la gaia educazione

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domenica 12 aprile 2015

La libertà vigilata dei cosiddetti minori




Definiti minori quasi universalmente sotto il diciottesimo anno d’età, essi, i minori, restano per tutti quegli anni sottoposti a un regime di libertà vigilata, spesso sconfinante negli arresti domiciliari, sotto il diretto controllo degli agenti che li hanno messi al mondo.

Un tempo, quando le case non avevano ancora porte blindate, le scuole non esistevano e nemmeno gli psicologi, i minori non se la passavano un granché neanche allora, ma presumibilmente trovavano più facilmente il modo di filarsela da qualche parte alla prima occasione, specie se maschi ma anche le femmine, nell’incuria generale, sapevano come sottrarsi.

Oggi, i nostri minori metropolitani o anche semplicemente cittadini, sono ai ceppi. Minori e dunque minorati, perciostesso non in grado di fronteggiare il mondo. Non minori come gli accordi minori, che ci danno un poco di quieta malinconia. No, minori minori. Minori bequadro.

Ed eccoli dunque: un oggetto da trasportare da un luogo all’altro ma sempre sotto scorta. Come prigionieri, qualcuno si incarica di accompagnarli da un luogo di custodia (cautelare) ad un altro. Dalla magione alla scuola, dalla scuola alla piscina, dalla piscina al catechismo, dal catechismo alla magione e così via. Sempre sotto scorta e sempre verso nuove custodie. Guardie giurate (alla loro protezione si intende) sempre presenti.


Un fenomeno questo pervasivo specie se i minori sono molto minori e se il mondo, lì fuori, in virtù del suo scorrere massiccio e indifferente sui binari della compravendita delle merci (che anch’essi stanno per diventare, in virtù del trattamento giudiziario), procede feroce e appunto incurante di loro.

Il trattamento giudiziario si doppia poi all’interno dei luoghi di custodia (cautelare) ( e preventiva), con misure punitive ove si cerchi di sottrarsi alla restrizione. Inoltre i minori sono ivi sottoposti a misure sempre nuove e inesauribili di continua “misurazione” della loro capacità di corrispondere alle attese degli ordini disciplinari in cui vengono iscritti o meglio arruolati senza essere stati pressoché mai interpellati in merito.

Alla scuola, struttura di custodia per eccellenza, in quanto “d’obbligo”, l’interrogazione-interrogatorio e l’esame (istruttorio e probatorio), sono costantemente in atto, affinché la conformazione non abbia a rischiare anche la minima compromissione. E implacabile è sempre sotto osservazione la condotta del carcerato (cui la pena inflitta può essere anche allungata, ove ricorrano gli estremi). A orari fissi egli viene rilasciato solo a nuovi tutori che dimostrino di possedere le credenziali normative per poterlo effettivamente custodire e sorvegliare.

Ogni luogo, compresi quelli del transito (auto o altri veicoli), risultano identificabili come dispositivi restrittivi in cui quasi tutti i comportamenti sono vietati: l’automobile per esempio è un luogo dove spesso il minore viene letteralmente legato ad un piccolo sedile predisposto perché non possa assolutamente muoversi, pressappoco una camicia di forza. Ovvio che questo si fa a scopi preventivi e protettivi.

Nello sport, nella istruzione religiosa o musicale, le forme di custodia risultano altrettanto molteplici e variate e la sorveglianza su eventuali anomalie lascia ampio spazio a indagini che possono poi comportare l’intervento suppletivo di nuove figure tutoriali e ispettive pronte a correggere disturbi ed errori.

E così via, fino alla maggiore età, quando, come è ovvio, il minore, essendo stato definitivamente reso minore e manco a vita, incapace di intraprendere qualsiasi azione in assenza di tutela, si affiderà spontaneamente a nuove protezioni, a nuovi custodi, a nuove misure restrittive, che saranno lì, puntuali, ad accoglierlo, a braccia aperte.

Poi subito richiuse.

Così va la vita dei minori nel tempo della democrazia.

venerdì 8 febbraio 2013

Non c'è più via di fuga


Le fughe dei ragazzi scuotono il benpensiero. Nulla di nuovo, da questo punto di vista, solo, talora, nuove parole. Gli psicologi, al solito, arroccano sulla famiglia, unico riferimento nella loro mappa societaria. Se i giovani scappano di casa sarà per trarre riconoscimento, per dire ai genitori che ci sono, che esigono più attenzione. Tutt’al più forse, la fuga, sarà un grimaldello per estorcere più paghetta, più tempo su internet, l’ultimo gadget. La litanìa sulla gioventù appesa al nulla e alle mamme è sempre sulla bocca dei nostri curatori di fallimenti. E sarà pur vero, in qualche caso. Qualche filosofo della letteratura parla di presenza che si propone con l’assenza. E certo assentandosi ci si presentifica, come in amore. Ma forse non è necessario scomodare l’ontologia dell’assenza né lo tzim-tzum (la teologia cabalistica del dio che scompare per manifestarsi). La fuga è un archetipo della giovinezza, una necessità e un’iniziazione di cui molti hanno avvertito il richiamo, chi prima e chi dopo. A cambiare, di fronte alla trasgressione (del confine) è semmai la retorica della recuperazione, per usare un termine un po’ démodé. Ma anche la realtà della fuga, una fuga che si consuma nel mondo della simulazione. Io credo che i ragazzi si sentano alle strette, di tanto in tanto, nella prigione dorata (oggi dorata dal nuovo sussiego genitoriale, la famiglia affettiva e sempreaddosso), nel tessuto compatto della securizzazione. La voglia di lacerare quella materia invisibile, fatta di prevenzione, rischiaramento a colpi di sincerità e di trasparenza, di controllo e sorveglianza, proprio nel tempo della sua massima applicazione, potrebbe essere una risposta all’ansia di scappare. Voglia di esporsi ad un aperto, ad un fuori, ad uno spessore del reale contro il quale urtare nella nudità della propria pelle. Voglia di rinunciare alle dieci telefonate obbligatorie alla famiglia, al rendiconto, al balletto del vogliamoci bene. Peccato che il fuori sia scomparso, nel frattempo. Dove puoi cercare into the wild oggi? Non c’è cargo o treno che parta per paesi lontani e diversi né la compagnia di saltimbanchi nomadi o di fuorilegge di cui sperimentare l’eccesso e la seduzione. Tutto è uguale a tutto, là fuori. Forse è questo il motivo della brevità di queste fughe. Fuori c’è il dentro, e viceversa. Tutto è attenuato, indebolito, comunque sorvegliato. Come fuggire nel paese delle telecamere di servizio, della localizzazione tramite cellulare, dell’uniformazione compiuta e della delazione obbligatoria? Il mondo è una grande famiglia… Ogni sporgenza è stata smussata e fagocitata. Come nel Truman Show anche il fuggitivo contemporaneo corre verso un orizzonte che non c’è, a rischio di trovare la porta che lo farà cadere nel puro vuoto. Ma ben pochi arrivano fino a lì, a schiudere l’asola che si apre sopra l’oltre o, talvolta, l’inferno. Per spingersi fino a lì, occorre non solo il senso dell’avventura ma una disperazione insostenibile che il calore simulato del sistema di protezione e di manipolazione famiglia-scuola-consumo non permette che si manifesti davvero. Le fughe si arrestano prima, picchiando contro il muro di gomma delle infinite equivalenze, di un altrove dato per disperso, definitivamente. In barba a chi si beffava di Marcuse, oggi il mondo ad una dimensione è una realtà assoluta. Chi fugge sa cosa trova: il medesimo. Certo a volte una lacerazione nelle maglie compatte della recuperazione aprono a qualche abisso o a qualche inspiegabile ulteriorità: è il caso di quelli che non tornano più. Forse preda dell’orco, il sottosuolo “reale” dell’orrore e della sopraffazione. Oppure finalmente in viaggio verso il non dove, il luogo utopico di un’altra vita (im)possibile. Ma il più delle volte la fuga è un giro su se stessi, un turno sulla giostra del sempre eguale ed è un giro breve perché comunque il cane da guardia è molto più attrezzato di un tempo. E spesso alloggia dentro, inoculato dall’educastrazione. I giovani desiderano evadere, toccare il corpo del mondo, godere il loro ike notturno nei boschi ma impattano nel grigio compatto della cementificazione cui tutti siamo sottoposti, la cementificazione dei sogni e del futuro. E dove non cattura la polizia, c’è la psicoterapia pronta ad accoglierci nell’ultima simulazione. E’ l’anello di Moebius, ti sembrava due ma è uno, sempre lo stesso, che abbia il volto del genitore o del maestro, del prete, del poliziotto o del terapeuta. Non ci si allarmi troppo dunque. I ragazzi non si rassegnano, è vero, perlomeno alcuni tra essi, ma i loro sensori sono veloci e presto, per forza di cose, rieccoli a casa.