la gaia educazione

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domenica 11 giugno 2017

Cara Ministra, cari genitori. Tema: la bellezza di venire al mondo




Leggo oggi che la ministra Fedeli intende appioppare un altro mese di scuola agli studenti. Nel periodo estivo. Su pressione di molti genitori.

Stop.

Molti genitori decidono di fare figli. Chi per caso chi per scelta, del tipo: voglio avere un figlio.

Stop.

So che ci hanno provato altri colleghi e predecessori della Fedeli a prolungare il periodo di internamento nelle patrie prigioni della Pubblica Istruzione.

Stop.

Ho letto che recentemente hanno deciso la vaccinazione di massa anche per chi non la vuole. E che vogliono esaminare più spesso anche i figli di chi ai propri figli gli esami non li vuole far fare.

Stop.

Per un momento penso, ora vado a letto e dormo per un altro anno. Magari tra un anno quei genitori, la ministra Fedeli e quegli altri dei vaccini e degli esami sono stati sottoposti al lavaggio del cervello.

Stop.

Poi però penso. Non finiranno mai, quelli così, a meno di un miracolo.
Per ora quindi mi accontento di dormire solo un altro paio d’ore, sperando che il mondo dei miei sogni sia più abitabile di quello che trovo quando sono sveglio. Ma in verità nei miei sogni finisco per incontrare di nuovo gli stessi che incontro qui, che non mi danno ascolto. Sono in trappola.

Stop.

Allora mi incazzo.

E chiedo: ma porco di quel (omissis), ma perché mai – parlo ai genitori- avete messo al mondo dei figli? Ma avevate visto cosa c’era in palio per loro? Avevate visto che dopo pochissimo sarebbero stati internati, sottoposti a restrizioni del tempo, dello spazio, della libertà, del diritto di fare qualcosa che avesse un senso per “loro” e non per una società idiota che destina tutti ad una vita senza senso? Vi siete accorti che i vostri figli avrebbero dovuto passare la massima parte del loro tempo agli ordini di adulti che gli avrebbero imposto quotidianamente condizioni che solo una caserma potrebbe giustificare ( e in tempo di guerra), che le loro pulsioni, i loro desideri, e il loro diritto ad essere trattati come esseri umani a pieno titolo (cioè dotati non solo dell’istinto del servo ma anche di quello della fantasia, del piacere, della vitalità, della creatività, dell’immaginazione, dell’arte, della partecipazione, del silenzio e del chiasso, del dire di no e del dire di sì, del gioco, della condivisione, del dono e della restituzione, della bellezza, del riposo, del nutrimento non forzato ecc. ecc.), avrebbero contato come il due di briscola?

E ora, non paghi di averli consegnati alla barbarie quotidiana dei compiti e del disciplinamento forzato -visto che proprio non avete tempo per loro, che vi intralciano a tal punto che non vedete che il momento di sbarazzarvene e rifilarli a qualcuno in cui riporre la massima fiducia che la meraviglia del loro essere in formazione sia custodito e accudito nel migliore e più amorevole dei modi- eccovi di nuovo pronti a scrivere alla ministra per trovare il modo di tenerceli ancora un po’, i vostri figli, nelle sue simpatiche prigioni. Certo, magari non parcheggiati, come di fatto voi li volete (perché che altro fate se non parcheggiarli?) Ma magari sottoposti a nuovi processi di disciplinamento, a nuove sevizie culturali (in virtù delle quali, come è noto, siamo diventati uno dei paesi più colti e amanti la cultura al mondo).

Permettetemi (e perdonate una briciola di livore):

MA PERCHÉ CAZZO LI AVETE MESSI AL MONDO?

Stop!

Certo, avrete tutte le buone ragioni che hanno quelli che ahinoi, prima di fare certi passi non proprio banali, di pensiero non ce ne mettono neanche una briciola, nonostante abbiano fatto tanta scuola e abbiano tanta cultura e sensibilità e comprensione e amore per il prossimo.

Mi limiterò quindi all’applauso sarcastico.

A quegli altri, quelli dei vaccini, quelli che abbiamo eletto per governarci,vorrei chiedere:

Ma che idea avete del vostro popolo, dico quello che, con tutta evidenza, non avete più neppure la vaga giustificazione a governare? Ma perché mai questi soggetti adulti, in gran parte definiti “maturi” da una commissione scolastica, dunque pienamente
capaci di intendere e di volere, perché mai devono essere infantilizzati proprio quando si tratta della salute dei loro figli?

Perché non possono scegliere loro? Almeno questo sarebbe un riconoscimento che non pensate che si sia tutti dei perfetti imbecilli (e ammetto che, dopo aver letto della domanda dei genitori di trattenere a scuola i loro pargoli anche d’estate, qualche dubbio è sorto anche a me ma poi, vedendo che la ministra, come i suoi augusti predecessori, non vedeva l’ora di blindare per un altro po’ le nuove generazioni nell’eden delle loro scuole, ho dovuto ahimé ricredermi: gli (omissis) stanno da entrambe le parti).

(omissis)

(omissis)

Da un lato tuttavia è bello che cadano le maschere, che finalmente si arrivi al sodo. Tutta quella retorica davvero obbrobriosa, fatta di parole ormai inservibili, come libertà, diritti, democrazia, tutela della persona, rispetto per le diversità, ecc. ecc., in fondo abbiamo sempre saputo che erano, da chi detiene il potere (non da chi ha lottato e magari è morto per esse), usate come carta igienica o pillole contro l’alitosi.

E d’altra parte.

Noi, rubricati come adulti, non abbiamo neppure noi il diritto di curarci come vogliamo, di morire come vogliamo, di stare insieme come vogliamo pienamente tutelati nei nostri diritti di soggetti, figuriamoci se i “minori” -i cuccioli che ci ostiniamo a mettere al mondo sperando che godano di una vita migliore della nostra della quale però ci preoccupiamo solo quando qualcuno se ne vuole occupare davvero per il loro bene, non quando sono messi nelle mani di istituzioni totali e dei loro custodi caotici e disorientati-, quei piccolini tanto adorati e posti sopra un piedistallo prima di infilarli nel tunnel senza uscita di una vita espropriata, alienata e infine sfruttata senza alcuna remora, potrebbero forse davvero essere titolari di diritti personali?

Consoliamoci: almeno per sei mesi vengono tenuti in palmo di mano. Dopo, devono evidentemente espiare il peccato originale. Immagino sia per quello che vengono messi così presto in prigione. Qualcuna anche carina, coi giocattoli, i sorrisi e Patch Adams. Ma è per poco. Dopo arriva
LA SQUALA.

Tocca imboccare la via del sacrificio, perché si è peccato, si è molto peccato, figuriamoci, si è avuta l’impudenza di VENIRE AL MONDO!

Stop!


mercoledì 26 aprile 2017

Gramellini, la memoria e i 5 stelle



La schiera dei detrattori del ’68 si allarga sempre di più, forse anche perché aumentano a dismisura quelli che hanno idee molto pallide intorno a cosa si sia trattato.

Pur di far polemica con il Movimento 5 stelle Massimo Gramellini invoca, dalla sua rubrica Il Caffè, in questo caso davvero troppo ristretto e cicoreccio, la triste pedagogia della fatica e del nozionismo, tanto per controbattere alla proposta dei pentastellati di consentire agli studenti, durante la prova di matematica della maturità, di poter consultare il manuale di formule.

Fortunatamente, anche se si tratta ovviamente di un inciso ironico, il nostro moralista di punta afferma egli stesso di essere un “bieco conservatore”, nel perorare la causa, già ministerialmente attestata, che la memorizzazione, anche gratuita, deve sempre avere la meglio. Non contento di portare acqua al mulino delle Mastrocola e del coro di altri “biechi conservatori”, senza arrivare a dileggiare Don Milani, si limita a profetizzare la rivendicazione del “6 politico” ad opera del Movimento 5 stelle, che elegge a prosecutore del 68 (del che dovrebbero considerarsi onorati) un 6 politico usato ovviamente come strumento di dileggio (il “voto di cittadinanza” secondo il brillante retore della Stampa), evocato in modo del tutto decontestualizzato dal periodo di lotte di ben più ampio respiro che negli anni 60 segnò la fine di una istruzione selettiva e classista, per breve tempo ahinoi.

Resta il problema di questa levata di scudi per una restaurazione dei consueti feticci dell’istruzione tradizionale. Occorre ricordare ancora una volta (a tutti questi sedicenti esperti della cultura dell’educazione), che non esiste apprendimento puramente mnemonico, se non è rafforzato dal cemento emotivo della motivazione. Quando si apprende puramente a memoria e solamente per compiacere una richiesta non condivisa (come accade nella maggior parte degli apprendimenti scolastici), l’apprendimento, che si deve allora chiamare, secondo una dicitura coniata da chi di questa cose si intende (si vedano gli studi di Meltzer, Harris, Bion degli anni 70 e 80 ecc.), “per sottomissione ad un persecutore”, si rivela debole, inconsistente e destinato ad un rapido dissolvimento. Certo, ripetute sanzioni possono produrre alla fine una incisione a vivo che contribuirà a consolidare la memorizzazione, non disgiunta però da un odio profondo più o meno consapevole per quello stesso apprendimento o addirittura per l’apprendimento in genere (almeno quello impartito da un’istituzione sanzionatoria e vessatoria come quella scolastica).

Imparare a memoria formule matematiche è certamente un esercizio interessante per un corpo di teste di cuoio della matematica, molto meno per chi deve scoprire e nutrire i propri talenti, che inevitabilmente assecondano le leggi passionali e non quelle dell’inculcamento percussivo.

A Gramellini, che di sicuro avrà avuto modo, prima o dopo il periodo della sua istruzione, di appassionarsi a qualcosa, non potrà sfuggire che l’unico apprendimento che si conserva nel tempo è quello sostenuto dall’interesse attivo, dalla curiosità e dal desiderio, condizioni che lo renderanno oggetto di “studio” in senso latino, e che lo porteranno a essere metabolizzato in senso profondo e originale nella personalità singolare del soggetto implicato nel suo apprendimento.

Memorizzare gratuitamente formule o date può essere un simpatico esercizio ascetico del cervello ma raramente costituisce un pezzo significativo della formazione umana, checché ne abbiano detto Eco o tanti altri. E’ vero il contrario, e cioè che si impara e memorizza veramente, e non per il tempo di una prova, quale che sia, matura o immatura, solo quando qualcosa, nel caso anche una formula o una data, ha suscitato il nostro interesse ed è stata sottoposta ad un ripetuto e appassionato lavoro di appropriazione e comprensione.

Lasciamo poi stare il 68, o, se proprio lo vogliamo giudicare, che lo si faccia con l’attenzione che un periodo complesso e così ricco di innovazioni e di mutamenti anche radicali ha portato con sé, e non con le battute piuttosto ignoranti della nuova falange dei “biechi conservatori”!

lunedì 6 febbraio 2017

UNA SVOLTA RADICALE IN EDUCAZIONE


La carica dei 600 parrucconi accademici







Cielo, di nuovo parrucconi che si strappano i capelli, barbogi che pontificano, megere che si scandalizzano!

Quando finirà la trista e trita litania del o tempora o mores? Quando le anime belle del tempo che fu smetteranno di piangere e sbraitare sull’incapacità dei giovani, sui loro sbagli, sulle loro incompiutezze? Di nuovo la vecchia catilinaria della lettura e della scrittura. “fanno errori da terza elementare!” “Non sanno le più pallide regole della grammatica!”. “Non leggono. Non sanno far di conto, non hanno disciplina”. “Le famiglie li rovinano. Le scuole non sono abbastanza esigenti”, "gli insegnanti sono dei mentecatti" e compagnia gridando e infuriando.
Che noia!
Forse occorrerebbe che qualcuno spiegasse ai 600 parrucconi in convulsione da matita rossa e blu, che l’università da parecchio è diventata un’istituzione di massa, che la scuola stessa è diventata da molti decenni di massa e che la civiltà è progredita al punto di non poter tollerare che bambini e bambine e ragazzi e ragazze siano tenuti nel terrorismo delle punizioni, dei castighi e del ludibrio pubblico.
Andrebbe loro spiegato che oggi gli strumenti di cultura si sono assai diversificati e non sono più racchiusi solo nelle biblioteche e nelle librerie e che la lettura ha ceduto il posto a infinite altre occasioni di informazione e di evasione, visto che , fino a prova contraria, coloro che leggono, nella stragrande maggiorana dei casi, leggono soprattutto per evasione, e scrivono solo quando è strettamente necessario e non certo per professione.
Sì, strappiamoci i capelli sulla triste sorta di una giovinezza perduta, ignorante e arrogante. Avanti il concerto: da Galimberti alla Mastrocola, dalla Tamaro a Lodoli, dall’Accademia della Crusca a quella del Politecnico! Giovani senza il dio della scrittura, alla mercè di preposizioni disarticolate, predicati immorali e complementi senza oggetto.

E allora? Irrigidire, disciplinare, sanzionare, moltiplicare i controlli, ergere sbarramenti. Perché non tornare anche ai ceci sotto le ginocchia?

Io credo che li faccia sentire bene, i (o ai?) nostri accademici, schizzare un po’ di merda di tanto in tanto sulle giovani generazioni. Forse gli dà un qualche motivo di esistenza, chissà.

Finiamola una buona volta. Oggi i ragazzi e le ragazze leggono infinitamente più di una volta, anche grazie ai loro dannati telefonini, anche grazie a internet, e scrivono, scrivono molto di più. Leggono e scrivono ciò che interessa loro e non ciò che vogliamo noi. E leggono e scrivono bene o male, ma si intendono.

Io insegno al primo anno di un corso di laurea di educazione, dove approdano studenti che vengono con titoli di studio anche molto poco à la page, eppure scopro tesori di intelligenza, maestria di scrittura, poetica e prosaica, e lettura tutt’altro che banali. Certo in alcuni, come è sempre stato peraltro, in molti altri avverto difficoltà, come sempre è stato peraltro. Capisco che essi comunicano attraverso linguaggi differenti, anche scritti, la cui grammatica e semantica è talvolta differente da quella del toscano cruscante, ma non meno ricca, anche articolata. Le loro faccine sulle loro chat sono forse piè economiche che scrivere del “rumor di croste” della biada, eppure hanno una loro densità, specie quando moltiplicate e associate.
La verità è che non gli stiamo dietro, che loro sono veloci e che se ne fregano delle nostre auree regole. Più o meno come sempre hanno fatto i giovani sani, non quelli già gobbi che immancabilmente finiscono a far marcire le loro frustrazioni dentro le Accademie.

Rassegniamoci: occorre un movimento esattamente inverso. Siamo noi che dobbiamo adattarci, non loro. Siamo noi che dobbiamo aggiornarci, non loro.

Non solo. Se davvero ci teniamo a fargli volgere l’attenzione verso qualcosa che riteniamo cruciale (e qui potrei trovarmi più che d'accordo anch’io. Che leggano Eliot o Rimbaud o Celan o Rilke, lo ritengo piuttosto essenziale). Ma mai ci arriverò sottoponendoli a pene e sanzioni. Occorrerà che elabori dei circuiti motivazionali virtuosi, magari legati ad atti reali, che li chiamino prepotentemente alla lettura, non alle vessazioni dei controlli e delle prove.

Nessun autentico apprendimento è mai passato attraverso la severità (tranne che per i masochisti), solo finzioni di apprendimenti, simulazioni, buone per saltare l’ostacolo e poi scordarsene. Se vogliamo che si appassionino alla scrittura, cosa che in sé è buona e giusta, benché sia falso dire che essi ne siano più di quelli di altri tempi digiuni, occorre trovare il modo di appassionarli facendo leva sulle loro motivazioni, non quelle di qualche obsoleta e fatiscente disciplina istituzionale.

Volete che usino le parole “obsoleto”, o “fatiscente” o “apodittico”, allora occorrerà fare un lungo giro, dentro il sangue e la carne delle loro vite, perché quei termini si conficchino dentro di loro come significanti di significati ricchi di vita, non mere parole imparate a memoria.

La si finisca una buona volta con questo moralismo angusto e cieco, si guardi in faccia la vitalità di questi giovani, che ogni anno trovo un po’ meno addomesticati dei loro progenitori, più aperti, più vivi - probabilmente anche grazie a una scuola che sta finalmente dismettendo la bacchetta e il pugno sulla cattedra, in virtù di insegnanti sicuramente un po’ meno rincoglioniti umanamente di quelli che li hanno preceduti-, più curiosi, più perspicaci, e –perfino!- in virtù delle nuove tecnologie, preziosissime per scoprire ed esplorare ben oltre i confini dell’apprendimento scolare, più informati, magari a modo loro, ma informati.

Io ho imparato a imparare da loro, e basta mettergli sul piatto un cibo saporito per vedergli spalancare gli occhi e la bocca, pronti a gettarsi con persino troppo slancio sul boccone.

Non c’è bisogno di ristabilire la disciplina, c’è bisogno di gaia educazione, di amore, di passione, di contenuti alla loro altezza, di mete realizzabili, di azioni, di gesti, di compiti reali. Basta con il tartassamento di insegnamenti senz’aria, corpo e senza remunerazione umana! E soprattutto basta con la nostalgia di un passato che, ad onta dei fasti di cui personaggi che emanano solo tristezza e polvere li ammantano, sono stati tra le pagine peggiori della formazione dei piccoli d’uomo, oppressi, castrati e castigati oltre ogni possibile giustificazione.

domenica 15 gennaio 2017

Il desiderio di Alcibiade (2006)












“Ho bisogno d’un amante che, ogni qual volta si levi,
produca finimondi di fuochi da ogni parte del mondo!

Voglio un cuore come inferno che soffochi il cuore dell’inferno
Sconvolga duecento mari e non rifugga dall’onde!

Un Amante che avvolga i cieli come lini attorno alla mano
E appenda, come lampadario, il Cero dell’Eternità,

Entri in lotta come un leone, valente come Leviathan,
non lasci nulla che se stesso, e con se stesso anche combatta,

e, strappati con la sua luce i settecento veli del cuore,
dal suo trono eccelso scenda il grido di richiamo sul
mondo
e, quando , dal settimo mare si volgerà ai monti Qâf misteriosi
da quell’oceano lontano spanda perle in seno alla polvere!”

(Gialâl ad-Dîn Rûmî)



Nostalgia misterica

In una cultura pedagogica così priva di fascino e di magìa, così desertificata e spogliata da ogni traccia di ritualità, disboscata da ogni tensione iniziatica o da una anche soltanto tenue atmosfera di mistero, quali mai potranno essere i caratteri precipui della cosiddetta “relazione educativa” (espressione abbastanza schematica e astratta da essere buona per ogni stagione e ogni “impiego” )? Quale densità, profondità, caratura potrà mai caratterizzarla e qualificarla? Quali saranno le forme della sua manifestazione se non quelle così malinconicamente esibite nell’ordine geometrico e raggelato delle “buone maniere”, dei protocolli surgelati dalla retorica didattista e che appaiono per lo più il riaffioramento imbellettato di psicologismi di un galateo solo un po’ più manipolatorio e zuccherato con qualche dose di empatia o di maternage a buon mercato?

L’ortopedìa istituzionale del gesto educante e del comportamento discente così profondamente interiorizzati ed esibiti nel grigiore dei termini, dei discorsi, degli abiti, dei gesti, delle forme diffusi nel mondo educativo odierno, ben esprime la povertà infinita e il disseccamento ascetico cui è giunto il contatto ustorio più antico del mondo dopo quello paterno e materno.

Quale nostalgia per lo spazio misterico e cerimoniale di un’iniziazione, quale desiderio di spoliazione e di investimento, di preparazione e somministrazione di gesti calibrati e necessari, di pratiche, di formulari capaci di ispessire e approfondire incontri impegnativi e complessi ormai avviliti, detersi e bonificati da ogni attesa e timore!

La relazione educativa è perlopiù, salvo qualche rara eccezione rintracciabile comunque in ambiti extraistituzionali, piatta come l’elettroencefalogramma di una salma sul tavolo dell’anatomista, esternata in quelle sale operatorie, a giudicare dall’aspetto, che sono le aule delle nostre scuole e Università. Scialbo transito incapace di generare e di segnare in alcun modo, dentro scene prosciugate da ogni velleità di bellezza, dove i “funzionari” di un processo sopportato e patito più che desiderato e incarnato, impiegati privi di carisma e all’oscuro di ogni consapevolezza liturgica, appaiono come comparse evanescenti degne soltanto del tempo misero e disorientato del quale sono espressione.

Non ci sono corpi né anime a dialogare dentro l’aere mummificato delle aule e dei laboratori istituzionali e ben presto, con condiviso consenso e plauso, anche questi ultimi saranno risucchiati nell’iperspazio della “Rete” e forse chissà, proprio allora riemergerà, come già accade, una forma forse un po’ traviata di esoterismo da fibra ottica, tuttavia sapientemente agghindato di maschere, linguaggi cifrati, nuove forme di segretezza (pseudonimi, password, segnature) e di affiliazione.

Il processo di imbalsamazione della relazione educativa inaugurato da Rousseau, come aveva ben messo in rilievo Schérer (1976) a suo tempo, e perfezionato dalla moderna psicologia dell’apprendimento, è arrivato al suo capolinea e finalmente oggi la relazione educativa ha perduto, almeno alla superficie, ogni lato oscuro, ogni peculiarità, ogni enigma degno di essere interrogato, ogni sottofondo. Tutto è stato rivoltato e esposto e castrato con il risultato che la relazione educativa è pronta per essere trasferita in blocco in una programmazione ingegneristica perfettamente lineare e forse neppure a doppia entrata. All’insegna dell’utile e della razionalizzazione, la relazione educativa si avvia ad essere definitivamente sistematizzata e cablata affinché possa essere “fruita” direttamente a casa o ovunque tramite videoconferenza, videoteloefonino, o videochip installato nel cranio.


Carne e sangue

Dire che la relazione educativa ha bisogno di essere rivitalizzata appare ormai un vezzo triste e un po’ snob da autentici Tartarini di Tarascona; eppure, per chi come me è tenacemente avvinghiato ad un’idea che forse neppure mai si è realizzata, una sorta di “utopia” educativa dunque, se proprio se ne deve parlare, non può che toccare la funzione, ingrata a vero dire, di riproporre la necessità di pompare sangue, umori, anima, pathos e significato dentro il corpo esanime di questa “cosa”.

Il tempo sacrificale della perdita e dei segni marcati sulla carne, ma anche quello dell’amore di bellezza che sospingeva Alcibiade, nel Simposio, a lodare le belle immagini (agalma) impresse nell’animo di Socrate ( lodi che giustamente, con la consueta malizia, Lacan intuisce che erano probabilmente rivolte al bell’Agatone (Lacan, 1991)), o ancora l’introduzione rituale, scandita in gradi, dell’adepto ai misteri alchemici della Grande Opera, tutto questo e molto altro sopravvive solo nell’inconscio più buio delle istituzioni, negli scantinati da dove ogni tanto erompe rabbiosamente e riemerge in forme deviate, pervertite, capovolte (ma anche sintomatiche, più di quanto una lettura superficiale potrebbe indurre a credere…).

Ma questa “latenza” o comunque la significatività profonda di tali pratiche, che poi si traducono nel bisogno di setta, di sigla, di tracce sul corpo e di accesso ai misteri delle sostanze ma nella totale ignoranza del loro senso e delle loro forme, questa “attesa” fondamentale, non può essere completamente soffocata o semplicemente ottimizzata (!).

La relazione educativa è qualcosa di altamente “transizionale”, rituale, e non si celebra senza che qualcosa di rovente e di ineludibile si affacci, pena la sua insensatezza. Essa non si dà autenticamente in mancanza di un’azione in cui un sigillo, un crisma, una marcatura profonda vengano impressi sulla carne viva.

Occorre, a mio giudizio, “riesumare”, anche se in forme nuove, gli elementi “mitici” del fare educazione, nel loro senso più autentico, non certo in una letteralità naturalistica da ricostruzione archeologica, ma secondo vere traiettorie di analogia, di corrispondenza, di somiglianza.

James Hillman ha di recente (Hillman, 1997) correttamente richiamato alla necessità di una figura di “mèntore” nell’educazione del giovane, di qualcuno capace cioè, in virtù del possesso di una affinata sensibilità immaginativa, di riconoscere il “dàimon”, la vocazione irriducibile, la “ciascunità” che si manifesta nella fisionomia (ma sarebbe meglio dire “fisiognomia” o forse addirittura “corpo flebotomico” come quello su cui operava la vecchia medicina astrologica, perché di questo si tratta), fisica e comportamentale di ogni giovane. Il quale ha bisogno di essere “percepito” da uno sguardo che sappia esplorarne, proprio nel dettaglio complicatissimo del suo manifestarsi, le attese e le possibilità, come se fosse una materia da cui l’artista sensibile dovesse trarre la forma latente e virtuale, quella sola che anela a emergere.

Eppure questa qualità mentoriale, che è certamente sana e giusta, rischia di rivelarsi un’altra possibile preda della capitalizzazione dei talenti che sta tanto a cuore del nostro sistema formativo imballato, se si trasforma in un altro kit da talent scout di buona volontà, e in particolare se non si accompagna con un veritiero Eros educativo. Infatti, e mi permetto di citare un mio pezzo di un paio d’anni fa, “nessuno è mèntore per professione, mèntore è uno stato dell’esistere, o forse dell’essere. Accade di trovarsi mèntori o di trovarsi adepti di mèntori, per breve tempo e per sorte, per un elezione che è tramata da sottili percorsi degli affetti e dei sensi, delle simpatie che attraggono gli elementi, specialmente quelle dei fluidi e delle materie, di una mancanza che si incastra con una effusione, o di due nostalgie che si illuminano attraverso la medesima sorgente”(Mottana, 2005, 217).

E’ infatti l’Eros in definitiva l’unico autentico agente di trasmutazione della relazione educativa da pratica di commercio informativo in quel contatto ustorio e sulfureo di cui si parlava, in una unione di presenze viventi (che sono i corpi, i cuori, le carni e i saperi o sapori profondi dei protagonisti di tale non semplice vicenda).

L’incontro antichissimo di erastes ed eromenos, così come veniva rappresentato dagli antichi nostri progenitori, ricco di componenti seduttive e anche carnali (Buffière, 1980), giace rimosso sotto i plurimi strati della cultura del controllo e della educastrazione. Ma vi giace comunque, e quanto più giace laggiù, obliato e irriflesso, tanto più, quando si manifesta, lo fa con le tinte cupe e violente dell’abuso e del vuoto di senso.

In verità ancora oggi l’eromenos aspetta il suo erastes, il pàis attende il suo mèntor, (e davvero questo è sensibile, evidente), come il solco terrestre attende il seminatore. Allo stesso modo il gesto educativo abortisce, non genera nulla se non accondiscendendo ad un’attesa magnetica e irriducibile, all’irradiamento ineludibile del suo stesso desiderio.

Eros fuggitivo

Ma come attingere tale Eros, come propiziarlo, come invocarne la venuta, visto che pur sempre di un’ispirazione numinosa si tratta?

Non certo caricandosi di buone intenzioni, né con i buoni sentimenti. Eros è qualcosa che impregna l’atmosfera e che si avverte come un profumo, conturbante e irriducibile, e che può essere evocato anzitutto costruendo lo spazio e il tempo adatto al suo manifestarsi. Occorre modellare lo spazio, rifarlo metaforicamente, circoscrivendolo con confini simbolici e al tempo stesso percepibili, distinguendo tempi, modi, gesti ( a ciascuno la ricerca di una simbolica capace di propiziare l’arrivo di Eros).

Si tratta di trovare, ma sono lì da sempre in verità, le procedure, le forme cerimoniali, la liturgia adatta a sprigionare il senso e i sensi dell’atto educativo nella sua integrità. Amministrando tutto ciò che è a nostra disposizione, dalla parole alla materia, dagli abiti agli oggetti, dai testi alle immagini ai suoni, affinché siano carichi di vita, ricchi di bellezza, pregni di significato intuibile, percepibile, ad irrigare e fecondare gli ambienti svuotati e disanimati in cui normalmente si svolge l’agire educativo. Evitando scrupolosamente tutto ciò che entropizza la relazione, come la maggior parte dei libri, dei linguaggi, dei sussidi didattici spenti e mortificatori, capaci solo di invertire le potenzialità di appassionamento e di realizzare alchimie abortite, come quelle che affliggono la gran parte delle proposte d’apprendimento della scuola (in cui ciò che si studia diventa, ipso facto, inservibile e come disinnescato nel suo potenziale inesauribile di arricchimento e fecondazione).

E’ questa la cura essenziale, che riguarda il luogo, il tempo, la geografia simbolica (geosofìa) della “terra promessa” dell’educazione. Ad essa naturalmente deve far riscontro lo spossessamento, il dissolvimento dagli infiniti stereotipi che chi insegna ed educa ha introiettato come veleno, dalle formazioni disciplinari che hanno specie negli ultimi anni imperversato nella formazione e nella sua “cultura”.

Spogliarsi dalle inibizioni, dalle categorizzazioni falsificatrici, dalle ingessature psicologistiche e maternalistiche, ma anche da quelle paternalistiche, dalla induzione alla patologizzazione e alla paranoia generalizzata, per lasciar germogliare il desiderio di educare e condividere questa esperienza unica e ipercomplessa, ma ance infinitamente appassionante che è. Occorre disinibirsi e osare, con molta più fantasìa e anche una certa propensione alla trasgressione.

L’esercizio dell’Eros, ma dire esercizio è scorretto, l’ispirazione di Eros, meglio, che si traduce in dono, generosità, effusione, sperpero di sé, richiede un autentico coraggio operativo e il contatto con la propria dimensione desiderante.

Amare Alcibiade

Esso può darsi solo, per esempio, se si ama veramente coloro con i quali si condivide questa esperienza. Non si può insegnare a chi non si ama (spesso oltretutto ciò che non si ama), a chi non sentiamo prossimo, a chi non è avvertito come partner interiore.

L’insegnante, ci ha insegnato la psicoanalisi, ripara le sue ferite relazionali, le sue frustrazioni, i suoi bisogni generativi, insegnando, ma soprattutto vi costella i suoi desideri e le sue presenze interne. Senza possedere ancora viva l’infanzia dentro di sé non si può insegnare ai bambini, senza l’adolescenza agli adolescenti, senza la minorazione vissuta e patita agli handicappati. E forse sarebbe più radicale e vero dire che non si può insegnare a chi è più giovane di noi senza avvertire in noi la presenza ispiratrice dei valori profondi e dei sentimenti irriducibili dell’infanzia, dell’adolescenza e senza sentire la potenza inscritta in uno sguardo “minore” e perfino “minorato” (sempre meglio in ogni caso che maggiorato, adulterato e adulteratore).

E qui si tratta però di un amore non superficiale, non dell’amor del prossimo che appiattisce tutto e tutti in un vago sentimento astratto di benevolenza e di insipida propensione alla relazione. Non basta assumere ogni mattina, insieme al caffè, un poco del catechismo della cura degli altri. Occorre più urgenza, riconoscere la bellezza, sentire i corpi, l’energia spirituale, l’anima, desiderare con ardore.
Almeno uno dei nostri allievi, che sia il nostro Alcibiade, il nostro Agatone! Almeno per lui essere belli e indossare la bellezza, quella del nostro compito e delle materie che manipoliamo e che desideriamo siano veramente apprezzate, sottraendole anche all’infausta congiura che le ha spezzate, frantumate, ibernate e restituite in vesti stanche, neutralizzate, poco accattivanti,come nei “manuali”, nelle antologie, in tutte le forme di sistematizzazione e di formalizzazione schematistica che azzerano ogni vocazione, ogni principio di senso, ogni distinzione, forma, originalità ( e bellezza, naturalmente).

Pensando ad Alcibiade preparare con cura il nostro aspetto, desiderare di esserci, avere premura persino, diventare insofferenti agli ostacoli, ai ritardi, dimenticare la noia, la desolazione, la bruttezza che spesso ci circonda. Allora forse il cuore del vostro allievo, ma anche quello degli altri, si accenderà per simpatìa a contatto con il nostro fuoco, in un processo chimico suscitato dall’affinità, dalla corrispondenza, dal magnetismo sprigionato dall’Eros.

Alchimia cordis

Insegnare è fare dono infinito di sé e solo il desiderio forte e appassionato può commuovere i banchi inchiodati, le strutture frigide, gli ambienti claustrali delle nostre istituzioni, così come gli animi pallidi e sfiduciati di chi vi abita spesso un tempo di cui si attende mestamente solo la fine.

Insegnare è provare desiderio in carne e sangue, anima e corpo. Non illudiamoci di poter intraprendere l’atto d’iniziazione al sapere, ad ogni forma del sapere, che è sempre rinvio ad un unico grande sapere, il sapere che proviene dall’esperienza del mondo in tutti i suoi aspetti -e che dunque è in sé qualcosa di ben diverso dalle miserande concrezioni che assume nell’accademismo e nei suoi feticismi “libreschi”-, con il balsamo esangue di un po’ d’empatìa, con le regoline della buona comunicazione o con le pie intenzioni dei vari breviari sulla relazione efficace.

L’agente chimico, sulfureo e mercuriale insieme, che può innescare una vera trasformazione, dunque una relazione educativa non fasulla ma davvero iniziatica, giace nei tessuti profondi della nostra carne ed esso è il desiderio, la vecchia libido del dottor Freud , l’Eros. In assenza di questo, così come per lo stesso padre della psicoanalisi, subentra il ritiro, il principio mortifero e pestilenziale della noia, della rinuncia, della routine.

Per propiziare la sua emergenza occorre pazienza ma anche entusiasmo, individuazione dei linguaggi più adatti, specie quelli immaginativi, da sempre ripudiati dalle istituzioni educative ma che restano quelli capaci di mediare meglio l’irriducibilità imperscrutabile del mistero del sapere con la sfolgorante veste che esso può assumere nelle sue infinite forme, e quelli corporei, idonei per impegnare l’integrità dell’essere nella riscoperta e rinnovata espressione dei suoi elementi fondamentali.

L’Eros si accende nei luoghi in cui il fuoco “mitico” del significato ritrova i suoi veicoli, ed essi sono la bellezza, il rito, il mistero, l’immaginazione poetica, il canto, la vibrazione simpatetica del tutto che possono rendere di nuovo lo spazio dell’educazione e delle relazioni che si consumano al suo interno un microcosmo denso, sanguigno, palpitante, perfetta riproduzione analogica del suo motore primo, essenziale, inaggirabile, il muscolo di vita chiamato cuore, autentica materialità formativa in azione.

lunedì 26 settembre 2016

Contro il totalitarismo calcolante




Quante volte ancora dovremo sopportare il dominio di una ragione violenta, di un pensiero meschino, unilaterale, sordido in ogni piega della nostra vita? Anche laddove credevamo, a torto evidentemente, che si potesse creare una trincea, una dimora al riparo, da cui semmai, con gli strumenti della cultura, far affluire linfa, far fermentare idee, sviluppare domande che impedissero di cedere a quella ragione, per opporre un’altra mente, un altro cuore, un’altra vita?

Mi riferisco ai luoghi del sapere, della cultura, almeno quelli, sempre più rari, dove, non subendo il ricatto mercenario dei soldi e delle attrezzature, si difenda ciò che resta (ma non è poco) di una cultura umana, aperta alla differenza, al molteplice, in cerca, inesausta nell’affermare diritti come quelli di essere altro, di essere con altro, di proteggere il minore, il diverso, la debolezza ma anche una ragione critica proprio quando essa sembra soffrire una politica dell’annientamento.
Ma no, oggi l’avanzata della ragione calcolante, non sembra disposta a risparmiare nulla. Complici quasi tutti, che sembrano non accorgersi neppure dell’attentato portato al nucleo intimo della loro opera, il calcolo sta espugnando anche le ultime roccaforti.

Penso agli istituti del sapere, della ricerca, alle università, almeno quelle che una volta si dicevano pubbliche e che oggi hanno statuti bastardi e profili dei loro custodi altrettanto imbastarditi ed equivoci. Con la scusa di una razionalizzazione delle risorse tutta da dimostrare, -non certo dalle esigenze del sapere-, chi ancora, sempre più timidamente, avanza la necessaria pretesa di un’autonomia, di un diritto di divergenza, di uno spazio e un tempo per poter ossigenare un pensiero che non diventi astenico e succube del miglior offerente, viene semplicemente ridicolizzato, sbeffeggiato, sarcasticamente giudicato vecchio, patetico e anacronistico.

La piega beffarda che assumono i volti dei nuovi tutori del pensiero calcolante non risparmia nessuno di quelli, ben pochi, che ancora provano a difendere il diritto di cercare, studiare e formare senza dover soggiacere al ricatto di qualcuno che finanzi, al suo controllo, al suo delirio di valutazione. Di una valutazione che sempre più invade il mondo del pesniero, della cultura e dell’arte pretendendo resoconti, obiettivi verificabili, tempi certi, risultati spendibili e di cui sia possibile misurare l’impatto entro ben determinate regole di utilità e guadagno.

Il tutto sotto una non più nemmeno dissimulata richiesta quantitativista, numerizzabile, misurabile, standardizzabile. In una cornice di linguaggi amministrativo-burocratici farciti di un inglese industriale sempre più insopportabile che rende davvero impossibile esprimersi a chi sia vissuto con l’idea che la cultura e il pensiero non possano che crescere e moltiplicarsi nella pluralità e nell’estensione poetica dei linguaggi, che possa svilupparsi fecondamente solo in assenza di vincoli così pressanti, così letteralistici e così calcolanti.

La persecuzione prende naturalmente di mira le creazioni che rimangono collegate all’humus del pensiero critico, della ricerca poetica, della riflessione autentica, che non può che svilupparsi nel tempo, attraverso un andirivieni immisurabile fatto anche di vuoti, di ripensamenti, di fratture, di vortici, di stagnazione persino.

Come si può immaginare filosofi della taglia di un Kierkegaard o di uno Schopenhauer sottoposti alla SUA, ai nuovi protocolli di valutazione che costringono a descrivere i propri obiettivi di ricerca e di formazione in un linguaggio oggettivo e quantificabile?

Ma non voglio neppure rifarmi a pensatori famosi, oggi in via di estinzione proprio a causa del totalitarismo monetarista e controllante che costringe tutti a omologare scritture, pensieri, progetti e a sgomitare sul teatrino miserabile dei finanziatori della ricerca come se fossero burattini dell’unica ragione che conti, quella che traduce il risultato di un’opera in profitto.

In questo teatro efficiente e soggiogato, noi che ci ostiniamo a non ridurci a impiegatucci di un’azienda per azioni che deve produrre risultati monetizzati, spendibili e sfruttabili nel breve periodo, siamo considerati cariatidi, macerie di un tempo che fu, disadattati, ritardati.

Ancor più delle nuove normative, dei protocolli, delle miserabili misure di riduzione del nostro sapzio vitale, ciò che più ferisce è il tono idiotizzato di chi sproloquia con arroganza, proprio tra i colleghi e i responsabili di tali luoghi che oserei quasi definire sacri, sull’unica certezza che le cose stanno così, che non ci sono alternative, che ci si deve adattare pena la scomparsa e che neppure si avvedono che sono loro i primi ad essere già scomparsi, annichiliti, resi vuoti a rendere per un progetto di mortificazione del sapere, della riflessione e della cultura che nessun impero, tranne forse quello sovietico e quello nazista, sono mai riusciti a realizzare così
capillarmente.

Faccio dunque appello a tutti coloro che resistono a questo, a chi è irrimediabilmente vecchio (o forse troppo giovane!), a chi non accetta di svendere il suo percorso di ricerca, o di cerca, come per molti di noi è, dal momento che lo studio e l’esplorazione della cultura sono intessuti profondamente con la nostra vita, a tutti coloro che ancora credono che pensare nono sia un’azione standardizzabile, numerizzabile e calcolabile in termini falsamente oggettivi, a dimostrare attivamente, anzitutto con le loro opere e il loro esempio, contro questo stato delle cose, a protestare, scioperare, contrapporsi, sabotare e incitare a salvare la riserva indiana che nel totalitarismo del calcolo, nella dannazione del calcolo, ci è ancora parzialmente data e che, bene o male, si chiama ancora (ma per quanto?) cultura.

mercoledì 6 luglio 2016

La violenza inelaborata



E’ difficile parlare di violenza. E’ una “parola-valigia” davvero consunta e spigolosa, piena di trappole semantiche e in fin dei conti poco analizzata.

Appare piuttosto comico dover partire al solito dalle definizioni però talora aiutano. Il dizionario dice due cose: 1) forza impetuosa e incontrollata; 2) azione volontaria, esercitata da un soggetto su un altro, in modo da determinarlo ad agire contro la sua volontà (qui poi ci sono una serie di sottocasi ma meno rilevanti).
Non è male, come punto di partenza: abbiamo da una parte un impulso cieco e indeterminato (forza che si scatena senza che sia precisato come e su cosa) e dall’altra parte invece la descrizione, in generale, di un’ “azione volontaria” che obbliga altri o altro ad agire contro la sua volontà (è vero, si parla di soggetti ma proviamo solo a pensarlo come qualcosa diretto ad altro, per stare ancora un po’ lontani dalla necessaria e troppo ovviamente ribadita violenza intraumana).

Insomma da una parte una scarica di forza (presumibilmente indotta da quella cosa ugualmente complessa che noi chiamiamo rabbia e che di solito si appoggia su ‘un’altra cosetta variabile di soggetto in soggetto che invece possiamo definire aggressività). Dall’altra invece ci troviamo di fronte a un gesto consapevolmente diretto a forzare qualcosa o qualcuno a muoversi contro alla propria volontà e o aggiungerei forse, natura.

Insomma, se mi è consentito, e per ora io me lo consento, da una parte la furia cieca (la chiamerei violenza calda) e dall’altra la violenza deliberata (la chiamerei violenza fredda). Spero mi si perdonerà la grossolanità di questa distinzione ma credo possa avere un certo valore euristico, per dirla con le parole fini di chi fa la ricerca.

Ora, sarebbe lungo e forse fuori luogo elencare tutte le forme di violenza che ci circondano oltre a quelle di cui siamo di volta in volta vittime o agenti (diciamo con questo termine neutro per non cadere in gerghi criminogeni).

Prima sentenza dubitativa: siamo tutti vittime e attori di violenza, in un modo o nell’altro, violenza cieca (tipo prendere a scarpate una porta che non si apre dopo aver tentato di aprirla con metodi più consoni per un certo numero di volte a seconda dell’indole e del grado di tensione) e violenza ben vedente (tipo avvelenare una colonia di scarafaggi con un’insetticida truculento solo “perché ci fanno schifo”).

Capisco, sono esempi che non si confanno alle dolorose cronache del nostro mondo, e tuttavia credo sia importante tenerne conto.

Seconda sentenza dubitativa (lo dico solo per scrupolo professionale): la violenza è continua, onnipresente e inevitabile. Lo so che qualche rousseau o qualche harikrishna di buona volontà potrebbe mettere in dubbio ciò ma mi dispiace, io sto dalla parte di Leopardi (cfr. le numerose frequenze di questa riflessione cruciale nelle Operette, nello Zibaldone, nei Canti e così via).
Ovunque c’è battaglia, nella natura, inutili gli esempi, tra le cose (perfino!), tra le cose e la natura e infine tra l’uomo la natura e le cose. Tra tutti i violenti, senza ombra di dubbio, uno dei più pervicaci e inguaribili è proprio l’uomo. Non che non abbia altre qualità ma…questa disposizione, nutrita di aggressività e di rabbia, è sempre presente in ognuno, con gradi diversi di espressione comportamentale e di selezione dei destinatari.

Gli antichi, pace all’anima loro, sempre che ce l’avessero, avevano coniato un buon modo e anche economico per distinguere gli umani, con i tipi di bile presenti in essi: quella gialla, fragorosa e feroce, quella rossa, sanguigna, quella nera, mortuaria e algida, quella bianca, flemmatica e lenta. Ma non si facevano illusioni: tutti questi tipi sapevano fare violenza ciascuno a modo proprio. La bile gialla, che poi si è fatta coincidere con la violenza tout court, era solo uno dei modi. Ci si guardi dalla violenza dei melanconici, velenosa e mortifera, come da quella dei flemmatici, fredda e ritardata, o dei sanguigni, corposa e talora manesca. A ciascuno il suo.

Che vuol dire? Vuol dire che una delle manifestazioni costitutive del nostro mondo (e probabilmente dell’intero universo è la forza cieca e incontrollata così come l’intenzione di fare del male, per dirla in breve), specialmente quando quel mondo procede a velocità supersonica incitando alla competizione e alle sfide.

La violenza, più o meno terribile, è un carattere permanente del nostro mondo, umano e non. Gli animali si aggrediscono continuamente, sono attanagliati dalla paura, alberi, cespugli e fiori combattono tra loro per prevalere e diffondersi, uomini, donne e bambini si colpiscono con l’ampia varietà di strumenti che la cultura e la natura hanno loro riservato, senza requie.
La rosa degli esempi è talmente ricca e complessa che forse varrebbe la pena di compilarne una enciclopedia. Tuttavia, nell’economia forzata, per quanto possibile, di questo breve testo, mi toccherà scegliere qualche situazione sensibile.

Il guaio è che sono davvero tante, anche solo quelle sensibili: la città è violenta (come nel film del 70 di Sollima con Charles Bronson), troppo facile fare esempi, la guerra tra pedoni e automobilisti, tra automobilisti sigillati nelle loro auto condizionate e lavavetri, tra rumori, tra natura e cemento, tra aria sporca e polmoni, nostri e di chi vive di ossigeno intorno a noi ecc. ecc.. Non mi ci soffermo anche se meriterebbe. L’informazione è violenta (ci dissemina quotidianamente di dolore, di disgrazie, di truculenti casi di macelleria sicuramente più appetibili delle notizie normali (parentesi nella parentesi: non dirò una cosa nuova dicendo che noi, privati di violenza fisica, siamo poi affamati della visione della violenza fisica e anche iperfisica), contribuendo, insieme alle città, al lavoro, alle norme, ai doveri ecc. ecc., indubbiamente a far salire quella cosa che noi chiamiamo stress ma che credo andrebbe meglio tradotto con tensione e rabbia per le infinite frustrazioni e colpi cui noi tutti, consapevoli o meno, siamo sottoposti da tutte quelle cose insieme e anche molte altre).

Ma veniamo al sensibile sensibile, che più ci interessa, noi che ci occupiamo dell’allegra umanità e delle sue sorti progressive.
Terza sentenza dubitativa: famiglia e coppia sono campi di battaglia sanguinosi.
Tutti lo sappiamo bene perché in famiglia, prima o poi, ma di sicuro prima, tutti ci siamo passati. Naturalmente la maggior parte di noi si racconta che la famiglia è un nido, una cuccia calda, un luogo di protezione e di dialogo, di sollecitudine e di cura. Raccontiamocelo.
Tuttavia di solito non è così. Il conflitto è il vero piatto forte di ogni congrega, specie quelle non elettive, e la famiglia lo è ben poco, fatto salvo un certo desiderio reciproco provato in epoca remota tra i due principali contraenti (la coppia genitoriale). Tutti gli altri vi sono capitati (i figli) non per scelta. E dunque se ne deducano le molte complesse conseguenze.

Ma veniamo a bomba: questa benedetta coppia, gli uomini maltrattanti e le donne maltrattate.
Per carità, vero, tutto vero, e antico almeno quanto la nostra civiltà (postmatriarcale), fatto salvo che nell’ultimo secolo (il XX soprattutto) le donne, invece che essere semplicemente usate e buttate, emarginate e soggiogate, hanno risollevato le loro sorti (dove più, dove meno, dove per nulla) e oggi spesso fronteggiano i loro partner da pari a pari, talora pure con qualche punto di vantaggio (che una volta, secondo il Baudrillard, comunque possedevano, secondo il codice della seduzione, detto en passant).

Ora si dà il caso che, tra momenti di altissimo tripudio prossemico, di beatitudine affettiva e fisica, di condivisione e di protezione reciproca, si annidi il germe della guerra. Dolcissima e suggestivissima certamente ma talora anche spaventosa e omicida. Mi si intenda, da ambedue le parti. Non certo per sminuire l’orrore dell’omicidio in senso letterale, o delle botte in senso letterale, fatto che, nella maggior parte dei casi vede il maschio dalla parte dell’agente violento e la femmina dalla parte della vittima (termine sempre un po’ troppo carico di connotazioni ma ok) ma per ricordare che comunque di un teatro di guerra non unidirezionale si tratta.

Appare certo semplicistico provare a dire, nel grande frastuono, che anche le donne posseggono strumenti micidiali che uccidono (non in senso letterale). Essere uccisi dentro, aboliti dal rifiuto e dal disprezzo, dall’intelligenza (in media le donne sono più intelligenti e loquaci dei loro compagni) di una donna, può essere catastrofico per una psicologia maschile un poco rozza. Ma non voglio certo cavarmela con questa minuscola pagliuzza nell’occhio dei giudici. Il fatto è che la coppia è un organismo a rischio, lo si dica una buona volta. E ahimé inemendabile. La cultura aiuta certo ma vi sono illustri intellettuali che sono arrivati a uccidere la propria moglie (e mi risparmio gli esempi).

Il teatro della violenza è antico almeno quanto la nostra mitologia e il substrato di pulsioni inconsce che la ha fomentata. Vi ricordate Venere e Marte, che coppia eh! Se la facevano di soppiatto, all’oscuro del pur astuto Efesto, che però a un certo punto li mette tutti e due alla berlina nella famosa rete. Ma qui quello che interessa è la coppia: Venere e Marte. Venere vuole Marte, e viceversa. (Per una riflessione un po’ meno grezza di questa si veda Un amore terribile per la guerra di Hillman). Marte non vuole Estia , per dirne una, la dea del focolare. Vuole Venere, la bella e pericolosa. E lei vuole lui, bellicoso e tuttomuscoli. E forse lo vuole così anche perché nelle sue fantasie si aggira una pulsione masochistica, chissà. Ma anche questo è troppo semplice e banale (per quanto mi torni in mente una sentenza di Elisabetta Canalis che, in una trasmissione televisiva, a un’intervistatrice che la interrogava sui suoi gusti maschili, rispondeva: lo voglio con i muscoli, al cervello ci penso io. Meditare su ciò, meditare…).

Ma sia: i maschi hanno i muscoli, fatti in palestra, non certo con il lavoro o sui campi di battaglia, eufemizzazione che non trascurerei del tutto per una sua oggettiva rilevanza (e comunque anche molte donne hanno i muscoli da palestra) e ciononostante tanti sanno tenerli al loro posto. E per fortuna. Se no altro che emergenza sociale! Gli uomini sono ancora uomini, (benché talora demascolinizzati interiormente come vuole certa psicoanalisi), ed è così che li vogliono molte donne dall’indubbia e inopinabile femminilità.

Forse, per evitare la violenza domestica, una delle tante forme che assume il conflitto nel campo di battaglia della coppia (tramato da gesti di minaccia, assenze, mutismi, invettive, grida, oggetti innocenti percossi e demoliti, pratiche legali più o meno virtuali ecc. ecc.) e tra le quali ahinoi anche quella fisica ha un suo luogo, forse in chi (ma non sempre e non necessariamente) vi è più abituato, occorrerebbe demascolinizzare definitivamente il maschio e defemminilizzare definitivamente la donna, assestandosi su identità intersessuali ormonalmente pacifiche (non si scomodi comunque la teoria del gender, quella è ben altra cosa).

Ma insisto, conscio che mi sto facendo nemici e nemiche riga dopo riga, vuoi l’uomo palestrato e già abituato a risolvere almeno parte dei suoi conflitti con gli argomenti più diretti e incontrovertibili? Ok ma poi ci sta che, al colmo della tensione, quando le parole, già in lui non proprio abitudinariamente frequentate nelle loro più articolate sfumature, vengono meno e la pressione sanguigna improvvisamente sale vertiginosamente, qualcosa di implacabile e sinistramente materiale faccia la sua comparsa. Non è igienico portarsi un bisonte in casa.

Questo non assolve certo i maschi violenti, figuriamoci.
Ora però, ora, freniamo. Non mi interessano gli argomenti legali né terapeutici in senso personale, non credo ai casi individuali, né alla malattia, né alla malvagità.
Ogni uomo e ogni donna sono violenti, a seconda delle condizioni personali, della propria storia, della società in cui vivono e anche a seconda delle loro doti genetiche. Non vi è dubbio poi che la cultura, il linguaggio, un certo impulso a reprimere il gesto violento e anche la politica abbiano concorso a ridurre le violenze più efferate. Ma disboscarle completamente credo sia impresa davvero dura. Senza contare, ripeto, che l’aggressività, quella, resta, e i motivi del conflitto pure, umani troppo umani.

Ma permettetemi -sono un pedagogo in fin dei conti-, di concludere con un bagliore di speranza.
Quarta sentenza dubitativa: nella nostra civiltà l’aggressività e la violenza restano fondamentalmente inelaborate dall’educazione e dagli stili di vita egemoni.

L’aggressività in primo luogo.

E’ l’aggressività, pulsione umana, normale, diffusa a tutte le latitudini, che però può, sottolineo, può trasformarsi in violenza ma non necessariamente. E’ soprattutto lei che andrebbe studiata e trattata con più attenzione.
Sul piano educativo siamo in alto mare, la falla è talmente grossa che occorreranno decenni per porvi rimedio. Cominciando dai corpi, i corpi negletti e inchiodati dei bambini e dei giovani nelle istituzioni educative, specie dei giovani, si caricano di tensione, sono repressi, castrati e inoperosi.

Prima misura cruciale: nell’educazione mettere al centro il corpo, dargli la possibilità di esprimersi, scaricarsi, curarsi. Due orette di sport gli fanno il solletico e lo sport resta pur sempre una sublimazione. Ma vada la sublimazione, però anche con la musica, il teatro, l’arte , le performances, le arti circensi ecc. ecc.. Ma poi esiste una elaborazione diretta, non analogica: le arti marziali, che sono prevalentemente tecniche e esercizi di difesa, ma direttamente a contatto con l’aggressività, con la forza, con lo spirito guerriero, che in una forma o in un’altra alberga in tutti noi. Arti marziali, del combattimento, della lotta fisica, per ragazzi e ragazze, senza discriminazioni, perché si conoscano nel corpo e tra corpi, perché misurino la loro potenza, la loro energia, la loro sensualità, perché si sfoghino in un campo protetto e avvincente, scaricando al contempo il piacere del vincere e la frustrazione del perdere.

Ma anche elaborazione educativa dell’aggressività mentale, nel linguaggio, nelle dispute, nel dissenso. Esistono tecniche e arti del conflitto, della negoziazione, della discussione, strategie dialettiche, della comunicazione dialogica ecc. C’è tutto un territorio di conoscenza, autentica cultura polemica, che almeno un poco aiuterebbe noi tutti a vivere la nostra aggressività come una risorsa e non come un demonio da tenere sotto chiave finché non esplode. A questa cultura occorre rivolgersi per elaborare le radici della violenza, o almeno per provarci. Specie in epoca di intolleranza della frustrazione.

Mi trattengo dal parlare del cosiddetto bullismo perché già ho detto la mia altrove, anche su questo blog. Certo però che un minimo di apprendimento dal codice corporale delle istituzioni totali forse ci aiuterebbe a capirne qualcosa in più… Ma mi fermo qui.

E infine, diciamocelo. Lo diciamo lo diciamo ma non facciamo nulla. Questa nostra civiltà è intrinsecamente violenta, patriarcale nel profondo, ben oltre ogni evanescenza dei padri. Una civiltà del rumore, della velocità, della competizione, della produzione, dell’azione, delle sfide, dell’eccellere ecc. ecc., fallocratica a 360 gradi, è come una guerra continua, tutti contro tutti. E lo è, letteralmente. Fonte di frustrazioni continue, di tensioni, di infinite e interminabili battaglie, cosa ci aspettiamo che produca, oltre alle nostre “magnifiche sorti”? Produce violenza, violenza soffocata, ignorante, invisibile talora ma assai sensibile.

E talora anche violenza consapevole, intenzionale e forse anche giusta, quando difende dei diritti e delle possibilità represse. Ma questo aprirebbe un ulteriore complesso capitolo che per ora rimando.

E dunque? E dunque lo sappiamo: finché non riusciremo a rallentare, a decongestionare, a concedere spazio al silenzio, alla riflessione, alla meditazione, al piacere, al riposo, al sonno, ai vuoti. Finche non impareremo a fare amicizia con ciò che non cresce, assolvendolo una buona volta, finché non ci libereremo da questo mostruoso stile di vita che è il nostro e che è il prodotto della forsennata voracità di questa civiltà del fare inutile che è la nostra, sarà ben difficile vedere sorgere l’alba di un mondo più soddisfatto, meno incazzato, meno assatanato di mete vane e grottesche.

Intendiamoci, non che un mondo più mite possa cancellare la violenza. No, figuriamoci, Marte non può essere cancellato, né le Amazzoni. E tuttavia, può renderli più saggi forse, capaci di combattere senza uccidere, di confliggere provando interesse e impegno per l’arte del conflitto, e alla fine forse persino provare il desiderio di sedersi attorno a un tavolo a dissipare la rabbia e lo stress nel vino e nel piacere. Forse, forse (quinta sentenza dubitativa).

Ma questa, come diceva il barista di Irma la dolce, è un’altra storia.