritmo di hip-hop e altre mostruosità analoghe, per rendere la “sfida” ancora più accalorante (del resto Peter Sloterdijk, il filosofo ex-neo-kinico fattosi profeta della talentizzazione di tutti nel suo piuttosto inverecondo Devi cambiare la tua vita, mette in luce come l’handicap sia un prodigioso ingrediente per ottenere prestazioni straordinarie).

Spettacoli di questo tipo grondano letteralmente a fiotti, in una novella uniformazione della materia bulbosa e crassosa che rigurgita cronenbeghianamente fuori dal nostro elettrodomestico più importante.
Ce n’è per tutti e di tutti i generi, dal culturismo all’arte passando per ogni forma dell’umana affermazione nel “fare”.

Ma veniamo al dunque. Chiaro che le polemiche sulla deriva “spettacolare” di campi della nostra esperienza che dovrebbero rimanerne al riparo è del tutto ridicola e, come si diceva, perfettamente in sincrono, per dirla con linguaggio adeso alla materia, con le esigenze mercantili del prodotto. Quindi proviamo a vederne qualche altro aspetto.

Per quanto mi riguarda ritengo che si tratti della più massiccia campagna di propaganda che si sia vista negli ultimi duecento anni a favore di un valore che ritorna a pompare della più bella: il valore della competizione, della competizione individuale e della competizione ad ogni costo. Questo forse è perfino banale. Ma è la misura ad essere straordinaria. La competizione torna e torna alla grande con tutti i suoi accessori: “tutti ce la possono fare” (anche le ciccione che ballano il rap), occorre solo sforzo, umiltà (occorre essere umili di fronte ai giudici, salvo quel pizzico di sfacciataggine che fa sempre audience) e tanta tanta perseveranza.
Naturalmente nel tempo della “grande penuria”: se ce la si può fare, ce la si può fare da soli!
Da non crederci. Era da un po’ che questo valore sempreverde non tornava così beatificato. Rallegriamoci. Ognuno di noi ha un talento e deve vendere cara la sua pelle per farlo valere. Amen

Perno dell’operazione è la gastronomia. Geniale: ci hanno presi per la gola. Chi può affermare di non essere acquolinicamente catturato da quelle belle sfide con chef che sembrano Indiana Jones (Gordon Ramsey, il vero e unico profeta del talent) oppure dei bastardi melliflui e con la pronuncia meravigliosamente slava che tanto fa vecchio film di spionaggio antisovietico (sempre un ottimo bersaglio ideologico, per quanto consumato) come Joe Bastianich?
E’ altrettanto appssionante vedere maltrattare (in chiara simulata) poveri gestori di locali decadenti nelle periferie della California, con le loro cucine sempre piene di cibi surgelati anni addietro e inevitabilmente purulenti e saccheggiati da animali rivoltanti, quanto assaggiare con la sola vista piatti che appaiono perfetti quadri cubisti, salvo che a mangiarli “mi muoro”.

I talent ci appassionano e ci commuovono, stuzzicano la nostra crudeltà quanto il nostro buon cuore. Godiamo a vedere offendere senza mezze misure i contendenti sempre pronti a farsi schiaffeggiare con inscalfibile servilismo così come ci emozioniamo di fronte al ragazzino nero magrolino giubilato dal talent sull’arte contemporanea made in USA, Work of art, che alla fine di un percorso estenuante dove ha dovuto improvvisare in tempi sempre contingentatissimi (secondo le vecchie regole della fabbrica fordista), opere con soggetti impossibili, è finalmente quanto improbabilmente il vincente di una dura lotta a coltello con i suoi competitors.

Di valori a buon mercato ce n’è per tutti i gusti, gusti delle macchine da profitto, si intende.
Una formula che solletica soprattutto il nostro sadomasochismo (ma anche il loro, presumibilmente, dei partecipanti, che fanno la fila per avere una “chance”, vecchio impagabile mito del capitalismo americano), mentre ci identifichiamo di volta in volta con la vittima e con il carnefice. Una formula sicura per fare affari con il mai troppo abusato agonismo da circo romano e, al contempo, rimettere in circolo, a dosi da indigestione, la vecchia e incrollabile ideologia della prestazione, della sfida, della produttività, del vincere o perdere, insomma della competizione.

Ideologia al quadrato in azione: una macchina che fa far soldi e nuovi servi in ogni direzione, da qualsiasi lato la prendi. E in più è anche divertente. Un affare da Re Mida.
Con i suoi “giudici”, tanto per temperare fino all’impossibile la vecchia matita che decreta che la vita è sempre una tenzone con un giudice (per i più paranoici una partita a scacchi). Con un giudice imparziale e “competente” (altra parolina che secerne ideologia come una pera marcia la sua bava sierosa), un giudice che ci rende complici del fatto che ogni opera non è fatta per esprimersi (ci mancherebbe altro) ma per funzionare, e se non funziona, come con inesorabile puntualità i giudici sanciscono, “sei fuori”.

Non stupiamoci. Oggi tornano alla carica tutti i ferri vecchi. Abolita finalmente, anzi proprio surclassata ogni idea che provenisse da quell’impresentabile bacino di puerizia (si fa per dire…) che sono state le lotte degli anni 60 e 70, ormai difese solo da qualche tossicodipendente (quando perfino tutti i suoi principali attori le sbeffeggiano e addirittura le marcano con l’infamia di aver accelerato l’arrivo del peggio presente), è evidente che resta l’unica ideologia, quella vera, quella che non delude mai.

Così tornano alla ribalta con un frastuono che fa fin male alle orecchie il “merito” (applauso), gran campione dell’agone, la prestazione (applauso più forte), unica modalità di essere nel mondo che non sia depressiva e fallimentare e, naturalmente, in questo campionario del principio maschile all’opera nonostante la scomparsa della società patriarcale, la competizione (applausi, fischi, ovazione).

Va così.

Il problema è che tutto questo davvero funziona. Davvero ci piace. E dunque?
Forse che sia tutto vero? Forse che quella vecchia e solo apparentemente indegna ideologia è quella vera, quella santa, quella decisiva?
Basta coi mala tempora currunt, evviva il talent! Facciamoci a pezzi, magari in gruppi, così da dare una degna sepoltura alle fallimentari utopie collettiviste!
Del resto, basta guardarsi in giro, in auto, in tram, negli uffici, nelle scuole, nelle università. E’ tutto un talent, è tutto un fiorire di gare e di giudizi. Ognuno ha il suo X-factor.

Sì, deve essere così, è questo il mondo migliore possibile.
Non resta che allenarsi di brutto.