la gaia educazione

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martedì 10 luglio 2012

La "Legge della parola" lacaniana e la scuola


Faccio riferimento a un articolo (che vale però come paradigma di tutta una serie di interventi analoghi) di Massimo Recalcati sul Corriere del 2 giugno scorso, intitolato “Elogio della classe media, Così la scuola dell’obbligo fa scoprire il mondo”. Qui lo psicoanalista lacaniano, ormai noto per aver tributato tutti gli onori possibili alla funzione della Lex (dura sed lex) come ostetrica del desiderio, ha dato davvero il meglio di sé. E rivela definitivamente quell’ottica ormai imprevedibilmente conformativa cui il suo pensiero, come quello di diversi altri lacaniani, è ormai incline a votarsi. In breve, dopo essersi apotropaicamente lamentato della scuola autoritaria e disciplinare che lui ha frequentato ai suoi tempi (anni ’60), traumatizzandolo con una bocciatura, e della giusta rottura con essa determinatasi nel ’68, inizia la consueta e ormai ben nota litanìa intorno agli errori/orrori della contestazione (aver respinto in blocco la scuola invece di riconoscerne la funzione “formativa” di limite e contenitore, di iniziazione e di mescolamento sociale, (come se non esistessero altre forme possibili di iniziazione e mescolamento) e soprattutto intorno ad una generazione di giovani, quella attuale, soffocata e devastata dal mesto succedersi di ingiunzione al consumo - godimento- mortificazione del desiderio e quindi dal destino fatale e disumanizzante dell’ “iperedonismo”, parola sua. Al contrario, grazie all’obbligo scolastico, si accede, secondo Recalcati, alla statura di un desiderio autentico, attivo, padrone della parola che sola può consentire di raggiungere la “realizzazione” dei propri oggetti. Qualche gemma da questo impareggiabile articolo: “L’obbligo della scolarizzazione impone un trauma benefico e necessario. Questo trauma è innanzitutto il trauma della de-maternalizzazione della lingua”. Già questo passaggio sarebbe degno di una protratta analisi. Fa il paio con quanto psicologi di cotal schiatta sostenevano tempo fa a proposito del beneficio procurato dal servizio militare, prima di tutto in quanto permetteva a giovani che appartenessero a culture locali di svezzarsi conoscendo la differenza delle altre culture. Ma soprattutto, lì come qui, sottolineando il valore potentemente iniziatico di quella tortura: l’iniziazione era garantita proprio dal fatto che essa si svolgesse nella durezza della caserma, autentico luogo educativo segnato dal codice affettivo “paterno” (se si fosse svolto in un soggiorno interculturale, per dirne una, sicuramente sarebbe stato già troppo “maternalizzato”…). Recalcati, come sappiamo e non si stanca mai di ripetere, è uno psicoanalista lacaniano, quindi per lui è la Legge della parola, non a caso scritta con la maiuscola, la Legge proprio, quella divina, quella del Padre, del “Nome-del Padre” tutto maiuscolo, il significante della separazione dal godimento incestuoso con la madre, è quella Legge della parola quella che permette di accedere al desiderio “proprio”, e di non recitare quello invece inoculato dalla diade acefala madre-bambino. Dunque non basta frequentare qualsiasi altra parola, deve proprio essere una parola dura, quella dell’obbligo, quella dell’insensatezza sublime (e sublimante) di un luogo come quello scolastico, a determinare l’iniziazione autentica. E infatti la scuola deve produrre il vuoto, non proprio un vuoto zen ma il vuoto della “sconnessione” dall’adesione all’oggetto prodotta invece dall’ingiunzione (materna) al godimento fine a sé stesso. Ma sentiamo le parole melodiose di Recalcati: “La resistenza della Scuola (-anche qui scritto con la maiuscola, è sempre la maiuscola del Nome-del Padre (ndr)-) consiste oggi nel sostenere il valore traumatico della Legge della parola, in un’epoca dove il solo obbligo che sembra esistere è quello per il godimento fine a sé stesso”. Esemplare, incontrovertibile. E ancora: “L’obbligo della Scuola è benefico perché si sostiene su una promessa di fondo. E’ la promessa che esiste un godimento più forte, più potente, più grande di quello promesso dal consumo immediato e dalla dipendenza dall’oggetto. Questo altro godimento si può raggiungere solo per la via della parola: è godimento della lettura, della scrittura, della cultura, dell’azione collettiva, del lavoro, dell’amore, dell’erotismo, dell’incontro”. Senza questa legge, c’è solo la disumanizzazione. Disumanizzazione che, a giudizio dell’autore (come di altri che oggi impazzano nella grande stampa, da Perniola a Magrelli e compagnia cantando), è peraltro stata promossa dal ’68 e, per non far mancare nulla alle prese di distanza dalle rivolte “puberali”, come le definisce ineffabilmente, anche dalle contestazioni del 77. (Qui si aprirebbe una lunga questione che riguarda più in generale le categorie economiche che presiedono alle trasformazioni dei comportamenti individuali e che Recalcati, come la maggior parte degli psicoanalisti, si rifiuta di assumere, preferendo di gran lunga sostenere che i destini sono plasmati dalle disavventure affettive. Su questo, che richiederebbe un approfondimento notevole, soprassiedo qui, rilevando tuttavia che sia nel ’68 che nel ’77, la considerazione delle variabili economiche e materiali era ben presente…) Con gli psicoanalisti ci si imbatte, a prenderla sul serio, con una logica davvero stringente. Da una parte il godimento incestuoso, per di più prescritto dal mondo cattivo del mercato (matri-arcato in verità), con le sue lusinghe per la tecnologia dissipativa, per le droghe, per l’autodistruzione. Da una parte insomma, per restare nelle metafore psicoanalitiche, perseverare diabolicamente a godere nel letto con la mamma. Dall’altra il pieno dispiegamento del proprio potenziale, in virtù dell’assunzione plenaria dell’atto di parola, di un desiderio proprio che apre scenari emancipatori in vista della realizzazione di sé, dalla parte del padre (per quanto “evaporato”, come si sa, e rinvenibile solo simbolicamente negli “obblighi”). In mezzo? Un piccolo trauma, il trauma sacrosanto, benefico e addirittura “resistenziale” (come abbiamo sentito) della scuola. C’è di che restare sbalorditi. Davvero l’obbligo fa questo, l’obbligo scolastico, anche quello della scuola media? Accidenti, eppure non è che sia stato tolto. E’ stato forse tolto di mezzo? E’ stato forse posto in discussione recentemente? Se è successo, mi è sfuggito. Come mai tuttavia, in piena presenza e operatività di questo sacrosanto obbligo, la legge del godimento coatto impera e travolge i destini di tutti coloro, generazione di Recalcati compresa, che pur vi sono inesorabilmente incappati? Noi tutti ci siam passati. I bambini e gli adolescenti di oggi ci continuano a passare. Eppure non paiono meno travolti, posto che ciò sia vero, dal godimento prescrittivo e obbligatorio. Come mai? Forse che non basta l’obbligo ma occorre anche la frusta, oppure magari i ceci sotto le ginocchia, forse c’è un’inadempienza nel dispositivo, nella efficacia dell’azione scolastica se, nonostante l’obbligo, tanti ragazzi piombano nelle droghe, nel feticismo tecnologico o, peggio, in quello che alcuni sociologi chiamano i fenomeni di hotaku e hikikimori (dipendenza assoluta da consumi virtuali e simili fenomeni di pura dissipazione maternalistica…)? Tra i pochi a non aver conosciuto l’obbligo scolastico ci sono per contro i nostri nonni, quelli cui di solito ci si riferisce proprio per esemplificare una generazione che certo non confidava nella lusinga del godimento coatto, essendo invece sottoposti, da sempre, all’autoritarismo ovunque, a cominciare proprio dalla famiglia. Loro non godevano mai in effetti. Forse perché non arrivavano mai alla Legge della parola? Oppure perché ci arrivavano troppo presto? Si può ricamare a lungo sulla paradossalità di questa polemica in absentia, in assenza cioè del suo referente polemico. In effetti, già è difficile seguire autorevoli psicoanalisti quando se la prendono con le famiglie “affettive”, che sembrano essere le grandi responsabili della produzione di ragazzi vulnerabili, narcisisti, avviticchiati alla legge del tutto e subito. Ma arrivare a scorgere nell’obbligo scolastico il potente antisettico dell’iperedonismo mi pare davvero sconcertante. Specie per il fatto che non appare, a tutti gli effetti, così. L’obbligo c’è, eppure l’iperedonismo impazza, almeno a leggere le cronache sociologiche e giornalistiche. E dunque? Sia chiaro. Si può concordare, seppure con un gergo forse un filo meno ristretto (padri e madri, per quanto sontuosamente ricamati dalla retorica lacaniana, appaiono riferimenti simbolici un po’ ristretti per rendere conto di ciò che è il tessuto sociale, da sempre ma tanto più da quando la vita psichica è plasmata prepotentemente da una pluralità polimorfa di mezzi di comunicazione-formazione assolutamente pervasivi), sull’idea che aderire passivamente e beatamente agli oggetti di consumo indefinitamente produca qualche danno. Si può anche concordare, anzi concordo pienamente, con l’idea che l’accesso alla cultura, qualcosa di più complesso, per quanto mi riguarda, dell’unilaterale evocazione della Legge della parola, per quanto assunta in tutta la sua ingombrante genealogia mistico-filosofica (e sempre evidentemente sul punto di rivelarsi la parola della Legge), sia un passo che articola nel senso della ricchezza e della profondità la vita di chiunque. Ma trovo imbarazzante, ingiusto, clamorosamente ideologico che una diagnosi così schematica e supponente del mondo scolastico diventi moneta comune nel dibattito contemporaneo sull’educazione (plaudita, manco a dirlo, tanto a destra quanto a manca). Come spesso accade, gli psicoanalisti, e non solo Recalcati, hanno un’idea del tutto simbolica della scuola, non si rendono conto di quanto miserabile, antiquata, del tutto disfunzionale sia quella vecchia istituzione. Quanto il permanere tra quelle mura in funzione di una positiva appropriazione del proprio destino e del proprio desiderio sia una pia illusione (quando non una marchiana mistificazione). L’obbligo scolastico può essere giusto ma diventa davvero giusto solo se quello che accade nella scuola ha veramente un senso, non se è un puro essere deportati dentro a contenitori che mortificano le menti, i cuori e i corpi di chi li sopporta per lunghi anni. Ciò che gli psicoanalisti come Recalcati non vogliono vedere, accecati come sono dai loro schematismi clinici, è che non è l’obbligo formale a produrre i risultati che loro invocano, non è semplicemente l’atto della separazione dalle famiglie, ma un’esperienza sensata, ricca, plenaria di educazione, certo a contatto con altri, ma non in contenitori dove il più delle volte si sosta in uno stato di necrosi psicoaffettiva. Che sia un’esperienza, non solo un rito per giunta svuotato di ogni positiva possibilità di immedesimazione da parte di chi lo patisce. Recalcati non è affatto interessato a ciò che accade nella scuola. Non gli dedica neppure una riga di analisi. A lui basta che esista. Che ci sia il luogo scolastico, anzi il suo “obbligo”. Che infatti, non a caso, in maniera del tutto “formale”, deve produrre un vuoto, il vuoto che spenga l’adesione cieca all’oggetto per aprire l’interruttore del desiderio autentico. Ma credo, per confutare una tale presunta verità, che sia sufficiente vedere il risultato. Forse che questo obbligo riesce a produrre davvero quella “Legge della parola” capace di incamminare virtuosamente l’esercito (noi tutti) di coloro che lo subiscono verso un destino luminoso di autentica umanizzazione, bonificata dalla seduzione dei desideri inumani, delle droghe, della tecnologia debosciante, del tutto e subito? (Sempre supposto che questa analisi del godimento forsennato non sia essa stessa un’altra mistificazione. Ma questa è (forse) un’altra storia…)

2 commenti:

  1. Mi sono imbattuto oggi nell'incrocio di due scritti, il tuo, Paolo, e alcuni testi di Recalcati. Le parole che hai utilizzato, sempre stimolanti, mi suonano un po' ingiuste. Riverberano uno scontro di visioni sottostante nemmeno molto velato, quello tra una certa cultura psicoanalitica classica e quella che Recalcati chiama 'cultura Anti-edipica'. Su questo piano di discorso non ho gli strumenti per dir la mia, è complesso e lo sto approfondendo. Eppure mi pare che le mosse sulla scacchiera di questa partita non possano essere, o apparire, appunto, ingiuste. In più luoghi lo psicoanalista ha espresso chiaramente l'opinione che il trauma della scuola non sta nell’obbligatorietà punto, ma nell’obbligatorietà come simbolo formale/sostanziale, come realtà a cui Recalcati chiede ripetutamente di essere vitale, appassionante e non museo o esamificio.
    A titolo di esempio https://groups.google.com/forum/#!topic/deportatimaipiu/wsKrlsVPUDw
    Mi pare mistificante imputargli la richiesta di tornare alla frusta o ai ceci sotto le ginocchia.
    Che poi la scuola non sia l'unico luogo di iniziazione possibile questo è un altro discorso, anche se mi piacerebbe sentirti parlarne più esplicitamente: quali sono gli altri luoghi?
    Che poi il linguaggio di Recalcati sia un po' troppo "ristretto" sul funzionamento famigliare rischiando di suonare familistico, può essere condivisibile.
    Ciao

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  2. Caro Gerardo, non imputo affatto a Recalcati di voler tornare alla frusta ecc.. Dico soltanto che l'obbligo che lui invoca c'è già e, dunque, forse che occorrerebbe anche aggiungere qualcosa d'altro? Non è lui certo a invocare misure aggiuntive. Lui ci tiene a leggere il simbolo dell'obbligo come castrazione. Io mi permetto di dire che il simbolo non giustifica il nulla che la scuola propone ( e comunque mi riferisco a un articolo comparso sul corriere, non all'intera sua opera che non pretendo di conoscere nel dettaglio: tuttavia di un articolo sul corriere occorre rispondere, credo, a pieno titolo). E comunque Recalcati è egli stesso solo uno dei tanti rappresentanti di una nuova funesta onda. Il rappresentante, molto accreditato nel mondo dei media, di un desiderio sempre più esplicito di regole e di norme che dilaga ovunque. E, francamente, consentimelo, è un autore che non credo abbia bisogno di essere difeso. Oggi è un plenipotenziario. Per quanto riguarda poi gli altri luoghi dell'iniziazione, credo di spendermi da abbastanza tempo sulla descrizione di ciò che intendo per controeducazione. Forse dovresti anche leggere i miei libri, oltre ai miei post, caro Gerardo. Lì troverai le risposte. Ciao

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