la gaia educazione

la gaia educazione

sabato 7 luglio 2012

La sedia dura e secca


In fondo il dramma dell’educazione è facilmente riassumibile a partire dall’indigenza e dalla caratteristica fisionomia dei suoi oggetti, delle sue “cose”.
Così è per la sedia piccola, dura e scabra. La seggiolina scolastica, che talora si articola in serie di sedie accostate e variamente collegate. Sedie frequentemente inchiodate o imbullonate ai pavimenti. Sedie nell’allora e nel fu agganciate direttamente al tavolino, al banco come in un simbolico e carcerario strumento di tortura.
La sedia dura e secca, pallida e povera, sottile armatura su cui appoggiano, appena infisse, due listelle di legno miserrimo, una per il culo e l’altra, più sottile, per la schiena.
Oggi sostituite dalla plastica, plastica nera e altrettanto dura, neppur più capace di traspirare e perciò dotata del potere di assudare ancor più prepotentemente natiche e omeri.
La sedia dura e povera, emblema archetipico della scolarità, assurta agli onori dell’arte con la splendida crocifissione cattelaniana del Charlie che non fa il surf (curiosamente come il popolo vietcong nella celeberrima scena di Apocalypse now).
Che cosa ci sussurra questa sedia, cosa esprime di una cultura che nei suoi strumenti di scena non può certo illudersi di non denunciare la sua miseria? Anzitutto proprio questo: la scarna facies di un luogo di miseria, esibita e vantata, come da codice ascetistico si richiede. Strumento di evidente avvilimento della carne, laddove suona più morbida, almeno per i meno indigenti, ma soprattutto scheletrica epifanìa del posto sopra il quale si consuma la quasi totalità dell’esperienza discente nelle nostre scuole. La sedia sta alla scuola come il letto sta all’ospedale e come la brandina sta al carcere. Tutte queste manifestazioni dell’essere non possono che aspirare a dire, per ellissi e per antonomasia, il che, il quid dell’esistenza scolastica. Una dura seduta che si prolunga per un tempo ben oltre il limite della sopportazione, specie per i culi più esangui e martirizzati proprio dal dilungarsi dell’assise. Essa dice e agisce, poiché, come è evidente, promuovendo l’incomodo in modo palese e sensibile, soprattutto, stimola a anestetizzare quel che laggiù sperimenta in modo da favorire il pompaggio di linfe in altre zone. Non più in basso giacchè laggiù nulla è stimolato e tutto deve quindi acquetarsi, certo più in su, in quella parte che, per virtù di appoggiare sopra il consono tronco, non chiede particolare astuzia ortopedica, la testa dunque. La sedia sta alla testa quanto il cilicio sta all’anima. Posare per ore sopra dure e secche sediole, affinchè tutto converga nel cerebro, reso più acre e inassopibile dalla sofferenza patita. Poiché di ciò si tratta: rendere vigile e impedire scivolamenti verso il basso. Ad maiora, ed è facile se il punto di partenza sta tanto in basso. La sedia suddetta officia al temperamento morale del subietto, lo incita ad elevarsi spiritualmente, in virtù delle sevizie che infligge alle regioni inferiori, che immediatamente verificano la loro stolta inservibilità.
La sedia soggioga e esclude il corpo, il cui perno è il culo, e non solo per la centralità, ma per la delicata sensibilità incolta. La testa sta al culo come Hegel sta alla patafisica. E molto così è detto.
Lo studio è pratica tremenda, che offende le parti molli e quelle sensibili alla bellezza, solo celebra il cerebro, il cui compito tuttavia, oltre a incamerare senza passione infinite parole è anche quello di anestetizzare il lombo e la sua filosofia. Ingabbiato alla sedia, o crocifisso al banco, come il Charlie di cui sopra, il discente è pronto alla culculizzazione, che si pratica per la testa, paradossalmente, e non per il culo. Appesi come pappagalli al trespolo, inchiavardati spesso con le membra immobili, gli scolari apprendono che il corpo è condannato a soffrire mentre la mente incamera il codice della sua statura: quella del succube. Artaud docet della parola che lo frugava e rubava a quel suo corpo che voleva vivere intero.
Ma immagina: sostituisci a quella sedia un divano, o un tappeto, o un letto di erba. Immagina corpi che trovano nella materia che li accoglie la loro impronta, che vi si scavano un ricettacolo. Immagina sostegni plastici e morbidi. Immagina corpi che non si trattengono ma che fluiscono intorno alle parole, che si levano e si abbandonano, che son essi a frugar parole e non il contrario, che si cibano di immagini, di suoni e di odori. Che incorporano materia, sia essa una storia o un gruppo di segni che chiede d’essere interpretato fino a distillarne un gesto pieno, integro, globale. Non censura, corpi non seduti ma in divenire, oltre la sedia, sederi che ondeggiano, che oscillano, in una danza, in una lotta.
Sedie molli, profonde, sedie di corpi, imparare con il corpo, il corpo immerso nella materia, quale che sia, algebra del corpo, filosofia del corpo, corpo di sapere.
Bruciare la sedia dura e secca, il culo al vertice, reimparare a godere.

1 commento:

  1. Scuola : sostantivo plurale…

    “Non insegnate ai bambini, ma coltivate voi stessi il cuore e la mente, stategli sempre vicini. Date fiducia all’amore, il resto è niente “ (Giorgio Gaber). Spesso a Scuola (sostantivo singolare) sembra sia implicitamente vietato “perdere tempo” perché incombe su tutti la sola realtà che sembra reale che è quella dei voti, dei programmi,delle interrogazioni. Siamo alla Scienza della didattica e dell’educazione! Poi capita che un lunedì piovoso e grigio qualcuno dei “tuoi” alunni ti ponga una domanda balzana sulla vita e di colpo, come direbbe Prévert, i muri sembrano sciogliersi e tutto pare ritornare a uno stadio primario di curiosa non-conoscenza. Saranno le anatre del lago gelato del giovane Holden a sconvolgerci la mattinata? Che fine faranno poi davvero queste benedette anatre in inverno? O magari sarà un sorriso inaspettato tra due equazioni irrazionali o un’osservazione strampalata sui capelli del prof… E il tempo! Questo curioso gestore della nostra vita che a volte ci ride dietro, questa volta si sbellica della nostra unità didattica con cosi cura preparata…
    “ I professori non ci chiedevano mai se eravamo felici…” (Luca carboni) – Spero nessuno noti il mio imbarazzo – (pensa il prof); - in fondo cosa ne so io della felicità? Io so tutto sul manuale di fisica applicata alle cogestioni razionalissime delle strutture isotoniche!! - e poi (si difende) – basta, se non la piantate sono note per tutti e in particolare per te e per la tua incomprensibile domanda! – scrivo: - l’alunno tal dei tali si permette di interrompere la lezione con domande inopportune e non pertinenti – questo inciderà sul voto di condotta! Caso chiuso. Ritorno alla scuola, sostantivo singolare. Eppure per un attimo, forse c’era tempo per provare… a fermarsi sul plurale. La scuola ? Le scuole!!!! E’ tutto un brulicare di plurali che mascheriamo con un vano singolare convinti che questo ci faccia meno paura. Il programma. La programmazione. La linea didattica, l’unità!!!!! E poi la classe, il gruppo, il team … Forse si poteva “perder tempo” con una risposta sulla felicità. Magari stentata, ironica,sbuffata ma qualcuno (o forse tutti) era lì che ascoltava… Sia chiaro, nessuno è animatore,baby sitter, psicologo o altro ma non si cercava la scienza di una risposta forse bastava la poesia di una parola sconnessa e fragile a rivelare un riconoscimento reciproco. Di colpo! Dopo 3 anni di saluti e di lezioni cosi perfette da rasentare l’idiozia… di un mancato incontro. I voti sono arrivati, le medie pure. E di mattini grigi di nebbia per fortuna c’è stato solo quello…
    “Non darti all’intenzione, piuttosto all’illusione o all’impressione di un sogno che passa legato a un aquilone…” (Frammenti di didattica dell’illusione, anonimo pose dopo un Consiglio di Classe perfettamente riuscito…”


    Prof. Mario Bianco

    RispondiElimina