la gaia educazione

la gaia educazione

sabato 24 febbraio 2018

Torna l'educastrazione



Tira aria di repressione sessuale tra le mura delle istituzioni educative negli ultimi tempi. Vento di nuovi ascetismi, visto che le politiche di intimazione alla professionalità, alla produttività e alla competitività non bastano da sole a prosciugare la qualità umana da quei luoghi già abbastanza ingenerosi verso la vita che sono gli obitori scolastici. Ultimamente si parla di sanzionare i professori che a scuola si permettono di intrattenere via social network relazioni con i propri allievi (sia didattiche che personali). Ovunque nascono commissioni che, approfittando del clima generale, sono pronte a squalificare chiunque si permetta di far circolare un po’ di calore umano nei setting della formazione, da candeggiare al più presto possibile da ogni traccia di eros e di contatto umano. Sul corriere della sera ho anche letto che in Inghilterra il preside di una scuola privata nel Denbingshire ha vietato l’innamoramento reciproco tra studenti, con la scusa che esso deprimerebbe l’impegno scolastico.

L’eros ha da sempre fatto molta paura agli istitutori, ai rettificatori, ai direttori e ai chiarissimi rettori. Tutta gente con la spina dorsale dritta e le pudenda ben protette dalle famose mutande di ghisa. Che l’amore circoli nei luoghi dell’educazione è cosa nota da quando gli uomini hanno cominciato a murare i loro cuccioli dentro alle varie sedi di tortura pensate per loro (dai collegi, ai convitti alle sacre scuole regie ma anche repubblicane). Lì dentro, nonostante la fornicazione avvenisse dietro ogni angolo appena protetto, il desiderio, sia erotico che non, ha sempre subito severe misure di prevenzione e di repressione.

Gli anni 60 e 70, con i loro slogan colorati, erano riusciti a far respirare un poco le aule plumbee con una specie di ritorno del rimosso, sotto forma di apertura al mondo esterno, al dialogo, alla simmetria nel rapporto educativo e, persino, un poco di riabilitazione degli affetti e del povero eros.

Oggi però i probi viri e le probe virago anche più rauche di quelli, son tornati a invocare la ghigliottina per chi commercia anche con il cuore e la pancia, oltre che con l’algido cervello, nei luoghi dell’educazione, da sottrarre nuovamente ad ogni lusinga del desiderio o semplicemente della simpatia e della “convivialità” (povero Illich che ci credeva tanto), per ristabilire la dura lex dell’astinenza, della castrazione (educastrazione secondo Celma) e della sublimazione più o meno condita da qualche breviario sub specie psichanalitica.

I nuovi catechismi ci vogliono e soprattutto vogliono ben presto i nostri pargoli (già “culculi” come li definiva Gombrowicz nel Ferdydurke come perfetti allievi innocenti e puri di cuore), pronti ad ogni domesticazione, ad ogni estirpazione della loro qualità umana affinché unica a rifulgere sia la loro statura professionale, o per dirla in modo più chiaro, la loro misura di vendibilità, occupabilità ovvero rottamazione secondo gli indicatori dell’intelligenza emotiva e della capacità produttiva.

Per chi come me si batte per un’autentica erotica dell’educazione (cioè in cui passione, eros e piacere non siano solo merce sottobanco e di contrabbando ma elementi vitali indispensabili), son tempi di dolore e di esilio ma attenzione, presto vedremo non più i nostri giovani solo afflitti dalle passioni tristi quanto totalmente eviscerati dai desideri (almeno quelli liberi), neppure più quelli che oggi ci sembrano tanto spenti e avvilenti.

Ovvio che l’unica strada è scappare via (dalla scuola media, come diceva Todd Szolond nel suo notevole film ma non solo da quella evidentemente), via da queste anticamere della morte emozionale, immaginativa, creativa e pulsionale. Via dai nuovi e vecchi moralismi, totalitarismi di genere, a caccia della poesia e dell “eresia erotica” di cui parlava Radovan Ivsic.

Restituiamo dignità al corpo, alla sensibilità e ai desideri fondando scuole nomadi, rampicanti, arboree, sessuate, “diffuse”, comunque lontano dai nuovi protocolli ingessanti, dai galatei monacali, dalla distruzione di quel poco di umano sopravvissuto all’industrializzazione del nostro immaginario e delle nostre passioni.

domenica 18 febbraio 2018

Spari, botte e la scuola dell'ignoranza




Negli ultimi tempi sembra che i ragazzi e le ragazze abbiano cominciato a menare le mani non solo verso i coetanei ma anche verso gli insegnanti. Una cosa deplorevole, un indice di barbarie, un sintomo della condizione sempre più degradata della nostra gioventù. Colpa delle famiglie protettive! Colpa della tecnologia! Colpa del consumismo che rende questi ragazzi amorfi e tristi!

E compagnia cantando.

Poi ci sono quelli che rivogliono una bella scuola della cultura (contro quella dell’ignoranza) (tipo Saudino). Non so dove la vedano, suppongo nel passato anche se, riandando al passato, io non la ricordo. E dubito che fosse grazie al maggior tempo a scuola che essa sarebbe esistita.
E’ davvero difficile riuscire a pensare oltre la scuola, vederla per quella che è ed è sempre stata e sempre sarà, se si continua a ritenere che essa nei suoi fondamenti debba essere solo restaurata.

Io lo ripeterò fino alla nausea. E’ la scuola che non funziona, per quanto belle materie, bravi insegnanti e orari più lunghi possano fare. E’ la scuola che è violenta, sbagliata, incapace di realizzare apprendimento autentico. Forse che la scuola di trent’anni fa (non so a quale pensi Saudino), facciamo anche cinquanta, realizzava più cultura di questa? Ne ha realizzata talmente tanta che per vent’anni ci siamo beccati il governo più ignorante che forse abbiamo mai avuto. Eppure quel governo l’ha votato gente che usciva da quella scuola! Cosa non ha funzionato? Non è stato fatto abbastanza greco, abbastanza storia, abbastanza arte?

Ma di che stiamo parlando? Crediamo che aumentando il carico di ore scolastiche e riconvertendo le materie su quelle autenticamente culturali, otterremo un paese colto ed emancipato?

Crediamo che la cultura a scuola non abbia sempre fatto la fine che continua a fare, cioè trasformarsi da oro in piombo? Il piombo dell’obbligo, del ricatto e della paura? Certo una sparuta minoranza di privilegiati possono anche ricordarla con il giusto fervore di chi era già stato predisposto alla posa obbediente e disciplinata che lo studio in un tale contesto presuppone. Ma tutti gli altri?

Ma veniamo alla violenza, l’orrore delle cronache di questi giorni. In nome di Dio, come si permettono di alzare le mani sui loro insegnanti?
Mi spiace, non mi intonerò alla nenia di chi difende la scuola ad ogni costo e getta sugli studenti tutte le colpe, o sui loro genitori. Al contrario, mi stupisco che non sia accaduto prima, vista la quota di violenza, fisica un tempo ma anche ora talvolta, e soprattutto psicologica, che studenti e studentesse da sempre sopportano non certo solo dai loro insegnanti (benché anche da loro) ma da tutto il terribile dispositivo normativo da cui sono soffocati e stritolati.

Crediamo forse che la scuola sia un luogo dove esiste comprensione, collaborazione, tutela delle libertà personali, riconoscimento delle differenze, assistenza autentica in funzione dell’apprendimento, cultura e soprattutto cultura dell’insegnamento? Siamo così folli da credere questo? Crediamo che il modo di costruire le classi, di ordinare gli orari, di imporre la disciplina, di imporre tutto dal momento che nulla è scelto, sia il modo giusto per impostare un percorso di apprendimento? Crediamo che un luogo concentrazionario e repressivo come questo sia il giardino di Epicuro o il Peripato di Aristotele?

Crediamo che tenere alla larga i nostri ragazzi e le nostre ragazze dal mondo reale e dai suoi conflitti, dalle sue opportunità come dalle sue contraddizioni, sia un buon modo perché imparino e imparino a conoscerlo, sub forma di magnifici manuali di inamidamento e ibernazione del sapere come le nostre indimenticabili storie della filosofia, dell’arte o gli eserciziari di matematica?

Naturalmente ce ne possiamo raccontare tante e tenerci stretta la nostra bella esperienza con l’insegnante x o y, che non a caso avevano scelto noi, proprio noi, come ci racconta il buon Psicanalista, come discepolo o discepola preferito, per ritenere la scuola un’oasi di bellezza, di studio e di convivenza pacifica e amicale.

Peccato che essa invece sia un luogo di pena per la grandissima parte, che alcuni oggi siano così esasperati da essa ma anche dal nulla che trovano fuori (dove nessuno si pone il problema di rendere ospitale per loro (i nostri piccoli) un mondo che non è per nulla ospitale neanche per noi!), che la voglia di venire alle mani (che c’è sempre stato, sarebbe una follia fingere che non sia così in questi luoghi di detenzione), arrivi fino alle autorevoli e sacre figure degli insegnanti.

Certo, oggi ragazze e ragazzi non vedono più i loro insegnanti come sacri incunaboli del sapere, grazie anche a famiglie un po’ meno inginocchiate davanti alle istituzioni educative -che nulla mantengono di quello che promettono ma soprattutto davanti ai loro soprusi-, non vivono più la scuola come una pena santa in nome della quale immolare il loro tempo, i loro corpi e troppo spesso anche le loro menti.

La vita sociale è una vita sempre più violenta e si dà il caso che nessuno si preoccupi di offrirne una elaborazione seria, men che meno la scuola, barricata dietro la sua offerta formativa (che sostituendo i gadget alla filosofia certo non guadagna un centimetro di credibilità, men che meno con la ridicola e pericolosa alternanza scuola lavoro).

Occorre un ripensamento ben più radicale, che parte dalla vita sociale, dalla quale abbiamo escluso le generazioni più giovani, per regalargli un simulacro di tempo libero di cui non sanno che farsi, invece di una partecipazione autentica e di percorsi formativi stimolanti e nel vivo della vita comune. La scuola è solo un luogo dove trattenere questa copiosa parte della popolazione che nessuno sa dove mettere, sotto il giogo delle valutazioni, dei test e delle psicodiagnosi sempre più diffuse ed allarmanti.

Non mi stanco di ripeterlo, (prima che alle botte succedano gli spari, come già accade altrove), non colpevolizziamo i ragazzi e le ragazze, guardiamoci in faccia noi, giudichiamo noi stessi per quel nulla che facciamo per loro, per la nostra insofferenza, per il nostro poco tempo, per i nostri giudizi frettolosi e corrivi, per l’abbandono al nulla organizzato che li circonda, scuola compresa, cui continuiamo a delegare un fantasma di formazione dall’aria sempre più grottesca e inattendibile.

Occorre pensare oltre la scuola, verso una “città educante”, come con altri (il mio amico Campagnoli in primis, e si veda il nostro La città educante. Manifesto dell’educazione diffusa, edito da Asterios) tentiamo di dire e fare. Se vogliamo che i nostri ragazzi abbiano voglia di imparare, di esserci nel mondo vivi, partecipi, a pieno titolo, occorre che anzitutto glielo riconosciamo, che gli restituiamo il titolo di soggetti, di soggetti che vogliono esserci e che trovano nella società e non solo nelle scuole -teatrini solo dell’educastrazione-, ascolto, opportunità, tutela, ospitalità.

Forse allora cominceranno a riconoscerci come partner accettabili e non come controllori o secondini più o meno camuffati sotto le vesti degli improbabili maestri. Dobbiamo essere noi a riprendere in mano le nostre vite, il nostro tempo e la nostra voglia di stare con loro, senza rifilarli in massa a un drappello di istitutori e istitutrici di belle speranze.

Non c’è un’altra via, perché in questo ne va della loro vita ma anche della nostra, non possiamo dimenticarlo.

martedì 13 febbraio 2018

Dichiarazione di voto




Dopo lunga riflessione ho deciso che voterò la formazione politica che più sentirò avvicinarsi alla visione del futuro che vorrei e che riassumerei in questi punti, certo non esaustivi ma comunque fondamentali per ritornare a credere in un mondo vivibile:

- Abbattere il feticismo della crescita: è del tutto evidente che non è più possibile crescere economicamente se non comprimendo ancor più il nostro spazio vitale, inducendo in noi ancor più bisogni deliranti e esproprianti il minimo di contatto umano, animale e naturale che ci è necessario e senza saccheggiare ancor più terre e popoli che di certo andrebbero invece assolutamente protetti e liberati. Credo assolutamente necessario che nel futuro si debbano ridurre significativamente l’infinità di idiozie, di merci, di tecnologie che ci separano ogni giorno di più, che atrofizzano la nostra sensibilità e che distruggono i nostri gesti umani. Occorre che quallcuno ci imponga un drastico ridimensionamento del corteo interminabile di falsi comfort da cui siamo circondati e annichiliti;

- Abbattere l’altrettanto infausto feticismo del lavoro: mi rifarei alle eccellenti riflessioni di André Gorz ma anche di autori più recenti per rivendicare il diritto al non lavoro, alla riduzione del lavoro e, al contempo, al dovere minimo di tutto a contribuire al lavoro socialmente necessario (i lavori solitamente disprezzati e riservati a chi non ha altri mezzi di sostentamento: dalla gestione dei rifiuti ai servizi sociali per chi vive in condizione di svantaggio, ai lavori più duri e sottopagati). All’idolatria odiosa del lavoro (da sempre alienato) voglio che si sostituisca la rivendicazione del tempo e dei mezzi per l’espressione creativa, costruttiva e passionale di ciascuno e di tutti;

- Inaugurare una politica radicale di redistribuzione della ricchezza a tutti i livelli della vita sociale ed economica attraverso una lotta all’evasione fiscale senza quartiere, così come alla criminalità organizzata e al lavoro nero ma anche attraverso una tassazione precisa e adeguata nei confronti di ogni forma di guadagno estremo come di ogni povertà estrema, riconducendo l’oscillazione degli stipendi entro limiti normati e proporzionati;

- Per cominciare anche solo a pensare a tutto ciò credo non sia possibile non slegarsi, in modi e tempi accettabili, dall’Unione europea e dalla Nato, organizzazioni che perpetuano la nostra dipendenza dalle leggi del mercato capitalista globale e dalle sue insopportabili iniquità;

- Accelerare una politica dell’educazione che rovesci la logica mercantile cui è oggi fondamentalmente collegata per inaugurare un’educazione all’insegna dell’attrazione appassionata per ciò che si impara, dell’educazione diffusa come liberazione dal sequestro scolastico e dalla cooperazione più vasta possibile tra tutte le generazioni e tutti i soggetti finalmente aventi titolo di comparire sulla scena della vita sociale, minori non esclusi, nonché dall’impegno verso un’educazione che restituisca la giusta importanza al corpo e ai saperi simbolici;

- Indebolire progressivamente la dipendenza coatta e sempre più capillare dalle nuove tecnologie, che stanno impoverendo mortalmente la nostra vita sociale, sensibile e affettiva nonché le nostre abilità fisiche, essendo ormai impotenti senza l’ausilio di protesi tecnologiche sempre più inutili e mortiificanti;

- Affrontare l’emergenza ecologica, ahinoi, globale, in maniera prioritaria e determinata, attraverso politiche complesse che restituiscano equilibrio tra i soggetti umani, la natura e gli animali, rispondano alle emergenze dei territori e delle fonti d’acqua, riducano progressivamente, anche attraverso la diminuzione di tecnologia inutile e tossica, le necessità energetiche;

- Restituire al tempo la sua dignità attraverso politiche di riduzione della velocità della vita sociale, della frenesia e dello sfruttamento di esso attraverso la continua competizione al potere e al successo, da ridimensionare riducendo il potere dei media, abbassando le prebende per i ruoli di potere e incentivando la convivialità, il tempo liberato e l’attività volontaria o pagata attraverso le banche del tempo, le monete non votate alla speculazione o altri risarcimenti di natura affettiva o sociale;

- Incrementare le festività e i tempi di recupero e piacere, liberandosi dal giogo delle festività religiose per dare importanza a momenti di celebrazione del riposo, dei piaceri, della cooperazione, della gentilezza, della cura, affermando il nostro esserci sulla terra laicamente e all’indirizzo di tutto ciò che può restituirci la voglia di abitare la terra e non di essere gli schiavi di alcun sistema di potere;

- Affermare l’eguaglianza di diritto tra uomini e donne all’insegna di una visione complementare del maschile e del femminile, aperta a tutte le ibridazioni ma anche dedita a fondare un’autentica alleanza e non una lotta a coltello tra i buoni e i cattivi;

- Affermare il diritto all’eutanasia, alla libertà di cura (e dunque anche di vaccinazione), e all’espressione della propria singolarità culturale, etnica o religiosa;

- Accogliere le differenze come possibilità di espansione e arricchimento, e dunque apprestare politiche riguardo ai flussi migratori fortemente ispirate all’autentica integrazione nella differenza e all’aiuto e ospitalità per tutti coloro che lo richiedano. Sottolineando il valore primario dell’ospitalità sempre e comunque, a prescindere da ogni giudizio di merito per coloro che si trovano in stato di necessità;

- Liberare dal giogo delle diagnosi forzate, dalle politiche di prevenzione totalitarie e al servizio di profitti economici e dai farmaci sempre più inutili che prosciugano le nostre difese e la nostra capacità di convivere anche con il dolore, l’oscurità e la morte;

- Sottrarre dall’obbligo della redditività le opere d’arte, la letteratura, il cinema, tutte le forme di espressione simbolica che danno senso al nostro essere nel mondo, tutelando tuttavia attraverso criteri di discernimento sufficientemente fondati intrinsecamente (con tutte le oscillazioni che tali criteri non possono che comportare) la loro selezione e il loro eventuale finanziamento; rifondare i media pubblici all’insegna del servizio, della cultura e della democrazia;

- Sottoporre la classe politica ad un continuo monitoraggio, in termini di credibilità, efficacia e onestà, da parte di commissioni composte da autorità legittimate sul piano etico e di competenza, nonché dal giudizio il più possibile frequente dei cittadini;

- Ridurre il più possibile le forze militari e stabilire l’obbligo di sei mesi-un anno di servizio sociale per le giovani e i giovani entro il venticinquesimo anno di età.

Molte altre cose sarebbe necessario indicare, riguardo per esempio all'economia, alle banche, ai nuovi settori del lavoro e del volontariato e a tanto altro ma credo di aver disegnato alcuni tratti per me fondamentali di un paese riconsegnato alla vivibilità, alla partecipazione e alla giustizia.

Non ho ancora deciso per chi voterò ma i miei criteri selezioneranno le proposte che provano a muoversi in questa direzione.

lunedì 20 novembre 2017

Come ci rubiamo la vita



La lobotomizzazione dei nostri poveri sensi è giunta a livelli inimmaginabili qualche decennio or sono e molti di noi non sanno più neppure chi sono, cosa vogliono, che ci fanno qui, anche quelli più “consapevoli”.


La nostra vita è saccheggiata, ostacolata, deprivata, premuta, mortificata.


E le nostre soluzioni? Individuali, specialistiche, settarie, oppure: la morte psichica, non parlo non sento non vedo.


Dove è il punto che sembra continuamente sfuggirci, proprio mentre insinua la sua cancrena in ogni recesso, anche i più nascosti, della nostra vita?


Il punto – e lo scrivo proprio con il gusto di farlo risaltare anche nella scrittura- è la frantumazione.


Noi, i più frammentati, dovrebbe dire Rilke oggi.


Non è il tempo della povertà, ma della frammentazione. Frammentazione che ci affligge e che noi nutriamo con sempre maggiore lena.
Frantumazione di tutto: dei nostri corpi, dei nostri linguaggi, delle nostre menti, dei nostri luoghi, delle nostre relazioni, dei nostri tempi.


Stiamo morendo a pezzi, letteralmente.


Ma la vogliamo, eccome!


Se qualcuno prova a rivendicare il diritto a riprendere un pezzo di sé finito tra i cespugli qualcuno insorge e gli intima di lasciarlo dove sta, perché è meglio.


Che niente contamini niente.


Il privato non deve contaminare il pubblico, le emozioni la produzione, gli affetti il lavoro, la famiglia il denaro, il ruolo la prestazione, la psiche il sesso, le passioni …


Le passioni, miserabili, perdute completamente nella roulette impazzita delle frammentazioni. Quale passione potrà mai risorgere dal tessuto esploso della nostra relazione al mondo?


La prescrizione è: uccidi la passione, trasformala in prestazione, in denaro.


Chi è appassionato trabocca, non sta dentro al contenitore piccolo del suo ruolo.


Ruolo, professionalità, distanza, tutti termini che appartengono al vocabolario della frantumazione e che assolvono al precipuo compito di neutralizzare le passioni, i traboccamenti, le rivendicazioni di inusitati congiungimenti.


Noi amiamo tutto questo. E’ all’ombra della separazione e della gerarchia, delle competizioni e della privacy che abbiamo edificato un mondo in cui l’unica unità di misura, neutra per eccellenza (il neutro, caro Fourier, non è il pivot delle passioni, come tramite tra i differenti, no è il suo nullificatore), è il denaro.


Ci facciamo pagare e paghiamo un’ora di cura, di massaggio, di attenzione. E che sia così. Mica che mi tocchi magari di restituire cura, massaggio o attenzione.


Fiori del solipsismo contemporaneo, la frantumazione, la separazione, la gerarchizzazione, la catalogazione dominano incontrastati.
Anche l’immersione nella natura è un gesto separato, già nel momento in cui parliamo di natura come qualcosa di separato, senza saper riconoscere (ahimé spesso perché estinta) la natura in noi. Cosa vuol dire immergersi nella natura, designare oggi qualcosa come natura, o come tempo libero, se non predisporre le condizioni di separazione necessarie perché qualcuno ne possa fare un bel pacchetto da vendere tutto completo, con musica di sottofondo?


La musica è separata, l’amore è separato, il gesto dell’insegnare è separato.


Nessuno che si doni anima e corpo, o solo anima o solo corpo. Tutti e due diventa relazione (cfr. catalogo), coppia, amore di coppia, c’è già un bel sarcofago dove metterlo a dimora, perché riposi in pace, defunto.


Eccoci, noi, fatti a pezzi. Un pezzetto di relax, un pezzetto di cultura, un pezzetto di lavoro, un pezzetto di giardinaggio, un pezzetto di pet-therapy, un pezzetto di amore, un pezzetto di dolore, un pezzetto di morte.


E’ così che abbiamo debellato la morte in fondo.


Niente vita niente morte. E’ così semplice.


Niente unità, niente fine di nulla.


Sopravvissuti sì ma come frammenti. Non sappiamo neppure mai chi siamo, ce lo prescrive il ruolo.


Toh, adesso faccio l’insegnante, e tra poco l’amante, poi dopo farò il papà e poi, chi sa, lo sportivo.


Nessun papa insegnante e amante e sportivo e addolorato e mistico mentre è padre. Nessun insegnante appassionato che faccia a pezzi le tensioni muscolari che lo ingabbiano nel ruolo.


La bellezza di non essere nessuno da nessuna parte. Fine della tenera finzione della vita integra.


Puttanate romantiche, buone tutt’al più per disperati e anarchici.


Godiamo fratelli, si può sopravvivere così, come marionette appese ai multipli fili delle nostre maschere e delle nostre difese.

Contro la vita.



Poi ci lamentiamo della disperazione.



Non dimentichiamo. Siamo grati a quella disperazione, perché viene da un luogo in cui qualcosa della vita sopravvive. Se siamo disperati, e lo siamo, oh sì, è perché qualcosa di ancora vivo in noi rilutta.



Stiamo vicino a quella disperazione, può insegnarci qualcosa, un anelito di desiderio, una voglia di partecipazione, un desiderio di riprendersi pezzo a pezzo il proprio intero e non essere più funzionari del nulla.




Prima di essere definitivamente sterminati e non avvertire neppure più il dolore, neppure un prurito.

mercoledì 11 ottobre 2017

Come restituire l'aria ai ragazzi e alle ragazze di fronte alle provocazioni della paranoia generalizzata (avanti con l'educazione diffusa!)




Reagire alla morte di un bambino che esce da scuola e viene ucciso dal traffico con la proibizione di uscire da scuola per tutti se non accompagnati, sarebbe come proibire a tutti l’uso dell’asciugacapelli solo perché a qualcuno, accidentalmente, è caduto nella vasca, folgorandolo.

Alla paranoia generalizzata di una società che in cambio di una salute micragnosa e ridotta ai minimi termini concede una libertà di esistere sempre più controllata e soffocata, occorre contrapporre un vero e “salutare”, questo sì, diritto a correre qualche rischio in nome della possibilità di fare esperienza, di essere sottratti alla vigilanza perpetua e alla interiorizzazione di un gigantesco apparato di prevenzione che non permette più a nessuno neppure di respirare serenamente.

Prevenzione sì ma non della vita, e in specie della vita dei ragazzi, costringendoli alla sorveglianza perpetua. Semmai preoccupazione per reimparare ad ospitarli, a rendere possibile il loro passaggio e il loro soggiornare nel mondo. Occorre preservare i luoghi dove essi si muovono, i loro percorsi dai ritmi imbecilli di un mondo adulto che non sa neppure più chi siano e cosa vogliono i suoi cuccioli. Che è più tranquillo sapendoli rinchiusi e vigilati mentre eseguono compiti che non hanno desiderato né scelto piuttosto che mentre vivono e si esprimono nella pienezza delle loro possibilità.

L’autonomia dei ragazzi è un bellissimo ideale, proclamato da tutti, un po’ come la partecipazione e la cittadinanza attiva. I proclami che riguardano l’educazione sono tanto lontani dalla realtà quanto la condizione effettiva dei lavoratori dalle belle idee sulle politiche del lavoro e dell’occupazione.

Ma i bambini vivono una situazione particolare, persino peggiore. Si pretende che imparino a vivere nella società venendone separati, chiusi in luoghi dove la società è ridotta a una caricatura, dove le loro libertà sono in gran parte soppresse (persino quella di provvedere ai loro bisogni fisiologici in molti casi, come andare in bagno quando ne hanno bisogno) e la loro possibilità di partecipazione, decisione e creazione sono pure illusioni.

Ora anche all’uscita di scuola debbono essere presi sotto scorta, perché inabili a muoversi nel mondo (essendo stati privati da sempre del diritto di farlo e incapaci di decodificare i segnali di pericolo che la realtà invia loro) .

Questo delirio, ahimé in crescita, va fermato, anzi invertito.

Occorre permettere a bambini e ragazzi di rientrare nel mondo come attori, soggetti e collaboratori. Deve essere ripristinato il loro diritto a conoscere il mondo direttamente, a imparare ad abitarlo, a osservarlo, a esplorarlo e intervenirvi in modo da poter essere quanto prima in grado di orientarsi al suo interno e di fare scelte che siano consonanti con le loro autentiche esigenze di affermazione personale, di sviluppo dei loro talenti e di partecipazione alle politiche che li riguardano.

Permettere ai ragazzi di andare a scuola e tornare da soli è solo un diritto microscopico, una feritoia nel controllo pervasivo e capillare delle loro vite, uno spiraglio nella prigionia adulta a cui sembrano condannati per un tempo del tutto sproporzionato alle loro capacità potenziali (sempre che siano esercitate e sviluppate).

Occorre dire di no alla paranoia generalizzata, al gioco idiota delle responsabilità scagliate dagli uni sugli altri senza mai prendere in considerazione seriamente i diritti minimi di ossigeno e libertà dei nostri bambini e dei nostri ragazzi, alla prevenzione come annichilamento della vita nel suo germogliare, crescere e moltiplicarsi.

martedì 27 giugno 2017

Il cellulare: postnichilistico e preapocalittico




Che cosa è il cellulare? Chi è? Cosa rappresenta?

Guardiamolo, questo piccolo oggetto, così maneggevole, così carezzevole, così sensibile e obbediente.

E’ minuscolo, vitale, responsivo, sta in una tasca di qualsiasi vestito, si illumina, basta sfiorarlo per entrare in contatto con lui e le sue migliaia e migliaia di possibilità.

E’ forse una bacchetta magica, la lampada di Aladino, che risponde allo sfregamento liberando un genio capace di realizzare i nostri desideri? Questo piccolo prodigio della tecnologia umana -o forse si dovrebbe dire dell’alchimia umana, se l’alchimia potesse essere piegata a scopi di soddisfazione pura come forse avrebbe voluto Faust e tanti altri adepti della pietra filosofale poco iniziati -, questo dispositivo non si può negare che possieda un alone magico.

Lo sfreghi, lo diteggi, lo palpi e lui ti dice tutto quello che vuoi sapere, ti indica dove rivolgerti per ogni desiderio e, spesso, riesce a soddisfarlo seduta stante. Vedere un parente lontano, parlargli, avere un libro, subito, in pochi semplici movimenti, leggerlo, annotarlo, avere una ricetta (strano che non te la prepari), individuare un ristorante vicino a te, o un servizio di terme, o di massaggi, o sessuale, reale ma anche virtuale. Ti permette di giocare, di investire in borsa, di diventare più o meno chi vuoi nelle sue infinite simulazioni sempre più simili alla realtà, ti permette di comprare qualunque cosa senza muoverti dalla tua comoda poltrona, di vedere ogni genere di donna o uomo e di potervi accedere, con le infinite applicazioni per gli incontri, gli intrecci, assecondando le manifestazioni più particolari e inconfessabili delle tue manie.

Si potrebbe passare giornate a elencare i suoi meriti, le sue possibilità, le infinite finestre che spalanca sul mondo, senza però ancora obbligarti a entrarvi fisicamente in contatto, sebbene molte delle avventure che cominci attraverso di esso possano costarti caro: il baratro delle spese e delle perdite d’azzardo, la diffamazione, la navigazione in acque sempre più torbide, fino ai bui scantinati della rete, dove puoi incontrare il tuo volto sconosciuto e quello dei tuoi simili più abominevoli.

Il cellulare è tutto in un certo senso. Non riduciamolo alla condizione di pura virtualità. Il cellulare spalanca le porte del reale, te le fa scoprire, è il terminale da cui puoi partire per viaggi e imprese, anche solo conoscitive ma in molti casi molto concrete, sincerandoti prima, sempre che non ti vogliano truffare, che i luoghi che hai traguardato o gli oggetti che hai ammirato attraverso la tua personale finestra, siano veramente molto simili a quelli che davvero desideri.

Il cellulare è piccolo, facilmente occultabile, il suo schermo è sempre più sofisticato, può condurti ovunque, senza fatica, per pochi soldi. E’ alla portata di tutti. E può mostrarti tutti i tipi di soddisfazione. E farteli godere. IL cellulare è la via alla soddisfazione dei desideri, intimo, confortevole, tuo. Tu con il tuo cellulare sei già tutto. Certo devi avere cura non cada nelle mani sbagliate, lì c’è la tua carta d’identità in un certo senso, non le maschere che indossi quotidianamente per fronteggiare il caos del reale, lì ci sei tu, nella nuda esposizione delle tue manie e dei tuoi desideri.

E oggi, in epoca postnichilistica, quando tutte le parodistiche costruzioni di credenze, gerarchie di valori, metafisiche, punizioni e ingiunzioni universali, giudizi finali, sensi di colpa e di peccato sono finalmente dissolti, lì puoi davvero essere come Dio, o quasi. Una buona imitazione.

Nulla ci può separare dal godimento e il cellulare lo rappresenta in tutte le sfumature possibili, allargando enormemente anche la nostra povera fantasia, offrendo sempre di più e spesso, sempre più a buon mercato.

Il cellulare è il dispositivo del godimento, subito, o tra molto poco. Grazie alla geolocalizzazione può permetterti di setacciare il tuo territorio, alla ricerca di tutto ciò che ti possa soddisfare, in incognito, grazie agli pseudonimi, ai nickname, a un po’ di maquillage, oppure più libertinamente senza veli, tu, finalmente quasi onnipotente.

Perché indignarsi? Al contrario, dovremmo rallegrarci! Fine dell’ipocrisia, fine delle mascherate, delle interpretazioni spesso grottesche di ruoli che non vogliamo, che non ci calzano. Finalmente un miglior impiego del tempo, dell’energia. Voglio conoscere qualcuno che venga in bicicletta con me? Scopro un gruppo su fb. Voglio scambiare foto di cadaveri? La selva dei siti satanisti e necrofili è fittissima. Voglio mangiare, guardare, scopare, collezionare video degli anni 70, figurine, fare la lotta con le amazzoni, in quella piccola scatola c’è tutto, perché affaticarsi. E non solo. Cercando si trova. Si trova qualcosa che non era stato pensato, qualcosa che non si era immaginato. E’ avventura, deriva, eccesso, trascendimento.

Forse non sappiamo ancora creare un mondo a immagine di ciascuno di noi, come certa narrazione fantascientifica talora ci fa immaginare ma ci siamo molto vicini.

Si tratta di un’utopia. Parliamoci chiaro. Specie in un reale che, non sappiamo se in conseguenza o come causa, si fa sempre più deserto, invivibile, contaminato, corrotto. Come orientarsi nel deserto del reale, dopo la fine di tutte le dottrine morali, di tutti i catechismi, di tutte le guide per perplessi o meno?

Con il cellulare. Nessuna angoscia metafisica, un filtro puramente funzionale: vuoi giocare d’azzardo, puoi farlo da dove ti trovi o entrare in gruppi, vuoi sparare sentendoti parte di una gang e vivendo avventure impossibili? Perché no? Osa, liberati, spingi, la vita è breve, finita, godi ora perché domani non puoi sapere.

Il cellulare è un buon inveramento del materialismo utopistico del ‘700. Fine delle ideologie, delle fedi, di qualsiasi Dio, l’avvento dell’uomo come orfano di un destino di riscatto e resurrezione ma finalmente padrone di sé, unico responsabile del suo esserci.

Qualcuno ci controlla? Ci vedono? Ci registrano? Sappiamo bene ormai che la macchina del profitto non è interessata a giudicarci quanto ad allestire nuovi scenari di godimento. Più intercetta i miei desideri più mi sarà vicina per farmene trovare di simili, per titillarmi con altre offerte, per allargare lo scenario.

Sarò io a pilotare l’offerta, -non c’è più bisogno di indurre i bisogni!-, sarò io a indurli, andando finalmente a fondo ai miei desideri, anche quelli impresentabili, che conosceremo soltanto io e l’ignoto addetto alla mia soddisfazione, complice tramite cookie, ben venga il cookie! Farò io la tattica della mia vita quotidiana, già so che se sceglierò quel bene, se solo lo cercherò, a poche ore me ne saranno presentati altri mille analoghi, ovunque io digiti, o sfreghi, o clicchi.

Dunque finalmente guardiamolo per quello che è questo oggetto, questo incredibile prodigio, e facciamocene una ragione, chi davvero vorrebbe privarsene? E per che cosa? Per tornare ai vecchi telefoni, per tornare alle ricerche infinite, quando per farsi una bibliografia (per esempio), bisognava fisicamente andare in cento biblioteche e trovare molto meno di quello che si può trovare con pochi tocchi e sfregamenti?

E poi in nome di che cosa? Del reale? Il reale, questo sconosciuto, non foss’altro perché i prospettivismi e ogni banale sociocostruttivismo ci ha finalmente dimostrato che non esiste alcun reale!

Certo, a volte, a stare troppo attaccati agli schermi, può capitare di andare addosso a qualcuno, a un palo, a una macchina, a un bambino che cammina per strada. E’ solo questione di tempo: presto i cellulari avranno i sensori di ostacolo direzionali. Ce li ficcheremo dietro un orecchio, come già stanno sperimentando e fotograferemo il reale con le notizie che ci arriveranno dritte nella memoria. Di ogni persona che incontreremo per strada sapremo vita, morte e miracoli, secondo schede predisposte dall’utente si intende, oppure chissà, grazie a password molto più care, potremo entrare nella memoria dei suoi tracciati e vedere fin dove si è spinta la sua audacia o il suo orrore. Potremo decidere se frequentarlo o meno, se è libero o meno, se è disponibile, secondo un rapido sistema di stimolo-risposta.

Quando penso alla verità e ai suoi fondi, alle sue profondità, mi viene sempre in mente quell’ormai vecchio film di Tarkovskij, Stalker, in cui tre tipi umani vogliono raggiungere il luogo dove si realizzano i desideri. Ma sono uomini di un altro tempo, ancora aggrappati a dei valori, o anche solo alla loro rifondazione. E nessuno avrà il coraggio di entrarci, nel luogo, nella stanza. Anche perché, come dice uno dei tre, lo Scrittore, “non vorrei vedere uscire lo schifo che c’è dentro di me”.

Ma chi ha paura ormai del proprio schifo? E poi schifo agli occhi di chi? Per noi postumani…

Come comportarsi allora con questi straordinari analizzatori della nostra verità, delle nostre pulsioni come dei nostri camuffamenti?

Vogliamo proteggere i bambini? Gli adolescenti? E come fare? Noi lì immersi nel brago digitale e loro a digiuno. Occorrerebbe creare dispositivi per bambini, per i quali si prevedano continui divieti d’accesso almeno nei gironi più infernali della grande beneficenza visuale e interattiva. Ma in cambio di che cosa? Degli scenari appetibili e affascinanti che abbiamo preparato per loro? A cominciare dal deserto della scuola? E dal deserto delle città? E dal deserto di molte famiglie? E del lavoro? Che cosa abbiamo da offrirgli per distoglierli dal gioco più divertente e inesauribile, appena a pochi millimetri dalla possibilità di farne un tracciato vitale in continua espansione? E noi poi? Siamo forse meglio? Chi è meglio lanci la prima pietra!

Se proprio non vogliamo però questo mondo di godimento individuale, un po’ atomizzato certo, un po’ disperato forse, come ogni forma di dipendenza del resto, e questa è una dipendenza dai mille volti, dobbiamo pensare un’alternativa credibile ad esso.

Occorre rifondare un reale degno di essere esperito, vissuto, goduto, collettivamente, se non ci piace l’individualismo, ma per questo c’è parecchio da fare, perché tra cellulare e reale bruto c’è una sorta di corrispondenza inversa. Più si impoverisce l’uno e più si arricchisce l’altro. E di sicuro oggi a impoverirsi non è il mondo infinito e stupefacente dentro ai cellulari, come è di tutta evidenza.

Vogliamo riappropriarci del cosiddetto reale, la concretezza delle cose, quelle in cui inciampiamo o ci incontriamo corpo a corpo? C’è tanto tanto da fare. Vogliamo rinverdire lo stato delle relazioni umane non sottoposte a commercio e protocolli normativi? C’è tanto tanto da fare. Vogliamo più affettività, più piacere, più condivisione, più solidarietà? Forse non c’è davvero più tempo. O forse no.

E’ per questo che siamo prossimi ad un apocalisse. Ad una rivelazione.

Di una siamo già testimoni: quella che ci mostra la verità nuda e cruda del nostro desiderio, finalmente. Oppure.

Oppure sta a noi immaginarne un’altra, di rivelazione, o di catastrofe.

sabato 17 giugno 2017

Cronache dei nostri giorni: una ragazzina si taglia


Cronache dei nostri giorni: una ragazzina, chiamiamola Luna, posta su Instagram un video dove balla seminuda. Luna ha dodici anni.

I suoi compagni di scuola la vedono e cominciano a lapidarla di insulti tra cui quello di puttana è fra i più gettonati.

Luna si riempie di tagli un braccio e lo posta con il commento: -E’ questo che volevate?-

Cronache dal deserto del reale contemporaneo. Nulla di nuovo si intende. Ci abbiamo fatto l’abitudine. Squadre di psicologi di tutte le razze, dagli psicoanalisti ai mental coach a indicare l’origine del male. Eccesso di aspettative, brusche ritirate affettive genitoriali dopo averli idolatrati in infanzia, vulnerabilità narcisistica, la civiltà della popolarità e della visibilità, la gara per primeggiare nello show totale diffusa da talent e altre fonti imbecilli.

Tutto vero. L’autolesionismo piaga di un’età difficile, che odia tutti e soprattutto la propria limitatezza rispetto a ideali che la dominano e la umiliano. Genitori assenti, padri evaporati, famiglie che non ascoltano. Ecc. ecc.

Ma chi è Luna? A ritrarla forse occorrerebbe la penna di un grande romanziere, qualcuno che sappia entrare nel dolore e in quella sensazione di totale disperazione che prende chi si sente incompreso, abbandonato, umiliato. Forse ci vorrebbe un Foster Wallace per penetrare, anche con il lessico e la sensibilità scorticata di un sofferente, dentro quel corpo scosso, quella mente sconvolta.

Patire il male, infliggersi il male. Prove di suicido. Ammazzare il male con il male. Cura omeopatica.

Gli adolescenti godono di cattiva fama da quando sono stati inventati. Hanno tutte le patologie immaginabili. Stanno lì, nella terra di nessuno, in attesa di portare a termine le tribolazioni di chi è nomade e profugo. Gli adolescenti sono in transito, come una tribù del deserto. Portano sulle spalle le macerie di un’età (idealmente) felice (o felice sicuramente come sostengono certi psicoanalisti che vedono ovunque “famiglie affettive”) e cercano a tastoni i lembi per cucire la veste che li possa proteggere da un’età di rendiconti e di minacciose verifiche che sta arrivando (come in un bel quadro di Dino Valls).

Poveri infelici adolescenti.

Ma è davvero così, o meglio, dovrebbe essere davvero così? O forse c’è un’incredibile falla nel sistema di elaborazione dell’esperienza di questa categoria di esseri umani così sensibile, delicata, acuta, nella vertigine di anni che potrebbero essere smisuratamente intensi e magnifici?

Come potresti essere Luna, misteriosa Luna? Verrebbe da dire leopardianamente.

Chi ha piazzato questi esseri metamorfici, meteorici, mercuriali, aperti a tutti e che tutto sono in grado di gustare, di sperimentare, di godere, nelle celle buie di un percorso ad ostacoli, nel labirinto di un’iniziazione così fitta di prove, di controlli e di sanzioni che neanche per vincere la cintura dei pesi massimi?

Gli adolescenti, Luna, sono come te. Desideranti, belli, freschi, talora ingenui e anche arroganti, la roca arroganza di chi sta mutando pelle e vorrebbe saper subito interpretare il ruolo di protagonista. Ma hanno anche tutte le tue paure, di non essere capita, apprezzata, desiderata, amata. Vedono spesso più i propri difetti che le proprie qualità, sono impauriti da figure adulte che li trattano come mancanti, mutilati, in rodaggio, quando va bene. O semplicemente come reclute da prendere a ceffoni perché così va la vita, nella caserma del mondo.

Ma tu che volevi Luna, inquieta Luna?

Cercavi di essere vista, lodata, abbracciata da una folla di fan. Desiderio normale, innocente, chi non lo vorrebbe? Hai cercato di ottenere quello sguardo con quello che gira, con le droghe che girano, con i veicoli dalle mille trappole che questo mondo ti ha messo a disposizione. E cosa ne hai ritirato? Biasimo, vessazioni, flagellazione. Chi non cadrebbe di fronte a questa mancanza di ospitalità, di comprensione, di delicatezza?

E allora prendiamocela con quegli altri, i compagni, bruti, bulli, debosciati. Come se loro invece vivessero in un mondo capace di accoglierli, di ospitarli, di accudirne le debolezze, le sensibilità estreme, le pelli troppo sottili anche solo per essere avvicinate.

Vittime entrambe della bruttura dei genitori, certo, della loro distrazione, del loro ombelico, dell’attenzione frettolosa e impaziente.

Certo, sono loro i colpevoli, secondo gli psicologi. Gli psicologi vedono solo le relazioni primarie. Non sembrano vedere che tutti quanti vanno in scena in un dramma i cui copioni sono scritti dalle strutture sociali, da quelle del lavoro, da quelle del denaro, da quelle stomachevoli e senza pietà dei profitti di pochi a danno di tutti gli altri.

No, gli psicologi affondano le loro zanne piene di buone intenzioni nei corpi delle vittime per rinviarli a sé stessi, ai loro limiti e alle loro mancanze. Bravi psicologi, sempre alleati con il potere.

Ma questi adolescenti, queste famiglie non sono il prodotto di sé stesse, ma di un sistema di pressioni, un reticolo di vincoli spazio-temporali, di ingiunzioni produttive, di ingabbiamenti fisici, emotivi, cognitivi che viene ben prima che una famiglia si costituisca e si costituisca secondo il regime di produzione che le genera a sua immagine e somiglianza.

Poi certo, qualcuno sbaglia di più. E allora pronti a condannare e crocifiggere la mamma che cede all’impulso primitivo, all’uomo che uccide tutti compreso sé stesso, all’adolescente bambina che si prostituisce o a quello che dorme sul banco o si devasta di droga tra gli specchi di una discoteca. Stuoli di specialisti che si mobilitano. Psicologi, criminologi, giornalisti, antropologi, ognuno secondo la fetta di spazio conoscitivo che il filo spinato delle discipline (esse stesse figlie della forma separatrice e gerarchica di questo potere) gli consente, per giungere a non capire nulla del fenomeno, imprigionati come sono dentro a griglie interpretative tanto specialistiche quanto inutilizzabili.

Guardate Luna, guardate la sua dolcezza stremata, disperata, guardate questi tagli e tacete una buona volta, venditori di gadget buoni per la fiera del paese.

Occorre cogliere il luogo, lo status in cui versano famiglie e bambini e genitori e singoli. Tutti affratellati dall’essere ingranaggi di una stessa macchina che non ha alcun interesse a cogliere la singolarità di ogni vita. A “vedere” ogni vita che viene e diviene, e dovrebbe venire e divenire secondo la sua specifica cifra costitutiva, la sua stortura anche, la sua camminata indolente, la sua pettinatura disordinata.

James Hillman mi ha insegnato che l’adolescente ha bisogno di essere “visto” ma non dallo sguardo classificatorio, diagnostico, prognostico dello psicoterapeuta, ma da quella intelligenza immaginativa che sa cogliere, in virtù di una protratta attenzione, di un’autentica ospitalità, la sua voce, il suo tratto, la sua domanda, il suo desiderio. Solo allora si apre una porta.

Ma il nostro sistema di potere non vuole che ad occuparsi dei ragazzi e dei bambini ci siano persone di anima, di “capacità negativa” (come diceva Keats), di fiducia profonda nelle possibilità di ciascuno, di apertura a quella che Hillman chiama “eachness”, ciascunità, il diritto di ognuno a divenire quello che è.

Noi abbiamo fatto in modo che tutti fossero ingabbiati nelle stesse attese, negli stessi gironi di apprendimento dell’inferno che tutti ci aspetta, non voluto da nessuno eppure accettato da tutti, o quasi.

Di sicuro voluto da chi pensa che gli uomini siano votati al sacrificio, alla disperazione e alla vita da sudditi, in onore di non si sa bene quale funzione superiore, economia, religione, scienza, qualsiasi ridicola bandiera torbidamente umana.

Per questo ti chiedo scusa Luna, per la follia che domina il nostro mondo, le sue strutture coriacee, a partire da quella scuola dove probabilmente nessuno è riuscito a vederti. Né i tuoi compagni, che non potevano, accecati come te da chi non vuole che la tua vita sia degna di essere vissuta, né i tuoi genitori, forse anch’essi troppo deboli e intontiti dal fracasso di questa macchina spietata che è diventato il mondo, né i tuoi insegnanti, troppo spesso solo pronti a galleggiare sopra il male che perpetuano.

Ti chiedo scusa anch’io, per non averti saputa vedere, per tutti quelli che non ti sanno vedere, con quello che credo sia giusto chiamare l’ “occhio del cuore”, in onore non solo a Saint-Exupery ma anche a quello sguardo che sa accogliere il non visto, il non visibile in una forma interna, immaginale, alla fine di quell’attesa che è parte della visione autentica chiamata nella mistica sufi “doccia di stelle” .

La religione del nostro tempo ci ha mutilato di quella vista.