la gaia educazione

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domenica 30 novembre 2014

Lessico psicopatologico quotidiano : occupabilità



E’ uno dei parametri vitali. Oggi. Nel tempo dell’evaporazione della vita, ci si misura a occupabilità. Molti organismi nazionali, internazionali, interregionali, verificano lo stato di occupabilità, con i loro termometri ferrigni. Non si sfugge alla verifica di occupabilità. Certo, è un fatto che riguarda soprattutto i giovani, che diamine. E d’altra parte un giovane non occupabile è oggettivamente un fenomeno preoccupante. Bisogna preoccuparsi di occuparli, caso mai siano ancora poco occupati.

Sembra che i nostri giovani siano quelli più indietro –in termini di competenze- per quanto attiene il manometro dell’occupabilità. Dentro di me pensavo, ah però, forse allora sono più intelligenti degli altri. Ma mi zittivo da solo. Pensavo immoralmente, anzi immoralisticamente.

Occupabilità, che parola bizzarra, che sindrome bizzarra quella di cui soffrono coloro che ne sono affetti, l’inoccupabilità. Quella riguarda però di più gli anziani. Con l’invecchiare si diventa inoccupabili. E pensavo. Che liberazione! Poi però mi zittivo di nuovo, perché in verità occorre restare occupabili per tutta la vita. Forse anche dopo. Quindi ragionavo male, poco economicamente, poco eticamente, tenuto conto che quella è l’ultima etica in circolazione.

La connessione più immediata che mi viene, pensando al termine occupato, se non ci fossero gli stetoscopi dell’OCSE o simili, è che occupato si dice di un cesso, pardon, di una ritirata, secondo il vecchio lessico delle ferrovie nord milano. Ma oggi occupato invece è lo status cui tutti aspirano, pur sapendo che, per obbligo morale, non può e non deve, si badi bene, essere permanente. Appunto come per i cessi. E infatti un cesso sempre occupato può risultare d’intralcio al buon andamento dei flussi. Non entro nel merito di quali. Probabilmente non quelli finanziari.

Ma insomma, per dirla in breve, i giovani sono sotto sondaggio continuo per vedere se e quanto sono occupabili.
Certo la parola è bizzarra, e anche ambigua, sotto il profilo linguistico. Occupabili perché possono essere occupati, participio passato del verbo occupare, dove si presume che vi sia un soggetto attivo che li occupa, loro, i giovani, passivi. Un po’ come occupare una casa.

Una volta occupare, occupazione, riguardava soprattutto fenomeni che avevano a che fare con la guerra, nelle forma per esempio di “truppe d’occupazione” oppure con la rivolta, come in “occupare la fabbrica”. Oggi bisogna occupare i giovani. Bisogna insomma entrare in loro con violenza e picchettarne le uscite.

E’, nella sua paradossalità, interessante questa modesta incursione linguistica perché a me questo pare un fenomeno che socio e psico addetti dovrebbero prendere in considerazione. La mia osservazione, del tutto fenomenologica è la seguente: a me pare che i giovani, ma già i bambini, siano occupati in modo selvaggio e continuo. Il problema della nostra civiltà con bambini, ragazzi e giovani, è come occuparli. Lo spettro: il tempo vuoto, non occupato, le mani vuote, non occupate, la testa vuota, non occupata. Si rischia che poi finiscano “sdraiati”, come è stato autorevolmente scritto. Dunque occupiamoli. E così è. Non credo ci sia mai stata una generazione di “minori” così sempre occupati. E non sto a enumerare le infinite attività che si sono create perché anch’essi siano sempre colonizzati dall’intimazione universalmente acclamata e ormai unica fede monoteista rimasta, quella del “fare”.

Sì, perché occupazione, essere occupati, in una delle sue molte accezioni, vuole dire anche e soprattutto questo: essere intenti a fare qualcosa. Dal che, l’espressione, spesso esclamativa, con cui un chiunque, richiamato da altri, può rispondere, per negarsi, “sono occupato!”.

Ma occorre che esca da questo labirinto semantico, altrimenti qualcuno potrà pensare che gioco con le parole (e avrebbe ragione). Ma non si può giocare con le vite (evaporate) della nostra gioventù. Perché, come autorevolmente, da molte fonti si osserva, “occupabilità” è un parametro vitale, appunto. O sei occupabile, o sei destinato all’emarginazione, al degrado, a quella zona dove prolifera la peggior specie di esseri umani, se ancora possano essere così chiamati, oggi viventi, o sopravviventi, gli “inoccupati”.

Gli inoccupati sono creature davvero inquietanti. Niente a che vedere con i “disoccupati”, quelli almeno una volta hanno conosciuto la beatitudine e la cura formativa dell’occupazione. Sono stati bonificati e redenti dall’essere almeno per un po’ stati occupati, da qualcosa o da qualcuno. Ma gli inoccupati, quelli sono devianza pura, sono formazioni fantasmatiche, pura virtualità inagita, vuoti a cercare, zombie.

Si ha paura a circolare per la strada e magari incontrare qualche inoccupato. Creature imprevedibili, fuori dalla gaussiana, infette.
Certo, tra gli inoccupati si comprendono molti quindicenni e sedicenni, quelli sono inoccupati anche un po’ fisiologici, ma, si badi bene, entrano nella parametrazione.

Oggi, come una volta, tenersi occupati, è sempre un grande farmaco, celeberrimo e antico quanto provato farmaco per evitare di cadere nella crapula e nella lussuria, non c’è miglior rimedio al disagio sociale.

Per tenersi occupati, bisogna solo accogliere tutto quello che gli occupanti, i proprietari di un fare da distribuire, chiedono. Avere competenze di base, minime, quello che basta per essere occupabili (cose informatiche, l’inglese, una buona disponibilità a non mettere in discussione nessun tipo di richiesta). L’occupabilità, omettono i nostri organismi internazionali, oggi si misura soprattutto in caratteristiche poco misurabili: non avanzare rivendicazioni di alcun tipo, dismettere ogni dignità, curvare la schiena e mostrarne il fondo affinchè possa essere manipolato e penetrato a piacimento dagli occupanti, e sempre e comunque accettando la conditio sine qua non della cultura dell’occupabilità che suona “mai per sempre”.

Che sembra un peana di gloria e di speranza, ma nel modo dell’evaporazione della vita in cui ahimé sostiamo, significa soltanto la condanna ad essere manovrati come soldatini in un campo di battaglia da un bambino preocemente ubriaco e malevolo, quel bambino avido e feroce che si chiama mercato, che gioca con le vite di tutti ma soprattutto e sempre di più con quelle di chi, ma lui vorrebbe che fossero quelle di tutti, stenta in “occupabilità”.

Orsù, verso un mondo migliore: occupateci, ve ne prego!

mercoledì 6 agosto 2014

Immaginare una "formazione" sessuale



L'idea di una "formazione" sessuale può risultare problematica nel contesto del dibattito contemporaneo sull'educazione. E, per certi versi, non del tutto a torto. Non tanto per ragioni di ordine morale quanto perché non accenna a spegnersi l’eterna querelle sul carattere intimo e segreto del piacere sessuale e delle sue forme, secondo diversi rami di quella che mi piace definire una sorta di “mistica sessuale”, contro un atteggiamento, che potrebbe essere imputato di illuminismo, che invece vuole mettere a nudo e laicizzare questa esperienza.

Personalmente cercherai di evitare entrambi gli scogli, provando a intercettare tuttavia gli elementi positivi che ne derivano.

Da un lato riconosco un certo grado di verità all’assunto che la sessualità debba godere di un po’ di penombra, che non debba essere illuminata a giorno dai fari di una sua assai problematica razionalizzazione, che la farebbe cadere nelle inquietanti pratiche dell’educazione sessuale sub forma di istruzione medico-psichiatrica o meramente tecnica. Indubbiamente la sessualità appartiene ad una regione profonda della nostra vita, è intessuta di implicazioni fortemente irrazionali e deve essere coltivata come una pianta selvatica e preziosa.

Dall’altra tuttavia credo che un eccesso di esoterismo erotico finisca con il separare una sessualità per iniziati da una popolare e ignorante, destinata ad essere plasmata dalle forme più degradate di polluzione mediatica, con una perdita di esperienza grave per la maggioranza delle persone.

La sessualità è uno dei veicoli più a portata di mano, pur nella sua complessità, per ognuno di noi, per ottenere piacere, soddisfazione, benessere. Come tale è un terreno d’esperienza fondamentale e imprescindibile cui ritengo sia necessario prestare un’attenzione non secondaria e non casuale. Da questo punto di vista, invocare una formazione sessuale a me pare la soluzione adeguata.

Con il termine formazione qui voglio sollecitare un tipo di intervento che appunto non riduca e non scinda le molte dimensioni della vita sessuale. Occuparsi solo dell’atto, delle pratiche igienico-sanitarie o della contraccezione mi pare un atteggiamento che avvilisce la sessualità, facendone oltretutto emergere soprattutto il volto minaccioso. I bambini e gli adolescenti debbono certo essere informati dei rischi legati alle relazioni sessuali. E tuttavia mi pare che sia necessario che queste informazioni siano un corredo rispetto invece all’importanza che una formazione di questo genere dovrebbe assegnare alla conoscenza del piacere sessuale, del modo in cui è stato nel tempo fatto oggetto di sacralizzazione, di venerazione, di iniziazione, di avventura in determinate culture oppure di divieto, marginalizzazione e maledizione in altre. Mi pare importante che bambine e bambini e ragazze e ragazzi possano lentamente scoprire la grande ricchezza dei miti e delle religioni nel loro rapporto con la sessualità, dell’immaginario sessuale depositato nelle letterature, nelle storie, nell’arte, nella musica, nel teatro, nel cinema e così via. Che possano conoscere la ricca trattatistica, sia laica che esoterica, legata alla vita sessuale, al suo potere trasformativo, non solo generativo in senso biologico, addirittura magico e visionario.

Che possano infine entrare in contatto con una visione della sessualità come grande arte dell’amore sensibile, in cui tutti i sensi debbono essere coinvolti, allenati e potenziati, dove la cura del corpo, della sua cosmesi, dei luoghi e degli ambienti, delle diverse fasi dell’atto come del suo immenso potenziale di esplorazione, scoperta e invenzione debbono venire fatti oggetto di una vera e propria pratica conoscitiva.

La sessualità non è più un fatto biologico nell’uomo, è un’esperienza culturale, di una ricchissima cultura che si è depositata in innumerevoli opere, documenti, testimonianze, forme dell’arte e dell’immaginario. E’ una parte meravigliosa della vita che non può essere abbandonata esclusivamente all’improvvisazione ma che, anche per debellare le molte paure ad essa in parte connaturate e in parte inoculate da secoli di morale censoria e patriarcale, deve essere approfondita, coltivata, curata.

E infine ritengo anche condivisa. Le attività di mutua narrazione su questo tema, l’aiuto reciproco e il confronto, possono essere un interessantissimo terreno di esperienza formativa, certo a patto che finalmente si debellino i moltissimi tabù ancora diffusi, che ci si emancipi da visioni assai limitanti di questa esperienza straordinaria, siano esse figlie di quel misticismo che vuole la sessualità confinata nel chiuso della relazione di coppia, siano esse il tributo coatto alle richieste performative di questa nostra società del fare e del produrre sempre di più.

La sessualità è una fonte di straordinario piacere, al di là dei molti pregiudizi che, oltre alla religione e alle morali dogmatiche, anche le moderne scienze psicologiche vi hanno introdotto, ma non è ovvia. La nostra visione è ancora molto arretrata, viziata e paurosa. Occorre un grande avanzamento (per esempio per scoprire, con Riane Eisler e altri, che alle nostre origini, nelle società e religioni prepatriarcali, il piacere sessuale era onorato, rispettato e oggetto di specifiche pratiche iniziatiche), uno sforzo che ritengo debba anche tradursi in una potente formazione, a partire dall’infanzia, con gradualità e secondo i linguaggi adatti ma con decisione, urgenza e passione.

La sessualità, non dimentichiamolo, è dono e dissipazione, contro ogni ideologia dell’accumulazione e del profitto. Questa sua dimensione radicalmente controcorrente può essere però sempre tradita proprio dall’infiltrazione di un imperativo di tipo prestazionale. Per evitare questa deriva c’è una sola strada, la cultura della sessualità.

venerdì 18 luglio 2014

Il delirio dei valutatori...



Sempre più mi si chiarisce il nichilismo violento, il delirio dei valutatori, della valutazione, dei valutazionisti.
Vanità e follia di un comportamento che umilia e corrompe l'esperienza del sapere. Lo avverto ormai con un'acutezza che quasi suscita il grido.

Quanto dovremo sopportare ancora e ancora questi bruti della domanda sterminatrice, questi ossessivi del controllo, questi ispettori delle menti alla ricerca di frantumi di conoscenza? Continuano a indagare, con le loro torce inutili, dentro i cervelli, per stabilire se le macerie di esperienza mutilate e prescritte dai loro manuali sono arrivate a destinazione, se sono state immagazzinate, se qualcosa è rimasto nelle povere menti martoriate dei loro alunni.

Lo sanno loro, quei folli, che tutto quello che è stato immagazzinato a forza già l'indomani sarà evacuato insieme ai libri ferali che ne veicolarono l'infausta ingestione? E proprio a causa di quella forsennata imposizione?

Non capiscono che l'unica domanda che si può porre, dopo che un incontro con il sapere si sia dato, un incontro acceso, vivo, integro e emozionato, un dono di conoscenza condivisa, potrebbe solo essere:

Che cosa ti ha toccato? Che traccia ha lasciato questo incontro?
Che cosa ha preso dimora in te?
Cosa ha trovato ospitalità? Chi?

sabato 12 luglio 2014

Delle nostalgìe dell'amore eterno



Circola molta nostalgìa. Una nostalgìa menzognera, in quanto proietta nel passato l’idea che in esso siano custodite le icone della certezza, della verità, dell’eterno. Il che è solo parzialmente vero, soprattutto se a quelle certezze si voglia connettere un’ipotesi di vita più integra, più autentica, più piena.

In realtà l’unica certezza del passato è che in esso i dispositivi del potere erano molto più capaci di dominare il destino delle persone di quanto non lo siano oggi. La debolezza dell’ignoranza rendeva le persone molto meno capaci di disegnare un proprio destino altro da quello che le diverse istituzioni (stati, chiese, padroni) prescrivevano loro.
Nel nostro tempo le forme del potere hanno dovuto sofisticarsi e investire capillarmente l’immaginario profondo proprio perché la consapevolezza delle persone è molto più attrezzata e in grado di distinguere e respingere le pratiche più rozze del soggiogamento.

L’unica vera certezza che ha abitato il passato è stata, su vasta scala, quella del dominio.
L’amore eterno, una bugìa con cui spingere i popoli in simulacri di vita, mentre i potenti vivevano amori libertini e raffinati. Il matrimonio, una istituzione buona per i poveri in spirito e in materia. Per i potenti (maschi naturalmente ma non sempre e non solo) è stato sempre e soltanto un paravento simbolico, dietro il quale consumare vite all'insegna dell'eccesso. E così via.

Certo, la favola bella dell’amore eterno è in sé struggente e al tempo stesso rassicurante. I casi rari di amori tali, mi viene in mente André Gorz e il suo bel libro alla moglie appena scomparsa, sono stati il frutto di catene di circostanze imprevedibili e particolarmente singolari. L’incontro amoroso resta qualcosa di estremamente delicato, vulnerabile, preda di un vortice incessante di scarti, di iati e di rare coincidenze. L’accettazione integrale dell’altro è una chimera altrettanto radicale, che si fonda sull'accettazione di amputazioni non sempre contenibili entro una soglia sensata di sopportabilità. L’entropia amorosa è un percorso così evidente che non necessita neppure di essere esemplificato. Piuttosto taluni eroismi amorosi sono l’effetto di concatenamenti aleatori, ben altro che l’insistenza nella ripetizione e la divinizzazione della ferita, come sostengono certi nostri psicologi nostrani.

Indubbiamente l’amore a due, la coppia, restano collaudati deterrenti e anestetici potenti contro la morte (quella sì unica e certa) e come tali offrono un riparo tra i più frequentati (con buona pace dei nostri savonarola scagliati contro il malcostume del tempo). Ma la morte, che siamo d’accordo sta anche e forse soprattutto nell’affermazione feticistica dell’ego, si eufemizza forse solo dissolvendosi nel flusso dei molti, piuttosto che nell’idolatria dell’Altro, il Tu dietro il quale traluce sempre l’ombra del monoteismo.

Chi oggi parla di eternità dell’amore non può non rendersi conto che sta reintroducendo un’idea che in effetti ha avuto una lunga vita nella nostra civiltà ma in tanto e in quanto sussisteva appunto una garanzia escatologica. L’eternità è l’eternità. Nel tempo in cui tutto appare generato dalla fine di questa fede, o, per essere più chiari, nel tempo della morte di Dio, queste parole sono false e ingannatrici. Assumere fino in fondo la propria finitezza, o meglio, vivere con la morte, significa non essere più disposti a sopportare alcuna attenuazione dell’intensità della propria esperienza in attesa di un riscatto trascendente. Il vincolo eterno ha funzionato, o meglio è stato sopportato dalla gran massa delle persone fintantoché si è potuto immaginare una compensazione di una vita dimidiata qui in un’altra vita piena là. Questa è stata la vera ragione che per secoli ha reso sopportabile a moltissimi un destino di sottomissione e di rinuncia.

Oggi questo non ha più alcun effetto almeno sulla massa di chi vive nella nostra civiltà. Che poi resista una sorta di speranza, oltre ogni evidenza, è un’altra questione. Ma occorre tenere conto di questo. E leggerne l’elemento intrinsecamente emancipatorio. Nessuno deve più essere disposto a tollerare nulla che non sia pienamente congruo al suo desiderio di affermazione vitale in un contesto ove la vita è diventata radicalmente immanente. Non solo sotto il profilo delle relazioni ma in ogni senso, nel lavoro, in generale nel disporre del proprio tempo.

Senza escatologie le morali del sacrificio non valgono più. E dunque, per quanto straordinariamente imbellettata, anche l’ipotesi dell’amore eterno, che è chiaramente l’eccezione, e lo è sempre stata, e non la regola, diventa molto sospetta se predicata in un regime di assenza di riscatto eterno. Chi oggi moraleggia ad ogni più sospinto sul fatto che i molti vogliano divorare il loro presente, non coglie questo elemento decisivo, in sé peraltro gravido di un potenziale di insofferenza per ogni forma di dominio.

Vero è che il potere è stato molto abile a indirizzare il desiderio vitale verso mete che esso manipola incessantemente. Ma chi oggi depreca il desiderio di affermazione vitale, l’insofferenza per ogni dilazione del proprio piacere, l’incapacità a tollerare le frustrazioni, forse non si rende conto di questo fondamentale mutamento di prospettiva antropologica. Oggi, in assenza di Dio, ognuno di noi vuole una vita integra, intensa, sempre e comunque. Ogni interruzione di questa possibilità è percepita come un attentato. Tutto ciò può apparire anche tragico, e forse disperato. Ma è anche vero che è proprio questa consapevolezza, quella della tragicità del vivere che, da sempre, rende gli uomini potenzialmente in grado di non farsi rubare la vita. Cosa che invece gli spacciatori di eterno, in genere, hanno sempre fatto e continuano in molti luoghi del mondo, a fare.

E comunque resta il fatto, come detto sopra, che l’amore e il desiderio, ineludibilmente compagni tra loro, sono traiettorie molto fragili, esposte a mille e mille possibilità di infrangersi. E questo tanto più in quanto il mondo si riconosce plurale, molteplice, irriducibile ad ogni fantasma di unicità. Tanto più in quanto si fa aperto alle differenze, alle singolarità, ai mutamenti e al divenire. Solo l’idealizzazione sostanzialista e improponibile di qualche relitto di verità e unicità può oggi cercare di rinverdire l’idea dell’amore eterno o di una maturità sentimentale. Il vento, anzi la tempesta dell’avvento dei molti e diversi rende impraticabile ogni resurrezione di feticci teologici, all’insegna dell’identico. Nulla resta identico, e prima di tutto quello stesso che dovrebbe costruire la pietra su cui fondare l’edificio di una relazione stabile. Non c’è nessuno stesso ma sempre un altro appunto, un altro che di minuto in minuto ci sfugge e si rende irriconoscibile se non a prezzo di sforzi disumani di continuo aggiustamento, di continuo rincorrersi.

Ma, instancabile, l’opera della restaurazione rinasce dalle sue ceneri, là dove non pensavi di trovarla.

Va da sé che l’arrendersi plenario e finalmente innocente al mondo dei flussi, del reversibile e del mutevole è probabilmente ancora lungi dall’accadere, specie quando tornano in auge i miti del sempre, del medesimo e del due, quel due che è sempre una trappola, una trappola comoda per chi vuole soggiogare, non per chi voglia spingere il mondo al possibile. Il possibile è sempre oltre ogni dualismo (dietro al quale naturalmente sibila il vecchio feticcio dell’uno), sta al minimo nella fessura necessaria che fa irrompere il “terzo escluso”.

martedì 10 giugno 2014

L'epoca dei numeri tristi (e infami)




L’orrore avanza, implacabile. Nell’epoca in cui, con pieno plauso dei nuovi yuppies accademici tutti prestazione e internazionalità, si valuta sempre di più il numero delle pubblicazioni e non quello che c’è dentro; la lingua in cui sono scritte (purché sia l’inglese, unica lingua che fa punti) e non certo il tema; la rivista su cui appaiono, che deve essere mainstream anche se palesemente conformista e ripetitiva; ebbene in quest’epoca, quella in cui la valutazione di tutto diventa così reticolare e capillare che uno si chiede se verrà valutato anche sul come riempie la tazza del cesso, e se questo verrà reso pubblico (aggiorno gli ultimi disinformati che da quest’anno anche le nostre università, come le prestigiosissime e intramontabili anglosassoni, esporranno le valutazioni assegnate dagli studenti ai docenti in un autentico tripudio di democrazia valutativa: non perdetevele! Come dire, invece di rinnovare e magari eliminare le valutazioni che impallinano da sempre gli studenti sostituendole con qualcosa di più sensato, la cosa migliore è mettere sotto tiro qualunque cosa si muova. So che dire questo mi fa cattiva pubblicità davanti al nutrito fronte valutazionista, uno dei pochi fronti del tutto transpolitico e interclassista ma pazienza), ebbene, dicevo, la quantità sempre più trionfa.

Ieri mi capita sott’occhio la pubblicità di un convegno pedagogico, su un argomento sempre "hot", l’adolescenza. La pagina iniziale di informazione del convegno è una vera e propria summa dei valori del nostro tempo: il calcolo e il nulla. Accanto alle foto di tutti i relatori, che ruotano avanti e indietro grazie a un click (non vi dico quanto invoglia andare a un convegno dopo aver visto le brutte facce dei suoi relatori ma va da sé, è molto trendy, molto americano), accanto, subito vicino, campeggia a lettere cubitali la descrizione del convegno, il suo sex-appeal: “due plenarie, 14 workshop, oltre 30 relatori”, alè, chi più ne ha più ne metta. “Oltre 30 relatori” è fantastico, è stratosferico, è troppo fico! Oggi i convegni vanno a numeri di relatori. Capisco che la quota del convegno, che non enuncio per carità di patria, visto che è un convegno italiano, sia parecchio alta e vada giustificata. E allora vai con un numero competitivo di workshop e un numero super di relatori: signori e signori, siamo oltre i 30!
Poi nient’altro, non il programma, (criptato sotto l’elenco dei relatori e dei workshop), solo una lista di argomenti piuttosto appealing: cyberbullismo, sessualità, devianza, autolesionismo ecc. ecc. (il solito ritratto agghiacciante dei poveri ado, qui definiti “supereroi fragili”). C'è anche un video(ormai immancabile nel marketing convegnistico), con uno scoppiettante intervistatore e l'introduzione del coordinatore scientifico.

Inorridisco.

Capisco di essere sempre più fuori tempo e non mi stupisco che l’autorevole critico letterario di “Italia oggi”, giornale peraltro autorevolissimo, abbia definito il mio ultimo libro “vintage e chic”. Va bene così. Sono vintage e chic, o forse voleva dire kitsch. Chissà mai.
Meglio vintage di questa merda però.

P.S. : sì, me lo hanno detto che un buon bloggista non dovrebbe fare troppo l’arrabbiato, non dovrebbe usare un linguaggio scurrile, dovrebbe essere positivo (per avere seguito, per essere “followed”). E va bene, non sarò followed. Però il mio risentimento, con buona pace del caro Nietzsche, ogni tanto bisogno che lo scarichi. E, come diceva il vecchio menestrello bolognese, uno super vintage, anzi oramai da fiera dell’antiquariato, a culo tutto il resto!

giovedì 22 maggio 2014

Sad Eros



Oggi per il povero Eros tira una brutta aria, aria di miseranda restaurazione. Da Badiou a Han ritornano al galoppo tutti i vecchi rosari. Prima il grande ultimo filosofo comunista che si affida anche lui ai sempreverdi Platone, Agostino, Goethe per perorare la causa intramontabile di un amore vero, uomo-donna, fedele all’Altro, assoluto, capace di resistere alle lusinghe dei flussi contemporanei, delle macchine desideranti o delle chat erotiche. Il pensatore coreano, tanto brillante e incisivo nella Società della stanchezza, oggi ci rifila anch’egli l'assolutamente altro, tra Hegel e Levinas. Sui nostri rotocalchi si addomestica Lacan per farne una versione per le scuole (private e cattoliche).

Seppelliti da tempo i Marcuse, i Reich, i Lowen, sempre occultato il povero Fourier (che tuttavia andrebbe riletto con più gusto e un pizzico di humour), sembra che coppia e amore eterno debbano essere nuovamente gloriati e santificati.

Quanto poco ascolto per chi di eros e sesso davvero ha trattato con finezza e consapevolezza profonda. Riane Eisler per esempio, il cui “Il piacere è sacro”, un libro formidabile che fa l’archeologia della demonizzazione del sesso, andrebbe a mio giudizio reso obbligatorio a scuola, tanto per ricordare da dove veniamo e dove rischiamo ancora di andare (noi figli di un immaginario patriarcale assai solido anche nella grecità). E perché no, persino il supermaschilista Julius Evola, capace però nella Metafisica del sesso e anche in altri scritti di disegnare con magistrale scrittura la grande e fondata sacralità dell’eros, il suo potere trasformativo e visionario.

Noi perdiamo di vista che con Eros andrebbe sempre ripensato Dioniso e dietro lui la coppia Shiva-Shakti, autentica radice di ogni sessualità radicata nell’esperienza della terrestrità, della natura e di una cultura non solo intrisa di scissioni e minorazioni (e si rammenti così anche Danielou).

Ma no, noi siamo appesi alle nostre stampe vittoriane, alle fiabe romantiche, alla indissolubile coppia amore-morte, pronti ad asserragliarci intorno al vecchio codice ristretto condito più o meno variamente di teologie e sacralizzazioni improprie, l’assoluto, la verità, il dolore.

Come fare per insinuare in questo accampamento di irriducibili monaci trappisti, (con tutto il rispetto dovuto a quelli autentici), il sospetto che la sessualità è il centro della nostra esperienza nel mondo, di una vita possibilmente vissuta all’insegna del piacere, della condivisione, medicine insostituibili per placare l’orrore della competizione?

Quanto tempo occorrerà perché finalmente una cultura della sessualità degna di questo nome, e non solo una manfrina di retoriche psicologiste e istruzioni medico-sanitarie intrise di moralina, entri nelle nostre scuole, nella società, nel cinema (anche) per non abbandonare i ragazzi e le ragazze all’incontro con l’esperienza più straordinaria della loro vita in balìa di preconcetti, timori e un immaginario mediale violento e ripetitivo.

E’ inutile, sono anni che provo a scuotere i miei studenti nei banchi dell’università su questa “irruzione del meraviglioso”. E’ tardi. Il danno è già stato fatto. Li vedo intimoriti, inibiti, incapaci di articolare una qualunque alternativa ai copioni più logori e normalizzati. La sessualità resta un incredibile tabù, e non c’è rave che possa esorcizzare la penuria di sapere, fantasia, immaginazione.

Alla faccia dello scatenamento del godimento, quello che sperimentiamo, dentro e fuori di noi, è solo e ancora un corpo ignorante dove sensibilità e consapevolezza appaiono povere, mute. I corpi di noi tutti sono ancora goffi e passivi come lo sono quelli che si presentano davanti al tribunale della medicina o della psichiatria, corpi divisi, la cui esperienza di vita è castrata.

L’eros delle infinite sfumature, quello dei trattati antichi ed esotici, di una sacralità vitale e non sacrificale, diffuso nelle eresie, nelle letterature periferiche, nelle utopie, nell’espressività simbolica negletta dei grandi visionari di ogni tempo e luogo, quell’eros non penetra la nostra cittadella murata dalla sua anestesia.

Viene nostalgìa di un Eros bambino, alato e vagabondo e della sempre elusa potenza di Afrodite, che ci richiamerebbe a un grande elogio del piacere che mai abbiamo conseguito, tra teologie une e trine e simulacrali godimenti acefali.

Per sfregio, di fronte a tanta santificazione dell’amore con la A maiuscola (la cui esclusività, non lo si dimentichi, è anche causa di inenarrabili sofferenze), perorei con forza la causa della masturbazione, atto pacifico e individuale, di pura dissipazione, antiproduttivista e, come diceva Woody Allen (il cui narcisismo non si può negare abbia avuto grande potere creativo), atto erotico che si consuma con qualcuno che, volenti o nolenti, si stima.

E però anche, con il vecchio Fourier, voglio immaginare una combinatoria più ampia, complessa, una rotazione, una gerarchia mobile e virtuosa, dove la manìe si combinino con le manìe, non per premiare un piacere esonerato dall’intensità persino delle sofferenze, per quanto magari attutite da una sacrosanta affermatività, ma solo per onorare la vita, la breve vita che ci è capitata e che ci scorre via mentre ci accapigliamo per togliere al nostro tempo ogni autentica possibilità di essere “goduto”.

domenica 27 aprile 2014

La scomparsa dello sguardo



Guardandomi in giro non trovo più sguardi. Né quelli apatici di chi rotola mesto al lavoro. Né quelli garruli di chi rimugina una qualche fortuna. Né quelli torvi di chi odia il prossimo ( e anche il distante), né quelli curiosi di chi ti esplora con attenzione, né quelli timidi di chi guarda di sfuggita, obliquamente, o, talora, in tralice.

La verità è che l’esperienza di guardare ed essere guardati è totalmente tramontata. Non perché si sia diventati ciechi. Assolutamente no. Semmai perché gli occhi sono stati ingoiati da quei prodigiosi apparecchi che sono i moderni cellulari. Piccoli, maneggevoli e potentissimi strumenti di alienazione terminale dello sguardo.

Osservo le persone in auto, dal momento che vi trascorro ahimè molto tempo. Una percentuale altissima è al cellulare, alcuni per parlare (per un tempo incredibilmente interminabile, mi chiedo sempre su quali conti vadano chiamate di tale lunghezza), altri per vedere, digitare, accarezzare per far scivolare le molte finestre e finestrine e finestrinine dell’ingegnoso strumento.
Per strada, sugli autobus, nelle stazioni è anche peggio. Ovunque non si incontrano più sguardi ma corpi immersi nel flusso microscopico e magnetizzante dei loro cellulari. E se per caso si scopre qualcuno che non è adeso all’oggetto, anche se lo tiene quasi sempre comunque in mano, come una specie di fallo sostitutivo (specie le donne, va detto), ecco che, di fronte all’insolenza del mio sguardo, subito la difesa è fuggire nel piccolissimo schermo, l’ultimo di una catena di rimpicciolimenti nel campo della comunicazione(dal grande schermo, il cinema, al piccolo schermo, la tv, allo schermo micro, l’androide o aifono che sia).

Non si veda in ciò un rigurgito si moralismo. A scanso di equivoci anch’io possiedo un cellulare, androide credo, e lo uso, per quanto con una parsimonia tale che certi giorni neppure mi accorgo della sua esistenza. In gran parte parte perché ancora mi rifiuto di leggere la mia posta, i messaggi, le notizie e tutto il resto dentro quel miserabile schermo ma, soprattutto, perché ancora le mie dita non hanno sviluppato l’abilità tutta contemporanea della scrittura su microtasto. Imperciocché perderei tempo e vista a mettere insieme anche poche frasi spesso rischiando, con l’uso del T9, di sbagliare molte parole accorgendomene troppo tardi.

In verità però c’è anche dell’altro. Oso appena mormorarlo: inspiegabilmente, contro ogni evidenza, credo che il mondo là fuori sia più interessante delle per quanto mirabolanti infinite possibilità di acciuffamento di novità, messaggi e chattamenti vari il cellulare possa mai predisporre per me (fatte salve le urgenze). In fin dei conti il mondo del possibile, per quanto brutto possa essere, e spesso lo è, eccome, è quello là fuori. Quello nel microschermo è comunque il mondo piccolo, privato, a uso e consumo della mia petizione, delle mie intenzioni, per quanto lontano si possano spingere. E tutto sommato pur sempre un mondo che fatica molto ahimé, a trasmutarsi da fantasmatica virtualità in concreta e carnale consistenza.

Non essere ri-guardati è un’esperienza che travalica di gran lunga lo shock di cui parlava Walter Benjamin. Non più solo sguardi vuoti o assenti, ora proprio non sguardi. Perché per quanto, negli attriti imprevedibili della folla, di tanto in tanto uno scambio di sguardi, un bagliore di reale impertinente, prima dell’avvento dei microschermi, ancora poteva essere incontrato. Ora non più. Oltre al fatto che il contatto continuo con la parata molteplice delle scene del cellulare, di cui certo non può essere negato il fascino, pari a quello di un moderno caleidoscopio, è comunque un lavoro, un’attività, che non consente mai di riposare, di defluire, di calare nel mondo semplicemente per sostarvi inattivi, passivi, immemori (oppure memori ma di qualcosa che non ci piova addosso dal cellulare).

Insomma il cellulare, anche se certo è anche uno strumento che arricchisce il repertorio delle nostre possibilità comunicative, è l’ultima frontiera dell’annichilimento dell’incontro fortuito nel reale. Oggi l’incontro (fortuito?) si dà solo nell’irreale, con tutte le complicazioni che ciò suscita, naturalmente (presentazioni ingannatrici, fake, raggiri di ogni tipo, come è giusto che sia in un ambiente del tutto virtuale).

Trottoliamo nel mondo ignari di tutto, senza più sollevare lo sguardo su ciò che ci circonda (non stupisce allora che l’orrore che ci avvolge possa incrementare ogni giorno la sua proliferazione, in assenza totale di vigilanza (vedasi l’espansione cancerosa degli obbrobri expofili del paesaggio della mia città in questi ultimi anni)).

Ma soprattutto totalmente in opposizione all’altro che non ci viene più incontro, che non più con-è, tanto per dirla un po’ fenomenologica. Perché è del tutto in-line, ben al riparo dall’interlocuzione improvvida tanto quanto da quella provvida.

Chi ha più il coraggio di accendere una comunicazione con qualche compagno di viaggio in treno quando tutti appaiono presi da un altrove illocalizzabile, o comunque affaccendati, con quell’aria compiaciuta di chi può finalmente negare la sua solitudine costitutiva esibendo la parata delle sue gloriose conversazioni (perlopiù imbarazzanti o semplicemente ottuse, come quelle diffusissime con la mamma o il marito/moglie), o peggio, mostrandosi entusiasticamente travolto da una digitazione che appare però più una prestidigitazione (per la incredibile rapidità della tecnica)con un non-si-sa-dove non-si-sa-quando però assolutamente incomparabile con la tenue possibilità di un contatto con chi è lì, magari a pochi centimetri da lui, e che, per colmo della sorte malevola, deve pure sorbirsi le sue chiacchiere o il suo entusiastico diteggiare, a meno di non contrapporre a sua volta la magìa sconfiggi-sfigataggine con un altrettanto roboante tastipestamento orgastico.

Sì è vero prima c’erano i libri a difenderci dal prossimo ma in modo più tenue, più silenzioso e in fin dei conti non del tutto impenetrabile. Dal libro lo sguardo si leva talora, anche solo per rimuginare e riaffiorare al mondo. Dal microschermo non si riemerge più.

L’uomo è finito, diceva un filosofo non proprio di buon umore, un po’ di tempo fa. Ho sempre riluttato a questa sentenza, allevando in me, seppure con una progressiva difficoltà a trovare materia per alimentarla, una sorta di apotropaica speranza nella reversibilità del nulla.
Oggi la materia in mio possesso sta scivolando via come l’ultima sabbia di una clessidra, di fronte a questa razza di cellulare-protesizzati che vagano come sonnambuli in un reale definitivamente lasciato a sé stesso e agli ultimi inevitabilmente depressi testimoni del suo abbandono.

E’ triste non trovare più sguardi con cui scambiare la muta solidarietà dell’essere umani, quella che allude ad un comune destino, magari ingrato, quella di una semplice elemosina di attenzione, o quella più esuberante o intimidita di una seduzione. Nulla di tutto questo è più possibile.

La civiltà dell’ “autos” ha partorito il suo ultimo indefettibile apparecchio di distruzione della “social catena”, quella che sembrava poter magari debolmente contrapporsi allo strapotere di minacce anonime o organizzate, naturali o artificiali che fossero, laggiù nel reale. Oggi c’è una “social catena” in-line, invisibile, imperimetrabile, fondamementalmente autistica. L’hikikimori (quello che si chiude in casa per commerciare con il mondo solo via schermo) è a un passo.

Non so se sia meglio o peggio. Da quello che vedo deve essere meglio. Bisogna che sgomberi i miei dubbi, che smetta di sperare in un ri-guardo che non viene più. Sono proprio un vecchio romantico, credo ancora nel flâneur, nelle derive nel mondo (quello reale), nel sorriso di qualcuno che ti passa accanto o anche semplicemente nel saluto, quello che un tempo (ora quasi più) chi passeggiava si scambiava in montagna (dove però grazie al cielo spesso, ma per quanto? i cellulari non funzionano sempre a dovere).

Basta con questo ciarpame.
L’unica è che faccia un corso di microditeggiatura veloce e mi inchiodi anch’io al mio cellulare, giorno e notte, in auto o in metrò, via dalla pazza folla!