la gaia educazione

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venerdì 8 febbraio 2013

Non c'è più via di fuga


Le fughe dei ragazzi scuotono il benpensiero. Nulla di nuovo, da questo punto di vista, solo, talora, nuove parole. Gli psicologi, al solito, arroccano sulla famiglia, unico riferimento nella loro mappa societaria. Se i giovani scappano di casa sarà per trarre riconoscimento, per dire ai genitori che ci sono, che esigono più attenzione. Tutt’al più forse, la fuga, sarà un grimaldello per estorcere più paghetta, più tempo su internet, l’ultimo gadget. La litanìa sulla gioventù appesa al nulla e alle mamme è sempre sulla bocca dei nostri curatori di fallimenti. E sarà pur vero, in qualche caso. Qualche filosofo della letteratura parla di presenza che si propone con l’assenza. E certo assentandosi ci si presentifica, come in amore. Ma forse non è necessario scomodare l’ontologia dell’assenza né lo tzim-tzum (la teologia cabalistica del dio che scompare per manifestarsi). La fuga è un archetipo della giovinezza, una necessità e un’iniziazione di cui molti hanno avvertito il richiamo, chi prima e chi dopo. A cambiare, di fronte alla trasgressione (del confine) è semmai la retorica della recuperazione, per usare un termine un po’ démodé. Ma anche la realtà della fuga, una fuga che si consuma nel mondo della simulazione. Io credo che i ragazzi si sentano alle strette, di tanto in tanto, nella prigione dorata (oggi dorata dal nuovo sussiego genitoriale, la famiglia affettiva e sempreaddosso), nel tessuto compatto della securizzazione. La voglia di lacerare quella materia invisibile, fatta di prevenzione, rischiaramento a colpi di sincerità e di trasparenza, di controllo e sorveglianza, proprio nel tempo della sua massima applicazione, potrebbe essere una risposta all’ansia di scappare. Voglia di esporsi ad un aperto, ad un fuori, ad uno spessore del reale contro il quale urtare nella nudità della propria pelle. Voglia di rinunciare alle dieci telefonate obbligatorie alla famiglia, al rendiconto, al balletto del vogliamoci bene. Peccato che il fuori sia scomparso, nel frattempo. Dove puoi cercare into the wild oggi? Non c’è cargo o treno che parta per paesi lontani e diversi né la compagnia di saltimbanchi nomadi o di fuorilegge di cui sperimentare l’eccesso e la seduzione. Tutto è uguale a tutto, là fuori. Forse è questo il motivo della brevità di queste fughe. Fuori c’è il dentro, e viceversa. Tutto è attenuato, indebolito, comunque sorvegliato. Come fuggire nel paese delle telecamere di servizio, della localizzazione tramite cellulare, dell’uniformazione compiuta e della delazione obbligatoria? Il mondo è una grande famiglia… Ogni sporgenza è stata smussata e fagocitata. Come nel Truman Show anche il fuggitivo contemporaneo corre verso un orizzonte che non c’è, a rischio di trovare la porta che lo farà cadere nel puro vuoto. Ma ben pochi arrivano fino a lì, a schiudere l’asola che si apre sopra l’oltre o, talvolta, l’inferno. Per spingersi fino a lì, occorre non solo il senso dell’avventura ma una disperazione insostenibile che il calore simulato del sistema di protezione e di manipolazione famiglia-scuola-consumo non permette che si manifesti davvero. Le fughe si arrestano prima, picchiando contro il muro di gomma delle infinite equivalenze, di un altrove dato per disperso, definitivamente. In barba a chi si beffava di Marcuse, oggi il mondo ad una dimensione è una realtà assoluta. Chi fugge sa cosa trova: il medesimo. Certo a volte una lacerazione nelle maglie compatte della recuperazione aprono a qualche abisso o a qualche inspiegabile ulteriorità: è il caso di quelli che non tornano più. Forse preda dell’orco, il sottosuolo “reale” dell’orrore e della sopraffazione. Oppure finalmente in viaggio verso il non dove, il luogo utopico di un’altra vita (im)possibile. Ma il più delle volte la fuga è un giro su se stessi, un turno sulla giostra del sempre eguale ed è un giro breve perché comunque il cane da guardia è molto più attrezzato di un tempo. E spesso alloggia dentro, inoculato dall’educastrazione. I giovani desiderano evadere, toccare il corpo del mondo, godere il loro ike notturno nei boschi ma impattano nel grigio compatto della cementificazione cui tutti siamo sottoposti, la cementificazione dei sogni e del futuro. E dove non cattura la polizia, c’è la psicoterapia pronta ad accoglierci nell’ultima simulazione. E’ l’anello di Moebius, ti sembrava due ma è uno, sempre lo stesso, che abbia il volto del genitore o del maestro, del prete, del poliziotto o del terapeuta. Non ci si allarmi troppo dunque. I ragazzi non si rassegnano, è vero, perlomeno alcuni tra essi, ma i loro sensori sono veloci e presto, per forza di cose, rieccoli a casa.

giovedì 24 gennaio 2013

Successi facili e scuola impotente


Sembra che stupisca (cfr. Mila Specola nel suo blog “La ricreazione non aspetta” del 7 gennaio) il ragazzino che chiede alla professoressa che senso ha studiare quando i titoli si possono comprare e il successo arride ai corrotti… (con riferimento al caso Belsito e ad altri simili narrati dalla cronaca recente). Questo è quanto appare sulla scena delle scuole italiche. Fenomeno più acuto certo ma probabilmente stabilmente consolidatosi, almeno dai tempi in cui calciatori e veline la facevano dai padroni nell’immaginario dei più giovani. Come modelli da imitare (e non è cosa di oggi). Questione che interroga sul divario tra immaginario diffuso e il possibile immaginario che la scuola dovrebbe proiettare attraverso l’orizzonte inesauribile della cultura ma che purtroppo la scuola stessa non sembra essere in grado di rendere competitivo. Questione complicata, e spinosa. Lo sappiamo: i ruoli che solitamente appaiono appropriati a chi studia diligentemente, dal filosofo all’avvocato, dall’insegnante allo scienziato, sono piuttosto in disarmo, da tempo. Realisticamente, il successo “facile”, se di facilità si può parlare, di chi sceglie altre strade o scorciatoie, appare obiettivamente più appetibile. Qui tuttavia bisogna stare molto attenti a distinguere, a non sottovalutare nulla ma neppure soffermarsi con lo stesso accento su argomenti e casi che sono spesso molto diversi. La questione è: si tratta di autentici esempi di successo? E poi, che significa il successo? E cosa è un successo comprato? Consideriamo l’esempio di calciatori e veline, o tronisti e modelle. Sono immagini luccicanti ma dietro le quali si accalcano molte ombre. Forse che essere un calciatore di successo è una cosa facile, come in tutte le discipline di sport professionistico? In realtà si tratta di un numero estremamente esiguo di soggetti, quelli che arrivano ad un autentico “successo”, che pagano in moneta sonante la loro fama, con anni e anni di sacrificio assoluto, di totale dipendenza da un sistema che letteralmente dispone delle loro vite e che poi, fin troppo spesso, li abbandona alla deriva, quando appaiono troppo vecchi (sui 35 anni) o malandati per poter continuare. Spesso senza molte altre serie prospettive di futuro. Le veline (o i tronisti) sono esempi diversi, di carriere apparentemente facili ma anch’esse segnate dal sacrificio non irrisorio di avere venduto la propria faccia, il proprio corpo, la propria intimità. Analogamente a molti sportivi professionisti, per un piatto di lenticchie che spesso dura assai poco e che finisce prima di quanto non si creda: in assenza di una professionalità solida, esso si spegne talora nella depressione e in una vita da ricostruire da zero. Per non parlare poi della disciplina durissima cui si devono sottoporre, come anche le modelle, per essere competitive in una gara che ne lascia moltissime sulla strada e che vede anche quelle che riescono ad ottenere il successo, alla mercé di padroni e di produttori di pochissimi scrupoli, cui debbono spesso pagare il proprio protagonismo in forme non sempre castigate. Diversamente, i Belsito, i Fiorito e tutta la compagnia dei politici che “arrivano” in virtù di mazzette, di raccomandazioni, sono esempi più difficili da smontare. Ma anche qui occorre guardare il fenomeno con un occhio più smaliziato: questi individui, per accedere al loro presunto “successo” o potere, devono prima subire infinite vessazioni, devono inchinarsi - anzi inginocchiarsi - davanti a figure che non si peritano certo dall’esercitare massicciamente la pratica dell’umiliazione. Devono far la fila, devono saper essere infinitamente ipocriti (e non è sempre così facile), devono vendere continuamente fumo (e anche questa non è un’abilità da tutti). Insomma, anche per la corruzione è necessario uno specifico talento. Ma soprattutto, quello che va evidenziato e che è davvero insostenibile, è ciò che questi personaggi diventano effettivamente. Cosa diventa la loro vita. Perché il prezzo da pagare a queste ipotetiche “fortune” è che si tratta di successi che tutti quelli che vivono in quell’ambiente sanno bene da dove vengono. Successi falsi, il cui costo si percepisce nelle espressioni di chi li circonda, devoti davanti e irridenti dietro. Dal fatto che la fiducia nei loro confronti sarà sempre solo un fenomeno di facciata. Che vivono circondati dall’invidia e dal feroce desiderio di vederli annegare al più presto. Che sanno fin troppo bene che chi si avvicina a loro lo fa solo per il fatto che dispongono di un potere che oggi c’è ma domani potrebbe scomparire. E tuttavia, il vero dubbio che sorge, immaginando lo scenario delle classi dove i nostri ragazzi confusi e disorientati si affacciano al mondo del sapere e della vita, è un altro. Siamo sicuri che queste domande, queste questioni non sorgano anche e soprattutto perché lì, in quelle aule, in quelle classi, non si riesce in nessun modo a restituire lo splendore senza pari che la cultura, la grande meravigliosa cultura di cui potremmo essere tutti devoti e appassionati discepoli, irradia? Non è che il fascino di Belsito o dei suoi modelli sia forse anche effetto del fatto che qualunque cosa, persino la miseria così evidente di questi personaggi, appare migliore che dover patire giorni e giorni di tedio in aule plumbee, a sorbire riduzioni e liofilizzati solo lontanamente imparentati con la bellezza raffinatissima di una cultura tra la più ricche del mondo? Il problema non sta forse a monte? Nell’inadeguatezza della scuola, e forse di un’ intera società, di condurre davvero alla cultura, unica autentica modalità per perfezionare la propria vita prima ancora di qualunque successo professionale, unica via per poterla anche solo vivere veramente, al meglio, riuscendo a percepire l’infinita e inesauribile trama di corrispondenze, di analogie, di pieghe e di sfumature che la rendono degna di essere vissuta?

sabato 12 gennaio 2013

Illusioni e utopie intorno al telelavoro


Morozov, in un suo pezzo sull’inserto domenicale del Corriere, ci ha reso edotti sulle sorti ultime del telelavoro. Questo osservatore che già ci ha compiaciuto con le sue moralistiche analisi di facebook, ora ci propone una sua lettura del magro destino delle utopie hi-tech. In sintesi, secondo la sua ricerca, il telelavoro non produce né benessere né aumentata produttività, né irenici scenari di integrazione dell’esperienza umana. Ad onta delle più rosee profezie emancipatorie, il telelavoro non va. Questa è la sconsolata considerazione di Morozov, che non appare tuttavia aver militato tra i profeti della causa, almeno dai toni. E tuttavia aver anche solo potuto pensare che il telelavoro potesse essere una soluzione raccomandabile allo sfruttamento e all’alienazione appare un po’ ingenuo. Nessuna utopia può verificarsi dove regna la parola lavoro, tele o meno che sia. Il lavoro è in sé e per sé, a meno che non sia opera di pura creatività individuale (ma oggi nemmeno più quello e comunque in tal caso si chiama arte), una delle forme attraverso cui patiamo l’alienazione nel nostro mondo. Sarebbe curioso che il fatto di portarselo a casa trasformasse improvvisamente le cose. Piuttosto probabilmente rischierebbe di trasformare la casa. In che cosa? In un’azienda. Ecco allora che non stupisce che ci si sfrutti da sé, in casa, come sottolinea il nostro a proposito dei risultati di alcune ricerche svolte sul “campo” domestico. Inoltre lavorare a casa, lavorare insisto, sarebbe un regalo a uno degli obiettivi che da sempre gli "imprenditori" perseguono: parcellizzare il lavoro, isolare i lavoratori, inscrivere la norma dentro la loro anima, opera su cui i fautori della qualità totale si sono infaticabilmente adoprati per altre vie. Se le imprese si sono sempre avvalse, e continuano a farlo, di competenze distribuite nelle famiglie (si pensi a quanto mercato fa profitti su lavoro eseguito a livello domestico o in magazzini e sottoscala, senza diritti e in pura legge di sfruttamento), è anche per evitare che i lavoratori si potessero confrontare e organizzare (oltre che per sommergere quelle parti di lavoro che, una volta emerse, avrebbero gravato significativamente sui costi). La parcellizzazione ad alto tasso professionale non riesce a mascherare il suo profilo da alienazione atomizzata e diffusa, seppure magari dorata e obesa. Senza contare che chi lavora nel nostro contesto industriale non può non avere introiettato la norma del lavoro contemporaneo, che è la produttività massimizzata. Lavorare sotto la pressione di una produttività di tal specie non può che snaturare qualsiasi utopia di lavoro liberato e felicemente traslocato tra le pareti domestiche. L’utopia sta ben altrove dal telelavoro. Fa bene Morozov a sottolineare che le tecnologie non vanno certo nella direzione della liberazione e della conciliazione tra vita e lavoro. Questo lo dice in toni un po’ più brillanti e radicali per esempio anche Philippe Godard: “una macchina non ha altra funzione se non lavorare sempre, ininterrottamente, come un rullo compressore. Come un rullo oppressore”. La liberazione del lavoro, quella onestamente radicale, se non utopica, nel miglior senso del termine (quello di Fourier, per quanto mi riguarda), si chiama liberazione dal lavoro, all’indirizzo di una vita semplicemente più umana, più incline a sintonizzarsi sui ritmi della natura (ahi, snaturata natura naturata), più intermittente, capace di inscrivere al suo interno soste, vuoti, momenti di puro dispendio. Contrassegnata da nuove forme di operatività. Operatività per definire la quale il termine lavoro sarebbe finalmente improprio e sconveniente. Un’operatività capace di rallentare, di dilatare, di intensificare l’esperienza di vite, le nostre, quelle di tutti noi, che, lavorando a casa o in azienda o in qualsiasi altro posto, restano ahinoi orribilmente deprivate.

martedì 8 gennaio 2013

Noi mostri e la torsione imprescindibile


Siamo nell’epoca del mostruoso, come l’ha ben definita Peter Sloterdijk, nel suo testo Saggio d’intossicazione volontaria, appoggiandosi, come spesso fa, al linguaggio heideggeriano: “essenzialmente, i tempi moderni sono l’epoca in cui si abbandona la dimora dell’Essere. E’ l’ora del crimine del mostruoso”. “La mostruosità creata dall’uomo dei tempi moderni ha tre volti, tre campi fenomenici: essi si presentano come il mostruoso nello spazio creato dall’uomo, come il mostruoso nel tempo creato dall’uomo e come il mostruoso nella cosa creata dall’uomo”. L’hybris dell’uomo moderno è quella della sperimentazione di massa, della sperimentazione senza limite, che lo espone all’imperativo terribile dell’ “innovazione permanente”. In questo quadro i media assolvono la funzione di tramandare sotto forma di finzione i temi eterni più innocui che si ripetono (nelle sue fiction) ma che di fatto servono solo a eufemizzare l’impatto con la sfida costantemente aperta per l’individuo contemporaneo di forgiare prometeicamente la propria vita ogni giorno di nuovo, inchiodato come Sisifo ad un compito fondamentalmente forsennato e irrealizzabile. E per lo più destinato allo scacco. E’ il volto del nostro mondo a sbigottire: esso è la più patente rappresentazione del mostruoso. Mostruosi sono i segni sul paesaggio: solo una creatura dalla potenza titanica può infierire su e torturare a tal punto il suo habitat, il suo oikos. Il tempo è devastato dai meccanismi brutali del suo calcolo, della sua misurazione, della sua costrizione. Il tempo è costantemente sotto sequestro, nell’epoca contemporanea. E questa è la più autentica catastrofe della nostra epoca. Un tempo di morte, un tempo messo costantemente al lavoro, in produzione. L’epoca del nichilismo compiuto è l’era della totale sincronizzazione, dell’attualizzazione per cui non esiste più alcuna sporgenza nel tempo. Tutto accade sincronicamente, nulla può più accadere in un altro tempo o fuori dal tempo. Infine la modernità è l’epoca del trionfo dell’artificializzazione, come trionfo della cosa svuotata di interiorità, di anima. La tecnica vi si rivela, per usare ancora le parole di Sloterdijk, come “conquista progressiva del niente”. “Nel niente, non vi è più nulla da riconoscere, ma tutto da compiere”. Fine della risonanza simbolica dell’agire, appiattimento sull’azione come “impresa”. Ancora: “la natura e l’Essere hanno perduto il loro monopolio ontologico: si sono visti provocati e rimpiazzati da una serie di creazioni artificiali uscite dal nulla e dall’emergenza di un mondo post-naturale uscito dalla volontà”. Siamo dunque dei mostri, mostri sempre affaccendati, multitasking, senza tempo e sotto un cielo vuoto, abitanti di una terra depredata e desertificata, sempre a caccia di un qualunque tappo per frenare l’abisso che ci si spalanca intorno. Ci riempiamo la giornata di impegni per dimenticarci di tutto ciò che ci frana intorno. Siamo mostri: automi sogghignanti e distratti, sempre con il sorriso sulle labbra e implacabilmente mai concentrati su niente, neppure durante le sedute di yoga, perché nella posizione del cane con la testa in giù già stiamo pensando al tweet da inviare quanto prima o alle telefonate da fare. Senza sonno e senza pause, viviamo accerchiati da dispositivi che crediamo di usare e che sappiamo benissimo che ci usano. E il nostro esserne usati è una resa in cambio di uno straccio inzuppato di aceto con cui tamponare il nostro ordinario dissanguamento. L’ horror vacui è la sindrome dell’epoca, e ciò è stato da molto tempo più e più volte sottolineato , senza che però ciò desse luogo ad alcuna inversione di tendenza. Siamo tutti affetti da quel “disturbo dell’attenzione e iperattività” con cui crediamo di poter etichettare i nostri bambini spaesati e piombati in un mondo che non ha spazio né tempo per loro né men che mai per la loro inconfondibile “estraneità”. Siamo affamati di tutto ciò che possa esorcizzare i terribili fantasmi della malattia e della morte che danzano forsennatamente intorno a noi e alle nostre città. Eppure. Eppure bisogna prestare fede nell’imprevedibile, nella smagliatura, nella torsione improvvisa. Per chi, come me, crede nella versione antidialettica della storia di Walter Benjamin, non certo proiettata in un processo progressivo bensì fatta di risucchi, di improvvisi attriti, di sbandate e di reversioni inattese, il credere nell’impossibile è giocoforza. E l’impossibile si accende di fioche luci nell’oscurità più fitta sussurrando la preghiera di un nuovo incantamento (le “lucciole” di cui ci parla Didi-Huberman riesumando Pasolini). Come pochi eretici continuano a voler credere, da Stiegler a Ritzer a Maffesoli, parole come reincantamento oppure parole che altri, come René Schérer o Raoul Vaneigem, non vogliono considerare inservibili, come utopia, debbono essere pronunciate. Proprio nell’epoca in cui il pragmatismo, i nuovi sintomatici realismi, il pensiero vuoto e strumentale spadroneggiano ovunque. Proprio nel tempo della massima, estrema povertà. L’utopia riemerge come potente perno di riorientamento in un mondo che ha totalmente perso la bussola nei confronti del desiderio, dell’armonia tra forme di vita, rispetto ad ogni sua possibile destinazione che non sia all’insegna dell’entropia e della distruzione. Occorre favorire una “controeducazione” nutrita dall’immaginazione simbolica che non muore, da una rivitalizzazione del sapere come riconnessione con il reticolo delle corrispondenze lacerate e sommerse dall’impeto distruttore di una ragione puramente pragmatica. Quel reticolo di analogie che trama il reale come organismo vivente e sensibile. Assumere parole d’ordine come quelle di “ascolto poetico della natura” di Prigogine, oppure come il “riorientamento simbolico” di Stiegler o ancora persino, per alcuni tratti come le “omeotecniche dello spirito” di Sloterdijk da intendersi come “arti della transizione”, ma soprattutto l’ “atto erotico” del “divenire selvaggi” di Hakim Bey, è uno dei modi “impossibili” per mantenersi sensibili ai segnali in controtendenza di un universo saturo di orrore, di nausea per la bruttezza e la devastazione che avanza, per i disequilibri sempre più insopportabili, per il malessere che ogni organismo ancora minimamente senziente non può non avvertire mentre tutto precipita verso il suo autodafé.

sabato 29 dicembre 2012

La "rivoluzione digitale" a scuola?


I nuovi profeti della informatizzazione integrale stanno conducendo da tempo e con forze sempre più agguerrite la loro campagna di conquista della scuola. Come dargli torto? Posto che un giorno ciò possa avvenire, si tratta di un territorio che può fruttare dividendi enormi per chi si dovesse accaparrare la commessa di LIM e tablet su scala nazionale… Per carità, lungi da me l’idea di voler maleficare questi strumenti straordinari: si tratta di giocattoli assai affascinanti e che hanno indubbiamente il merito di svecchiare procedure didattiche logore e di introdurre il medium visivo in un ambiente che ne è rimasto fin troppo digiuno. La questione è più radicale però. I nuovi teoreti della digitalizzazione scolastica ammantano le loro proposte con una retorica ben nota, in ambito educativo, che fa riferimento alla didattica della ricerca, al learning by doing, all’apprendimento cooperativo (cfr. Ferri – Moriggi, su Agenda digitale, dicembre 2012). Tutte bellissime cose, anche se un po’ datate per la verità, la ricerca in classe si faceva già negli anni ’60, seppure certo con strumentazioni meno sofisticate… e per quanto riguarda il learning by doing, è uno degli slogan più declamati e però poi scarsamente realizzati, nella sua intima complessità, dell’intera storia del pensiero pedagogico. Ma diamo atto a questi riformatori delle loro buone intenzioni. E tuttavia occorre rimarcare il ruolo della scuola, cui, a mio giudizio, ben oltre ogni considerazione economica o didattica, occorre guardare. Al possibile ruolo della scuola, purtroppo raramente incarnato, e specie in questo frangente storico. Acuti osservatori della nostra contemporaneità hanno messo in rilievo, come Bernard Stiegler, tra gli altri, che stiamo vivendo, a causa della “captazione dell’attenzione” generata proprio dalla congerie di dispositivi elettronici e audio visuali da cui siamo circondati, un progressivo “immiserimento simbolico”. Che, cioè, il nostro essere immessi continuamente in un flusso di messaggi, informazioni, immagini non-stop, grazie appunto alla molteplicità di terminali cui siamo connessi, sta di fatto rendendo impossibile pensare e formulare pensieri con un linguaggio che risulti da una riflessione e non da una semplice reazione a ciò cui siamo continuamente esposti. Non diversamente, Yves Citton, pone fortemente in guardia da una “società della conoscenza” che non rende possibile l’esercizio di quella facoltà tipicamente umana che ci consente di interrogare e porre dei dubbi su ciò che ci assedia con questa continua stimolazione, cui rispondiamo ormai con la stessa rapidità di un circuito galvanico. Citton rivendica giustamente, nel suo bel libro Future umanità, la necessità di momenti di vuoto, di sospensione della risposta rapida, per potervi inscrivere l’atto riflessivo per eccellenza, riflessivo e inventivo ma anche interrogativo, l’interpretazione, che è al cuore di tutti i sapere umani non asserviti alla macchina del fare. Per essere più esplicito e per usare qualche metafora, siamo sempre con la spina attaccata. A scuola sarebbe bene staccarla questa spina per avere il tempo di osservare come funzionano i dispositivi che da quella spina sono alimentati. A scuola si dovrebbe smontare la tecnologia, guardarci dentro, interrogarne le motivazioni, il funzionamento, l’immaginario, l’ideologia. Non si dovrebbe permettere a ciò che già ci influenza già continuamente e ovunque, di spadroneggiare e colonizzare anche quegli spazi e quei tempi. La scuola deve funzionare un po’ come una chiusa nei confronti del flusso di questo ramificatissimo sistema di canali nei quali scorriamo a velocità sempre più vertiginose. Una chiusa dove aprire un tempo della domanda, dell’interpretazione. Ciò spiega perché a scuola occorre spegnere i cellulari. Non solo e non tanto perché distraggono e disturbano, ma soprattutto perché mantengono costantemente connessi a ciò da cui bisogna separarsi per poterlo pensare, per poterlo decostruire, per poterlo interrogare. Tra l’altro, per venire ad un altro degli slogan dei nostri ideologi, quello dello studente-ricercatore, i ragazzi sono già degli abilissimi ricercatori in rete, e lo dimostra la produzione di lavori scritti e di tesi sempre più frutto di un abile lavoro di taglia e cuci da ciò che si trova ampiamente grazie a internet. Non è di questo che hanno bisogno, ritengo. Certo, se il problema è svecchiare una didattica spesso davvero consunta, la cosiddetta didattica frontale e i suoi nozionismi, sono perfettamente d’accordo (per quanto anche qui con cautela, perché la capacità di ascolto è qualcosa che va anche esercitato, magari anche attraverso l’interpunzione audio-visuale). E tuttavia la scuola non può, per mantenersi al passo con i tempi, diventare un’altra sede di un fare tutto schiacciato sulla velocità dei flussi di informazione della rete. Occorre rallentare, smagliare, aprire dei vuoti, altro che rincorrere le velocità siderali della banda larga. E infine una considerazione che sempre più ha l’aria di un grido nel deserto. I nostri sostenitori della scuola digitalizzata non fanno certo mistero di avere in mente un’idea di scuola del tutto cognitiva, centrata sugli allievi come esseri portatori di cervello e sprovvisti di corpo. Non è una novità. Quando mai i corpi dei ragazzi sono davvero entrati nella scuola? Questo mancato riconoscimento è uno dei delitti capitali della scuola e sarà sempre troppo tardi accorgersi che il coinvolgimento del corpo, delle emozioni, dell’espressività, della creatività è fondamentale per generare autentico apprendimento. Ecco allora che alla scuola digitalizzata vorrei ancora una volta contrapporre, oltre ad una scuola interpretante e critica, oltre ad una scuola che sappia mettere le distanze tra sé e le richieste del mercato digitale, una scuola (che ancora mai si è data, per parlarci chiaro, almeno in maniera diffusa) in cui si restituisca, specie in quell’età in cui ciò è oggettivamente cruciale, al corpo, all’espressività, alla creatività, attraverso teatro, danza, musica, arte, il ruolo centrale che meritano ( e che meritano i bambini e i ragazzi interi, vivi e ricchi di potenzialità inespresse).

venerdì 14 dicembre 2012

Viva la controeducazione (agli adepti di Faunalia e oltre) !


La controeducazione, contrapposta alla triste scienza dell’ortopedia e dell’ingessatura, della mummificazione del cucciolo d’uomo e delle sue ulteriori figure sull’altare del conformismo e della passivizzazione, dell’ascetismo e della rinuncia, dell’immolazione al sacrificio, alla fatica, alla crocifissione e all’inginocchiamento, reali o metaforici, contrappone l’esaltazione affermativa dell’immaginazione, delle emozioni, del corpo e del piacere. Al primato di uno spirito irreparabilmente consegnato alla graticola delle restrizioni e al cilicio delle privazioni, il primato gaudente della sfrenatezza, dell’anima incarnata e ardente, impegnata nell’avventura delle molteplici posizioni d’essere e nel gioco interminabile della dissipazione. Curiosa di tutto, avida e inestinguibile, l’anima corporea della controeducazione, spinge a demolire le insegne imputridite e le stigmate di una formazione maligna che da sempre sequestra i corpi, le passioni, i sogni, per condannarli, reprimerli, punirli. A noi il divenire-danza, festa, sperpero contro la parsimonia ipocrita delle caste di conoscenza, a noi la generosa vendemmia di un sapere di tutti e di nessuno, così aperto da far deragliare ogni pretesa di dominio, così denso da risucchiare ogni proposito di analizzarlo, così intenso da respingere ogni tentativo di indebolirlo con le armi della falsa dialettica. Controeducatori di ogni contrada mondana, lasciatevi rapire dai cembali impazziti del corteo dionisiaco, dal richiamo delle fachiresse fourieriste, dalla materia leggendaria delle carni barocche e rubensiane , dalla fame di Pantagruele, dal riso di Zarathustra, dalle zone di temporanea eruzione vitale di Hakim Bey, dall’orgasmo interminabile dei fautori irreprimibili di un piacere non viziato dai ricatti del padre e della legge della mancanza. La controeducazione sarà precisamente la guida fausta e elettiva per chi ancora crede che al fare e al produrre vada anteposta l’esigenza ineludibile del dire di sì alla grassa materia della vita. Certo, appena oggi ci si permette di inneggiare al piacere e allo spirito festivo, subito si viene punzecchiati dalla fanfara grigia di chi vi vede l’imposizione del potere, il finto piacere della merce consumabile e dei soggetti manipolati e inchiodati al godimento obbligatorio. Ma dietro l’invettiva contro il piacere si annida sempre una teologia, un’idea di fondamento nella mancanza, l’impossibilità ad essere, insomma la tirannide feroce che da sempre vede l’uomo votato al naufragio. L’elogio della festa è però tutt’altro dal gravitare nelle acque melliflue del finto neopaganismo dell’epoca, è lo spirito insurrezionale che pretende di vedere il piacere posto al centro dell’essere, come motore primo, dinamico e fecondo, quello per cui si fa e si cerca anzitutto per passione ed è la passione l’unico vero oggetto perduto da sempre. Ispirandosi a quei pochi ma fermi maestri che ci invitano alla penetrazione del meraviglioso in ogni atto del vivere, che vogliono davvero sbarazzarsi dell’odioso tributo alle moraline del risentimento, da Charles Fourier a Hakim Bey, da Aristippo a René Schérer, cercare il piacere non è cedere all’incesto con gli imperativi dell’epoca barbara, semmai è redimere il pantheon degli dei delle passioni tristi per affiliarsi a quelli che da sempre affermano il diritto di esserci qui e ora, che conoscono il periplo di ogni alchimia riuscita, e cioè che alla fine della trasmutazione si entra nel ciclo della moltiplicazione. La moltiplicazione delle passioni, la loro soddisfazione, tutt’altro che impossibile, sono il vettore opulento della controeducazione, in rotta di collisione con tutti i vocati all’elogio della miseria, della rinuncia, dell’autocommiserazione.